A chi legge
Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte
compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli,
frammischiate poscia co' riti longobardi, ed involte in farraginosi
volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione
di opinioni che da una gran parte dell'Europa ha tuttavia il nome
di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dì d'oggi
che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro,
un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno
le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbono
reggere le vite e le fortune degli uomini. Queste leggi, che sono
uno scolo de' secoli i piú barbari, sono esaminate in questo
libro per quella parte che risguarda il sistema criminale, e i disordini
di quelle si osa esporli a' direttori della pubblica felicità
con uno stile che allontana il volgo non illuminato ed impaziente.
Quella ingenua indagazione della verità, quella indipendenza
delle opinioni volgari con cui è scritta quest'opera è
un effetto del dolce e illuminato governo sotto cui vive l'autore.
I grandi monarchi, i benefattori della umanità che ci reggono,
amano le verità esposte dall'oscuro filosofo con un non fanatico
vigore, detestato solamente da chi si avventa alla forza o alla
industria, respinto dalla ragione; e i disordini presenti da chi
ben n'esamina tutte le circostanze sono la satira e il rimprovero
delle passate età, non già di questo secolo e de'
suoi legislatori.
Chiunque volesse onorarmi delle sue critiche cominci dunque dal
ben comprendere lo scopo a cui è diretta quest'opera, scopo
che ben lontano di diminuire la legittima autorità, servirebbe
ad accrescerla se piú che la forza può negli uomini
la opinione, e se la dolcezza e l'umanità la giustificano
agli occhi di tutti. Le mal intese critiche pubblicate contro questo
libro si fondano su confuse nozioni, e mi obbligano d'interrompere
per un momento i miei ragionamenti agl'illuminati lettori, per chiudere
una volta per sempre ogni adito agli errori di un timido zelo o
alle calunnie della maligna invidia.
Tre sono le sorgenti delle quali derivano i principii morali e politici
regolatori degli uomini. La rivelazione, la legge naturale, le convenzioni
fattizie della società. Non vi è paragone tra la prima
e le altre per rapporto al principale di lei fine; ma si assomigliano
in questo, che conducono tutte tre alla felicità di questa
vita mortale. Il considerare i rapporti dell'ultima non è
l'escludere i rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, benché
divine ed immutabili, furono per colpa degli uomini dalle false
religioni e dalle arbitrarie nozioni di vizio e di virtú
in mille modi nelle depravate menti loro alterate, cosí sembra
necessario di esaminare separatamente da ogni altra considerazione
ciò che nasca dalle pure convenzioni umane, o espresse, o
supposte per la necessità ed utilità comune, idea
in cui ogni setta ed ogni sistema di morale deve necessariamente
convenire; e sarà sempre lodevole intrappresa quella che
sforza anche i piú pervicaci ed increduli a conformarsi ai
principii che spingon gli uomini a vivere in società. Sonovi
dunque tre distinte classi di virtú e di vizio, religiosa,
naturale e politica. Queste tre classi non devono mai essere in
contradizione fra di loro, ma non tutte le conseguenze e i doveri
che risultano dall'una risultano dalle altre. Non tutto ciò
che esige la rivelazione lo esige la legge naturale, né tutto
ciò che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli
è importantissimo di separare ciò che risulta da questa
convenzione, cioè dagli espressi o taciti patti degli uomini,
perché tale è il limite di quella forza che può
legittimamente esercitarsi tra uomo e uomo senza una speciale missione
dell'Essere supremo. Dunque l'idea della virtú politica può
senza taccia chiamarsi variabile; quella della virtú naturale
sarebbe sempre limpida e manifesta se l'imbecillità o le
passioni degli uomini non la oscurassero; quella della virtú
religiosa è sempre una costante, perché rivelata immediatamente
da Dio e da lui conservata.
Sarebbe dunque un errore l'attribuire a chi parla di convenzioni
sociali e delle conseguenze di esse principii contrari o alla legge
naturale o alla rivelazione; perché non parla di queste.
Sarebbe un errore a chi, parlando di stato di guerra prima dello
stato di società, lo prendesse nel senso hobbesiano, cioè
di nessun dovere e di nessuna obbligazione anteriore, in vece di
prenderlo per un fatto nato dalla corruzione della natura umana
e dalla mancanza di una sanzione espressa. Sarebbe un errore l'imputare
a delitto ad uno scrittore, che considera le emanazioni del patto
sociale, di non ammetterle prima del patto istesso.
