1. Complessità della gastronomia
Siamo inondati dai programmi televisivi di gastronomia. Quello che
la mamma o la moglie fanno 2/3 volte al giorno con noncuranza, viene
presentato come un'impresa culturale titanica. Il merito di queste
trasmissioni è portarci a rivalutare le nostre casalighe più
esperte.
Le difficoltà cominciano dagli strumenti. In
cucina ci sono decine di attrezzi, di cui bisogna conoscere nome e
funzione. Chi cucina deve decidere se usare un tipo di pentola o un'altra
(rame, terracotta, acciaio, ecc.), quale tipo di coltello, il piatto
più adatto; deve sapere come usare il frigorifero, il forno,
l'abbattitore e l'affumicatore.
Poi bisogna conoscere bene le materie prime. Qui servono
le conoscenze di un microbiologo, di un agronomo e di un nutrizionista.
Noi profani diciamo patata, cipolla, farina o sale perchè non
sppiamo che esistono 54 varietà di patate, 20 di cipolle, più
di 20 di farina e 10 di sale (ciascuna delle quali ha un uso diverso
in cucina). Non sappiamo riconoscere i funghi edibili. Non abbiamo
la più pallida idea di quante calorie produca un piatto di
ceci. Non distinguiamo il timo dal dragocello. Ignoriamo del tutto
la funzione dell'amido nel riso o nella pasta.
La procedura è lo scoglio più grande.
E' la fase dei segreti e delle intuizioni creative di chi cucina.
Mettere il sale prima o dopo. Cuocere a fuoco lento o vivace. Col
coperchio o senza. Usare l'olio o il burro. Aggiungere pepe nero,
bianco o rosa. Quale erba spruzzare nel sugo o sul piatto. Che tipo
di formaggio si può abbinare meglio al piatto. Quando mettere
in pentola l'aceto o il vino, e quale vino. Va aggiunto o no un pizico
di zucchero. E così per centinaia di decisioni.
La stessa nomenclatura dei piatti è complicata. Pancetta e
uovo è carbonara. Pancetta, cacio e pepe si chiama gricia.
Pancetta e pomodoro uguale amatriciana.
I giapponesi fanno un sushi (riso e pesce) che cambia nome secondo
il tipo di pesce usato.
Non tutte le casalinghe sanno superare queste difficoltà:
solo quelle che hanno avuto buone maestre (di solito le loro madri
o nonne) e che si impegnano in cucina da almeno 10 anni. Solo i cuochi
professionali che hanno avuto una buona scuola, un buon tirocinio,
e parecchia esperienza, sbagliano raramente il risultato. La maggioranza
prepara dei parti ad umore, secondo il caso, come capita. Qualche
volta va bene anche così. Spesso "andiamo in pizzeria".
Cosa distingue chi cucina come capita e chi lo fa con grande esperienza
o professionalmente?
Il metodo (modo codificato di operare per ottenere
uno scopo) o il protocollo (complesso di regole e procedure
cui ci si deve attenere in determinate attività). Un insieme
foltissimo di regole tramandate da generazioni nel caso delle cuoche
di famiglia, o acquisito con un lungo percorso di formazione nel caso
di cuochi professionali. Regole che si possono anche trasgredire o
innovare, ma con serie sperimentazioni e parecchi tentativi.
2. Volontari e professionisti
Il temine "volontario" qui si intende esteso a 4 tipologie:
a. coloro che prestano la propria opera gratuitamente, essendo titolari
di redditi da altre fonti (gli unici veri volontari)
b. quelli che prestano la propria collaborazione come studenti o tirocinanti,
cioè allo scopo di imparare
c. i giovani che partecipano al Servizio Civile o ad associazioni
dilettantistiche, per crescita personale
d. coloro che svolgono un lavoro sotto-pagato o in nero, per il quale
non hanno alcuna preparazione
C'è un volontariato che non può nuocere, perchè
lavora con le cose. Questo tipologia non ha tante occasioni di fare
disastri. Allestire un presepe in un asilo, raccogliere rifliuti su
una spiaggia, partecipare a una raccolta fondi sono azioni tipiche
del volontariato, che non richiedono grandi conoscenze e non possono
nuocere. Non servono metodi e protocolli. Bastano dedizione e buona
volontà. E' la situazione dei cuochi casalinghi, volontari
e dilettanti, che fanno del loro meglio, senza il rischio di nuocere.
