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Pace, Guerra e ….. Conflitto

In queste settimane di agonia preparatoria alla Guerra, da una parte, e di emersione altalenante di appelli, dall'altra, sono stato spesso colpito da come nella polarizzazione tra pacifisti e interventisti, fosse escluso qualsiasi riferimento al Conflitto. Unica eccezione l'utilizzo della parola conflitto come sinonimo di guerra. A mio parere non si tratta di sinonimi: le parole in gioco sono tre pace, conflitto, guerra. E la guerra non è altro che una elaborazione patologica e insana del conflitto, elaborazione paranoica del lutto, della mancanza, delle frustrazioni. Il conflitto è una realtà quotidiana, è interno e relazionale, familiare, legato al lavoro e agli affetti, individuali, di coppia e sociali. Il conflitto è la sostanza della vita di tutti i giorni; è perciò di importanza primaria approfondire se siamo abili, capaci, all'altezza dell'elaborazione di ciò il conflitto comporta. Bion afferma "il conflitto ha bisogno di conoscere e ha bisogno di negare". A fronte della scelta dell'elaborazione pacifica e dolorosa del conflitto di chi è animato dal bisogno di conoscere, di vedere in sé stesso, nella propria parte e nella parte avversa, nelle tante parti, come stanno le cose e, quindi è capace di entrare in una depressione positiva, che comporta l'invenzione di quello che altrimenti non sarebbe inventabile, la messa in stato di crisi della propria ideologia, della propria religione, della propria fede. Oggi però ci troviamo sempre più spesso di fronte alla "ritualizzazione dell'altro" nell'elaborazione del conflitto, processo in base al quale l'Altro viene prima identificato, poi connotato e quindi demonizzato per essere attaccato; il soggetto da possibile interlocutore diventa oggetto di paura ed eletto a nemico. Das Unheimliche, il perturbante di Freud, che potremo tradurre con lo "spaesante", cioè ciò che ti presenta un aspetto di te che è tuo, ma che hai espulso e non vuoi rivedere. Inquietante perché è il ritorno del rimosso. In Saddam ci sono caratteri che ricordano a Bush jr. quello che lui non vuol vedere: in fin dei conti Saddam ha fatto al Kuwait molto meno di quanto hanno fatto gli Americani in giro per il mondo. Abbiamo bisogno del nemico (questa è la paranoia) quanto più l'invenzione, l'esistenza del nemico ci permette di pensare, di supporre che il male, il pericolo, la cosa da eliminare sia là, evitando di vedere il nemico che c'è qui, dentro di noi, tra di noi. L'elezione di un nemico esterno aiuta ad evitare la depressione, insorgente dall'improvviso crearsi di un vuoto. Il vuoto che accompagna il conflitto e che a livello collettivo può generare psicosi (horror vacui). Vuoto che può altresì essere generativo (stupor vacui), nel vedere l'altro, il diverso, non come un pericolo, ma come un potenziale alleato, comunque come uno stimolo a pensare diversamente, in un modo inedito. Tutto ciò è possibile se c'è una disposizione a interrogare il controtransfert, cioè ad interrogarsi su ciò che muove dentro di me quello che sta succedendo. Questo permette di utilizzare le proprie risorse in modo generativo e di riconoscere quello che "dipende da me". Ma l'auspicio di chi coltiva la pace e denuncia la guerra sapendola dolorosa, difficile, travagliata non può evitare di domandarsi qual è la strada per vincere la resistenza che si radica negli atteggiamenti paranoici. Resistenza nascente dal desiderio di non soffrire le pene della depressione. Dunque il pacifista dovrebbe sentirsi responsabile delle angosce e delle difese che genera nell'altro. Altrimenti è un'anima bella, ma irresponsabile, perché invece di promuovere la conversione verso una sana elaborazione della conflittualità non fa altro che esasperare la situazione. Altrimenti il grido Viva la Pace, se è solo grido settario, non smonta il bellicismo, anzi….poichè la paranoia ha le sue ragioni, perché la diversità fa paura! In questo senso alla vera dissacrazione della guerra si perviene nell'accettazione convinta dell'ambiguità, antidoto dello schizofrenico e paranoico aut-aut, fonte micidiale di ogni ………-cidio e -fismo. E la triade guerra/pace/conflitto è sostenuta da un altro aspetto delle relazioni umane, quello riguardante l'aggressività. Aggressività che viene da aggredior (avvicinarsi), dal moto del maschio che si avvicina alla femmina in vista dell'accoppiamento. L'aggressività nasce dalla sessualità e il suo andare verso si trasforma, nella storia dell'umanità, inizia a significare l'andare contro, la violenza dell'uno verso l'altro. Ma non è tanto l'aggressività in sé, quanto la rimozione dell'aggressività che crea difficoltà a elaborare e comunicare il conflitto, la capacità di riconoscere il conflitto. E oggi questa rimozione è l'enzima degli accessi violenti, intersoggettivi e collettivi. L'anestesia locale/totale, singolare/collettiva che pervade la contemporaneità priva la possibilità di agire l'aggressività, che una volta rimossa, sbuca fuori con grande intensità, fragore, imprevedibilità. Nelle famiglie, per strada, nel mondo.Con buona Pace di tutte le Guerre.

 

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