La giustizia divina e la giustizia naturale sono per essenza loro
immutabili e costanti, perché la relazione fra due medesimi
oggetti è sempre la medesima; ma la giustizia umana, o sia
politica, non essendo che una relazione fra l'azione e lo stato
vario della società, può variare a misura che diventa
necessaria o utile alla società quell'azione, né ben
si discerne se non da chi analizzi i complicati e mutabilissimi
rapporti delle civili combinazioni. Sí tosto che questi principii
essenzialmente distinti vengano confusi, non v'è piú
speranza di ragionar bene nelle materie pubbliche. Spetta a' teologi
lo stabilire i confini del giusto e dell'ingiusto, per ciò
che riguarda l'intrinseca malizia o bontà dell'atto; lo stabilire
i rapporti del giusto e dell'ingiusto politico, cioè dell'utile
o del danno della società, spetta al pubblicista; né
un oggetto può mai pregiudicare all'altro, poiché
ognun vede quanto la virtú puramente politica debba cedere
alla immutabile virtú emanata da Dio.
Chiunque, lo ripeto, volesse onorarmi delle sue critiche, non cominci
dunque dal supporre in me principii distruttori o della virtú
o della religione, mentre ho dimostrato tali non essere i miei principii,
e in vece di farmi incredulo o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo
logico o inavveduto politico; non tremi ad ogni proposizione che
sostenga gl'interessi dell'umanità; mi convinca o della inutilità
o del danno politico che nascer ne potrebbe dai miei principii,
mi faccia vedere il vantaggio delle pratiche ricevute. Ho dato un
pubblico testimonio della mia religione e della sommissione al mio
sovrano colla risposta alle Note ed osservazioni; il rispondere
ad ulteriori scritti simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque
scriverà con quella decenza che si conviene a uomini onesti
e con quei lumi che mi dispensino dal provare i primi principii,
di qualunque carattere essi siano, troverà in me non tanto
un uomo che cerca di rispondere quanto un pacifico amatore della
verità.
INTRODUZIONE
Gli uomini lasciano per lo piú in abbandono i piú
importanti regolamenti alla giornaliera prudenza o alla discrezione
di quelli, l'interesse de' quali è di opporsi alle piú
provide leggi che per natura rendono universali i vantaggi e resistono
a quello sforzo per cui tendono a condensarsi in pochi, riponendo
da una parte il colmo della potenza e della felicità e dall'altra
tutta la debolezza e la miseria. Perciò se non dopo esser
passati framezzo mille errori nelle cose piú essenziali alla
vita ed alla libertà, dopo una stanchezza di soffrire i mali,
giunti all'estremo, non s'inducono a rimediare ai disordini che
gli opprimono, e a riconoscere le piú palpabili verità,
le quali appunto sfuggono per la semplicità loro alle menti
volgari, non avvezze ad analizzare gli oggetti, ma a riceverne le
impressioni tutte di un pezzo, piú per tradizione che per
esame.
Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon
esser patti di uomini liberi, non sono state per lo piú che
lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita
e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo
esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse
le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo
punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero.
Felici sono quelle pochissime nazioni, che non aspettarono che il
lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere
all'estremità de' mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono
i passaggi intermedi con buone leggi; e merita la gratitudine degli
uomini quel filosofo ch'ebbe il coraggio dall'oscuro e disprezzato
suo gabinetto di gettare nella moltitudine i primi semi lungamente
infruttuosi delle utili verità.
Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano e i sudditi,
e fralle diverse nazioni; il commercio si è animato all'aspetto
delle verità filosofiche rese comuni colla stampa, e si è
accesa fralle nazioni una tacita guerra d'industria la piú
umana e la piú degna di uomini ragionevoli. Questi sono frutti
che si debbono alla luce di questo secolo, ma pochissimi hanno esaminata
e combattuta la crudeltà delle pene e l'irregolarità
delle procedure criminali, parte di legislazione cosí principale
e cosí trascurata in quasi tutta l'Europa, pochissimi, rimontando
ai principii generali, annientarono gli errori accumulati di piú
secoli, frenando almeno, con quella sola forza che hanno le verità
conosciute, il troppo libero corso della mal diretta potenza, che
ha dato fin ora un lungo ed autorizzato esempio di fredda atrocità.
E pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele ignoranza ed
alla ricca indolenza, i barbari tormenti con prodiga e inutile severità
moltiplicati per delitti o non provati o chimerici, la squallidezza
e gli orrori d'una prigione, aumentati dal piú crudele carnefice
dei miseri, l'incertezza, doveano scuotere quella sorta di magistrati
che guidano le opinioni delle menti umane.