C'è invece un tipo di volontariato che può nuocere,
perchè lavora con le persone. I fallimenti di questi volontari
sono dannosi, addirittura traumatici, per loro stessi e per gli utenti.
I volontari che lavorano con le persone sono (fra gli altri) le baby-sitters
non professionali; gli operatori di comunità terapeutica (che
hanno come solo curriculum quello di essere ex-utenti); gli allenatori
sportivi per minori (che sanno tutto sullo sport, e niente sull'educazione);
le badanti di anziani; gli animatori di associazioni e gruppi giovanili.
Si tratta di almeno 1 milione di persone con circa 10.000.000 di utenti.
A questi operatori, per non nuocere, servirebbero metodi e protocolli,
ma non li hanno perchè non sono professionisti, non hanno formazione,
non lavorano in èquipes, non hanno supervisione se non da volontari
come loro.
Chi lavora con le persone deve prendere decine di micro-decisioni
non diverse da quelle che si prendono in gastronomia. Da ciascuna
decisione dipende la riuscita maggiore o minore del lavoro.
Gli strumenti della gastronomia corrispondono a quello
che che le professioni chiamano setting: aula o stanza
dell'incontro; sedie, poltrone o tavoli, materiali per attività
espressive; lavagna a fogli mobili; impianti di registrazione audio-video;
vetro-specchio. Come devono essere? Quanti e in quali casi si devono
usare ?
La materie prime sono l'operatore e gli utenti. Di che
sesso è meglio che sia l'operatore; come devono vestirsi operatore
e utente; che relazione pregresse esistono fra operatore e utente;
se l'utente è un gruppo, da quanti e quali soggetti deve essere
composto.
Infine, anche qui la procedura è lo scoglio maggiore.
Il lavoro del professionista sociale si basa su tre modalità:
corporea, verbale, attiva. Usare o no il corpo. Usare le parole o
il silenzio. Fare un'attività o un'altra o nessuna. Prendere
appunti o registrare. Ognuna delle tre modalità ha decine di
declinazioni, ciascuna delle quali influisce sul risultato.
3. Il disastro del volontariato nel welfare
I maggiori danni che questi volontari possono fare a se stessi e
ai loro utenti sono:
a. incuria o cura insufficiente/inadeguata (la baby-sitter
non cambia il pannolino al neonato o riempie di caramelle i bambini;
l'animatore/educatore si perde una bambina durante una gita nei boschi;
la badante alimenta l'utente col solo cibo che sa fare, senza badare
alla dieta)
b. educazione errata (l'operatore di comunità impone
la preghiera; l'allenatore stimola l'iper-agonismo; la baby-sitter
incita la bambina a farsi un tatuaggio o aspirare a un look costoso;
la badante decide cosa l'anziano debba vedere in tv; l'animatore giovanile
fuma marijuana o lascia che la fumino gli utenti)
c. iper-coinvolgimento emotivo (non si contano i casi
di relazioni amorose fra operatori e utenti di comunità, animatori
e utenti di gruppi giovanili, adolescenti e baby sitter, badanti e
utenti anziani, allenatori sportivi e genitori degli utenti; come
sono frequenti i casi di difficoltà nel distacco da parte del
volontario o da parte dell'utente; o i casi di sotituzione delle figure
parentali con quella del volontario)
d. burn-out (dopo qualche anno di lavoro con le persone,
magari anche a disagio, in organizzazioni spesso confuse, senza il
conforto/confronto di colleghi o superiori, tutti gli operatori rischiano
il cortocircuito -burnout- che li porta a odiare il lavoro, l'ambiente
di lavoro e l'utente; fino ad arrivare ai tanti episodi sadici segnalati
dalle cronache)
Contro i danni possibili il volontario è disarmato. Non dispone
di un metodo, di un protocollo, di un patrimonio formativo cui riferirsi
e dietro cui tutelare se stesso e l'utente.
Infine, c'è un danno non trascurabile che i volontari procurano
al welfare state. La perdita di quasi un milione di posti di lavoro
e la dequalificazione di tutti i servizi alla persona. Chi vorrebbe
un volontario (di gran cuore) in sala operatoria o in uno studio che
progetta grattacieli? Eppure è a volontari senza conoscenze
o competenze specifiche che affidiano, bambini, adolescenti, giovani,
disabili, dipendenti e anziani.
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