L'immortale Presidente di Montesquieu ha rapidamente scorso su di
questa materia. L'indivisibile verità mi ha forzato a seguire
le tracce luminose di questo grand'uomo, ma gli uomini pensatori,
pe' quali scrivo, sapranno distinguere i miei passi dai suoi. Me
fortunato, se potrò ottenere, com'esso, i segreti ringraziamenti
degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò
inspirare quel dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono
a chi sostiene gl'interessi della umanità!
Cap.1 - ORIGINE DELLE PENE
Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed
isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo
stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall'incertezza
di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante
con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni
di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità
di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario
ed amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito,
bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in
particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non
solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri.
Vi volevano de' motivi sensibili che bastassero a distogliere il
dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell'antico caos
le leggi della società. Questi motivi sensibili sono le pene
stabilite contro agl'infrattori delle leggi. Dico sensibili motivi,
perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non
adotta stabili principii di condotta, né si allontana da
quel principio universale di dissoluzione, che nell'universo fisico
e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono
i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per contrabilanciare
le forti impressioni delle passioni parziali che si oppongono al
bene universale: né l'eloquenza, né le declamazioni,
nemmeno le piú sublimi verità sono bastate a frenare
per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti
presenti.
Cap.2 - DIRITTO DI PUNIRE
Ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità, dice il
grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può
rendere piú generale cosí: ogni atto di autorità
di uomo a uomo che non derivi dall'assoluta necessità è
tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto
del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere
il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari;
e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú sacra
ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà
che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e
in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto del
sovrano di punire i delitti, poiché non è da sperarsi
alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata
su i sentimenti indelebili dell'uomo. Qualunque legge devii da questi
incontrerà sempre una resistenza contraria che vince alla
fine, in quella maniera che una forza benché minima, se sia
continuamente applicata, vince qualunque violento moto comunicato
ad un corpo.
Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà
in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che ne' romanzi;
se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano
gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le
combinazioni del globo.
La moltiplicazione del genere umano, piccola per se stessa, ma di
troppo superiore ai mezzi che la sterile ed abbandonata natura offriva
per soddisfare ai bisogni che sempre piú s'incrocicchiavano
tra di loro, riuní i primi selvaggi. Le prime unioni formarono
necessariamente le altre per resistere alle prime, e cosí
lo stato di guerra trasportossi dall'individuo alle nazioni.
Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere
parte della propria libertà: egli è adunque certo
che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima
porzion possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo.
L'aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto
di punire; tutto il di piú è abuso e non giustizia,
è fatto, ma non già diritto. Osservate che la parola
diritto non è contradittoria alla parola forza, ma la prima
è piuttosto una modificazione della seconda, cioè
la modificazione piú utile al maggior numero. E per giustizia
io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti
gl'interessi particolari, che senz'esso si scioglierebbono nell'antico
stato d'insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la
necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor
natura. Bisogna guardarsi di non attaccare a questa parola giustizia
l'idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di
un essere esistente; ella è una semplice maniera di concepire
degli uomini, maniera che influisce infinitamente sulla felicità
di ciascuno; nemmeno intendo quell'altra sorta di giustizia che
è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle
pene e ricompense della vita avvenire.
Cap.3 - CONSEGUENZE
La prima conseguenza di questi principii è che le sole leggi
possono decretar le pene su i delitti, e quest'autorità non
può risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta
la società unita per un contratto sociale; nessun magistrato
(che è parte di società) può con giustizia
infligger pene contro ad un altro membro della società medesima.
Ma una pena accresciuta al di là dal limite fissato dalle
leggi è la pena giusta piú un'altra pena; dunque non
può un magistrato, sotto qualunque pretesto di zelo o di
ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente cittadino.
La seconda conseguenza è che se ogni membro particolare è
legato alla società, questa è parimente legata con
ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga
le due parti. Questa obbligazione, che discende dal trono fino alla
capanna, che lega egualmente e il piú grande e il piú
miserabile fra gli uomini, non altro significa se non che è
interesse di tutti che i patti utili al maggior numero siano osservati.
La violazione anche di un solo, comincia ad autorizzare l'anarchia.
Il sovrano, che rappresenta la società medesima, non può
formare che leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non
già giudicare che uno abbia violato il contratto sociale,
poiché allora la nazione si dividerebbe in due parti, una
rappresentata dal sovrano, che asserisce la violazione del contratto,
e l'altra dall'accusato, che la nega. Egli è dunque necessario
che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco la necessità
di un magistrato, le di cui sentenze sieno inappellabili e consistano
in mere assersioni o negative di fatti particolari. La terza conseguenza
è che quando si provasse che l'atrocità delle pene,
se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo
d'impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso
essa sarebbe non solo contraria a quelle virtú benefiche
che sono l'effetto d'una ragione illuminata che preferisce il comandare
ad uomini felici piú che a una greggia di schiavi, nella
quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà,
ma lo sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto sociale
medesimo.
Cap.4 - INTERPETRAZIONE DELLE LEGGI
Quarta conseguenza. Nemmeno l'autorità d'interpetrare le
leggi penali può risedere presso i giudici criminali per
la stessa ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno
ricevuto le leggi dagli antichi nostri padri come una tradizione
domestica ed un testamento che non lasciasse ai posteri che la cura
d'ubbidire, ma le ricevono dalla vivente società, o dal sovrano
rappresentatore di essa, come legittimo depositario dell'attuale
risultato della volontà di tutti; le ricevono non come obbligazioni
d'un antico giuramento, nullo, perché legava volontà
non esistenti, iniquo, perché riduceva gli uomini dallo stato
di società allo stato di mandra, ma come effetti di un tacito
o espresso giuramento, che le volontà riunite dei viventi
sudditi hanno fatto al sovrano, come vincoli necessari per frenare
e reggere l'intestino fermento degl'interessi particolari. Quest'è
la fisica e reale autorità delle leggi. Chi sarà dunque
il legittimo interpetre della legge? Il sovrano, cioè il
depositario delle attuali volontà di tutti, o il giudice,
il di cui ufficio è solo l'esaminare se il tal uomo abbia
fatto o no un'azione contraria alle leggi?
In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto:
la maggiore dev'essere la legge generale, la minore l'azione conforme
o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando
il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi,
si apre la porta all'incertezza.
Non v'è cosa piú pericolosa di quell'assioma comune
che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un
argine rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che
sembra un paradosso alle menti volgari, piú percosse da un
piccol disordine presente che dalle funeste ma rimote conseguenze
che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra
dimostrata. Le nostre cognizioni e tutte le nostre idee hanno una
reciproca connessione; quanto piú sono complicate, tanto
piú numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono.
Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti
tempi ne ha un diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il
risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile
o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni,
dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice coll'offeso
e da tutte quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni
oggetto nell'animo fluttuante dell'uomo. Quindi veggiamo la sorte
di un cittadino cambiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi
tribunali, e le vite de' miserabili essere la vittima dei falsi
raziocini o dell'attuale fermento degli umori d'un giudice, che
prende per legittima interpetrazione il vago risultato di tutta
quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo
gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in
diversi tempi, per aver consultato non la costante e fissa voce
della legge, ma l'errante instabilità delle interpetrazioni.
Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di
una legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini
che nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo inconveniente
spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della
legge, che sono la cagione dell'incertezza, ma impedisce la fatale
licenza di ragionare, da cui nascono le arbitrarie e venali controversie.
Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera,
non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni
de' cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta,
quando la norma del giusto e dell'ingiusto, che deve dirigere le
azioni sí del cittadino ignorante come del cittadino filosofo,
non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi
non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto piú
crudeli quanto è minore la distanza fra chi soffre e chi
fa soffrire, piú fatali che quelle di un solo, perché
il dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo
di un solo e la crudeltà di un dispotico è proporzionata
non alla forza, ma agli ostacoli. Cosí acquistano i cittadini
quella sicurezza di loro stessi che è giusta perché
è lo scopo per cui gli uomini stanno in società, che
è utile perché gli mette nel caso di esattamente calcolare
gl'inconvenienti di un misfatto. Egli è vero altresí
che acquisteranno uno spirito d'indipendenza, ma non già
scuotitore delle leggi e ricalcitrante a' supremi magistrati, bensí
a quelli che hanno osato chiamare col sacro nome di virtú
la debolezza di cedere alle loro interessate o capricciose opinioni.
Questi principii spiaceranno a coloro che si sono fatto un diritto
di trasmettere agl'inferiori i colpi della tirannia che hanno ricevuto
dai superiori. Dovrei tutto temere, se lo spirito di tirannia fosse
componibile collo spirito di lettura.
Cap.5 - OSCURITA` DELLE LEGGI
Se l'interpetrazione delle leggi è un male, egli è
evidente esserne un altro l'oscurità che strascina seco necessariamente
l'interpetrazione, e lo sarà grandissimo se le leggi sieno
scritte in una lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza
di alcuni pochi, non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe
l'esito della sua libertà, o dei suoi membri, in una lingua
che formi di un libro solenne e pubblico un quasi privato e domestico.
Che dovremo pensare degli uomini, riflettendo esser questo l'inveterato
costume di buona parte della colta ed illuminata Europa! Quanto
maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno
fralle mani il sacro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno
i delitti, perché non v'ha dubbio che l'ignoranza e l'incertezza
delle pene aiutino l'eloquenza delle passioni.
Una conseguenza di quest'ultime riflessioni è che senza la
scrittura una società non prenderà mai una forma fissa
di governo, in cui la forza sia un effetto del tutto e non delle
parti e in cui le leggi, inalterabili se non dalla volontà
generale, non si corrompano passando per la folla degl'interessi
privati. L'esperienza e la ragione ci hanno fatto vedere che la
probabilità e la certezza delle tradizioni umane si sminuiscono
a misura che si allontanano dalla sorgente. Che se non esiste uno
stabile monumento del patto sociale, come resisteranno le leggi
alla forza inevitabile del tempo e delle passioni?
Da ciò veggiamo quanto sia utile la stampa, che rende il
pubblico, e non alcuni pochi, depositario delle sante leggi, e quanto
abbia dissipato quello spirito tenebroso di cabala e d'intrigo che
sparisce in faccia ai lumi ed alle scienze apparentemente disprezzate
e realmente temute dai seguaci di lui. Questa è la cagione,
per cui veggiamo sminuita in Europa l'atrocità de' delitti
che facevano gemere gli antichi nostri padri, i quali diventavano
a vicenda tiranni e schiavi. Chi conosce la storia di due o tre
secoli fa, e la nostra, potrà vedere come dal seno del lusso
e della mollezza nacquero le piú dolci virtú, l'umanità,
la beneficenza, la tolleranza degli errori umani. Vedrà quali
furono gli effetti di quella che chiamasi a torto antica semplicità
e buona fede: l'umanità gemente sotto l'implacabile superstizione,
l'avarizia, l'ambizione di pochi tinger di sangue umano gli scrigni
dell'oro e i troni dei re, gli occulti tradimenti, le pubbliche
stragi, ogni nobile tiranno della plebe, i ministri della verità
evangelica lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano
il Dio di mansuetudine, non sono l'opera di questo secolo illuminato,
che alcuni chiamano corrotto.
Cap.6 - PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE
Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti,
ma che siano piú rari a proporzione del male che arrecano
alla società. Dunque piú forti debbono essere gli
ostacoli che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono
contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che gli portano
ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti
e le pene.
È impossibile di prevenire tutti i disordini nell'universal
combattimento delle passioni umane. Essi crescono in ragione composta
della popolazione e dell'incrocicchiamento degl'interessi particolari
che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica
utilità. All'esattezza matematica bisogna sostituire nell'aritmetica
politica il calcolo delle probabilità. Si getti uno sguardo
sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini degl'imperi,
e, scemando nell'istessa proporzione il sentimento nazionale, la
spinta verso i delitti cresce in ragione dell'interesse che ciascuno
prende ai disordini medesimi: perciò la necessità
di aggravare le pene si va per questo motivo sempre piú aumentando.
Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro
ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che gli
sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie
delle azioni umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono,
le pene, che io chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo
effetto senza distruggere la causa impellente, che è la sensibilità
medesima inseparabile dall'uomo, e il legislatore fa come l'abile
architetto di cui l'officio è di opporsi alle direzioni rovinose
della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono
alla forza dell'edificio.
Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti,
che necessariamente risultano dalla opposizione medesima degl'interessi
privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo grado
consiste in quelli che distruggono immediatamente la società,
e l'ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri
di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte
al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi
insensibili, decrescendo dal piú sublime al piú infimo.
Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni
delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente
di pene, che discendesse dalla piú forte alla piú
debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti
principali, senza turbar l'ordine, non decretando ai delitti del
primo grado le pene dell'ultimo. Se vi fosse una scala esatta ed
universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune
misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di umanità
o di malizia delle diverse nazioni.
Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati limiti non
può essere chiamata delitto, o punita come tale, se non da
coloro che vi trovano il loro interesse nel cosí chiamarla.
La incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale
che contradice alla legislazione; piú attuali legislazioni
che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi che espongono
il piú saggio alle pene piú rigorose, e però
resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di virtú, e però
nata l'incertezza della propria esistenza, che produce il letargo
ed il sonno fatale nei corpi politici. Chiunque leggerà con
occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali, troverà
quasi sempre i nomi di vizio e di virtú, di buon cittadino
o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non in ragione
delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per
conseguenza sempre conformi all'interesse comune, ma in ragione
delle passioni e degli errori che successivamente agitarono i differenti
legislatori. Vedrà bene spesso che le passioni di un secolo
sono la base della morale dei secoli futuri, che le passioni forti,
figlie del fanatismo e dell'entusiasmo, indebolite e rose, dirò
cosí, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali
all'equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e
lo strumento utile in mano del forte e dell'accorto. In questo modo
nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtú, e tali
sono perché si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa
sopravvivere i nomi alle cose, si cambiano coi fiumi e colle montagne
che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma della
morale geografia.
Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili,
se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle piú sublimi
operazioni, furono destinati dall'invisibile legislatore il premio
e la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà
quella tanto meno osservata contradizione, quanto piú comune,
che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una
pena uguale è destinata a due delitti che disugualmente offendono
la società, gli uomini non troveranno un piú forte
ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino
unito un maggior vantaggio.
Cap.7 - ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE
Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l'unica
e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione,
e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti
l'intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione
attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente:
esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima
successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe
dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun
cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli
uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla società;
e alcune altre volte colla piú cattiva volontà ne
fanno il maggior bene.
Altri misurano i delitti piú dalla dignità della persona
offesa che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa
fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all'Essere degli
esseri dovrebbe piú atrocemente punirsi che l'assassinio
d'un monarca, la superiorità della natura essendo un infinito
compenso alla differenza dell'offesa.
Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse
nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà
agli occhi d'un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini
e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza.
La sola necessità ha fatto nascere dall'urto delle passioni
e dalle opposizioni degl'interessi l'idea della utilità comune,
che è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti
di dipendenza da un Essere perfetto e creatore, che si è
riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice
nel medesimo tempo, perché egli solo può esserlo senza
inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla
sua onnipotenza, qual sarà l'insetto che oserà supplire
alla divina giustizia, che vorrà vendicare l'Essere che basta
a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione
alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce
senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile
malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza
rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma
per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire
quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini
possono essere in contradizione coll'Onnipossente nell'offenderlo,
possono anche esserlo col punire.
Cap.8 - DIVISIONE DEI DELITTI
Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti, cioè
il danno della società. Questa è una di quelle palpabili
verità che, quantunque non abbian bisogno né di quadranti,
né di telescopi per essere scoperte, ma sieno alla portata
di ciascun mediocre intelletto, pure per una maravigliosa combinazione
di circostanze non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni
pochi pensatori, uomini d'ogni nazione e d'ogni secolo. Ma le opinioni
asiatiche, ma le passioni vestite d'autorità e di potere
hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune
poche per violente impressioni sulla timida credulità degli
uomini, dissipate le semplici nozioni, che forse formavano la prima
filosofia delle nascenti società ed a cui la luce di questo
secolo sembra che ci riconduca, con quella maggior fermezza però
che può essere somministrata da un esame geometrico, da mille
funeste sperienze e dagli ostacoli medesimi. Or l'ordine ci condurrebbe
ad esaminare e distinguere tutte le differenti sorte di delitti
e la maniera di punirgli, se la variabile natura di essi per le
diverse circostanze dei secoli e dei luoghi non ci obbligasse ad
un dettaglio immenso e noioso. Mi basterà indicare i principii
piú generali e gli errori piú funesti e comuni per
disingannare sí quelli che per un mal inteso amore di libertà
vorrebbono introdurre l'anarchia, come coloro che amerebbero ridurre
gli uomini ad una claustrale regolarità.
Alcuni delitti distruggono immediatamente la società, o chi
la rappresenta; alcuni offendono la privata sicurezza di un cittadino
nella vita, nei beni, o nell'onore; alcuni altri sono azioni contrarie
a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare,
o non fare, in vista del ben pubblico. I primi, che sono i massimi
delitti, perché piú dannosi, son quelli che chiamansi
di lesa maestà. La sola tirannia e l'ignoranza, che confondono
i vocaboli e le idee piú chiare, possono dar questo nome,
e per conseguenza la massima pena, a' delitti di differente natura,
e rendere cosí gli uomini, come in mille altre occasioni,
vittime di una parola. Ogni delitto, benché privato, offende
la società, ma ogni delitto non ne tenta la immediata distruzione.
Le azioni morali, come le fisiche, hanno la loro sfera limitata
di attività e sono diversamente circonscritte, come tutti
i movimenti di natura, dal tempo e dallo spazio; e però la
sola cavillosa interpetrazione, che è per l'ordinario la
filosofia della schiavitù, può confondere ciò
che dall'eterna verità fu con immutabili rapporti distinto.
Dopo questi seguono i delitti contrari alla sicurezza di ciascun
particolare. Essendo questo il fine primario di ogni legittima associazione,
non può non assegnarsi alla violazione del dritto di sicurezza
acquistato da ogni cittadino alcuna delle pene piú considerabili
stabilita dalle leggi.
L'opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter fare tutto
ciò che non è contrario alle leggi senza temerne altro
inconveniente che quello che può nascere dall'azione medesima,
questo è il dogma politico che dovrebb'essere dai popoli
creduto e dai supremi magistrati colla incorrotta custodia delle
leggi predicato; sacro dogma, senza di cui non vi può essere
legittima società, giusta ricompensa del sacrificio fatto
dagli uomini di quell'azione universale su tutte le cose che è
comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle proprie
forze. Questo forma le libere anime e vigorose e le menti rischiaratrici,
rende gli uomini virtuosi, ma di quella virtú che sa resistere
al timore, e non di quella pieghevole prudenza, degna solo di chi
può soffrire un'esistenza precaria ed incerta. Gli attentati
dunque contro la sicurezza e libertà dei cittadini sono uno
de' maggiori delitti, e sotto questa classe cadono non solo gli
assassinii e i furti degli uomini plebei, ma quelli ancora dei grandi
e dei magistrati, l'influenza dei quali agisce ad una maggior distanza
e con maggior vigore, distruggendo nei sudditi le idee di giustizia
e di dovere, e sostituendo quella del diritto del piú forte,
pericoloso del pari in chi lo esercita e in chi lo soffre.
Cap.9 - DELL'ONORE
V'è una contradizione rimarcabile fralle leggi civili, gelose
custodi piú d'ogni altra cosa del corpo e dei beni di ciascun
cittadino, e le leggi di ciò che chiamasi onore, che vi preferisce
l'opinione. Questa parola onore è una di quelle che ha servito
di base a lunghi e brillanti ragionamenti, senza attaccarvi veruna
idea fissa e stabile. Misera condizione delle menti umane che le
lontanissime e meno importanti idee delle rivoluzioni dei corpi
celesti sieno con piú distinta cognizione presenti che le
vicine ed importantissime nozioni morali, fluttuanti sempre e confuse
secondo che i venti delle passioni le sospingono e l'ignoranza guidata
le riceve e le trasmette! Ma sparirà l'apparente paradosso
se si consideri che come gli oggetti troppo vicini agli occhi si
confondono, cosí la troppa vicinanza delle idee morali fa
che facilmente si rimescolino le moltissime idee semplici che le
compongono, e ne confondano le linee di separazione necessarie allo
spirito geometrico che vuol misurare i fenomeni della umana sensibilità.
E scemerà del tutto la maraviglia nell'indifferente indagatore
delle cose umane, che sospetterà non esservi per avventura
bisogno di tanto apparato di morale, né di tanti legami per
render gli uomini felici e sicuri.
Quest'onore dunque è una di quelle idee complesse che sono
un aggregato non solo d'idee semplici, ma d'idee parimente complicate,
che nel vario affacciarsi alla mente ora ammettono ed ora escludono
alcuni de' diversi elementi che le compongono; né conservano
che alcune poche idee comuni, come piú quantità complesse
algebraiche ammettono un comune divisore. Per trovar questo comune
divisore nelle varie idee che gli uomini si formano dell'onore è
necessario gettar rapidamente un colpo d'occhio sulla formazione
delle società. Le prime leggi e i primi magistrati nacquero
dalla necessità di riparare ai disordini del fisico dispotismo
di ciascun uomo; questo fu il fine institutore della società,
e questo fine primario si è sempre conservato, realmente
o in apparenza, alla testa di tutti i codici, anche distruttori;
ma l'avvicinamento degli uomini e il progresso delle loro cognizioni
hanno fatto nascere una infinita serie di azioni e di bisogni vicendevoli
gli uni verso gli altri, sempre superiori alla providenza delle
leggi ed inferiori all'attuale potere di ciascuno. Da quest'epoca
cominciò il dispotismo della opinione, che era l'unico mezzo
di ottenere dagli altri quei beni, e di allontanarne quei mali,
ai quali le leggi non erano sufficienti a provvedere. E l'opinione
è quella che tormenta il saggio ed il volgare, che ha messo
in credito l'apparenza della virtú al di sopra della virtú
stessa, che fa diventar missionario anche lo scellerato, perché
vi trova il proprio interesse. Quindi i suffragi degli uomini divennero
non solo utili, ma necessari, per non cadere al disotto del comune
livello. Quindi se l'ambizioso gli conquista come utili, se il vano
va mendicandoli come testimoni del proprio merito, si vede l'uomo
d'onore esigerli come necessari. Quest'onore è una condizione
che moltissimi uomini mettono alla propria esistenza. Nato dopo
la formazione della società, non poté esser messo
nel comune deposito, anzi è un instantaneo ritorno nello
stato naturale e una sottrazione momentanea della propria persona
da quelle leggi che in quel caso non difendono bastantemente un
cittadino.
Quindi e nell'estrema libertà politica e nella estrema dipendenza
spariscono le idee dell'onore, o si confondono perfettamente con
altre: perché nella prima il dispotismo delle leggi rende
inutile la ricerca degli altrui suffragi; nella seconda, perché
il dispotismo degli uomini, annullando l'esistenza civile, gli riduce
ad una precaria e momentanea personalità. L'onore è
dunque uno dei principii fondamentali di quelle monarchie che sono
un dispotismo sminuito, e in esse sono quello che negli stati dispotici
le rivoluzioni, un momento di ritorno nello stato di natura, ed
un ricordo al padrone dell'antica uguaglianza.
Cap.10 - DEI DUELLI
Da questa necessità degli altrui suffragi nacquero i duelli
privati, ch'ebbero appunto la loro origine nell'anarchia delle leggi.
Si pretendono sconosciuti all'antichità, forse perché
gli antichi non si radunavano sospettosamente armati nei tempii,
nei teatri e cogli amici; forse perché il duello era uno
spettacolo ordinario e comune che i gladiatori schiavi ed avviliti
davano al popolo, e gli uomini liberi sdegnavano d'esser creduti
e chiamati gladiatori coi privati combattimenti. Invano gli editti
di morte contro chiunque accetta un duello hanno cercato estirpare
questo costume, che ha il suo fondamento in ciò che alcuni
uomini temono piú che la morte, poiché privandolo
degli altrui suffragi, l'uomo d'onore si prevede esposto o a divenire
un essere meramente solitario, stato insoffribile ad un uomo socievole,
ovvero a divenire il bersaglio degl'insulti e dell'infamia, che
colla ripetuta loro azione prevalgono al pericolo della pena. Per
qual motivo il minuto popolo non duella per lo piú come i
grandi? Non solo perché è disarmato, ma perché
la necessità degli altrui suffragi è meno comune nella
plebe che in coloro che, essendo piú elevati, si guardano
con maggior sospetto e gelosia.
Non è inutile il ripetere ciò che altri hanno scritto,
cioè che il miglior metodo di prevenire questo delitto è
di punire l'aggressore, cioè chi ha dato occasione al duello,
dichiarando innocente chi senza sua colpa è stato costretto
a difendere ciò che le leggi attuali non assicurano, cioè
l'opinione, ed ha dovuto mostrare a' suoi concittadini ch'egli teme
le sole leggi e non gli uomini.
Cap.11 - DELLA TRANQUILLITA' PUBBLICA
Finalmente, tra i delitti della terza specie sono particolarmente
quelli che turbano la pubblica tranquillità e la quiete de'
cittadini, come gli strepiti e i bagordi nelle pubbliche vie destinate
al commercio ed al passeggio de' cittadini, come i fanatici sermoni,
che eccitano le facili passioni della curiosa moltitudine, le quali
prendono forza dalla frequenza degli uditori e piú dall'oscuro
e misterioso entusiasmo che dalla chiara e tranquilla ragione, la
quale mai non opera sopra una gran massa d'uomini.
La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie distribuite ne'
differenti quartieri della città, i semplici e morali discorsi
della religione riserbati al silenzio ed alla sacra tranquillità
dei tempii protetti dall'autorità pubblica, le arringhe destinate
a sostenere gl'interessi privati e pubblici nelle adunanze della
nazione, nei parlamenti o dove risieda la maestà del sovrano,
sono tutti mezzi efficaci per prevenire il pericoloso addensamento
delle popolari passioni. Questi formano un ramo principale della
vigilanza del magistrato, che i francesi chiamano della police;
ma se questo magistrato operasse con leggi arbitrarie e non istabilite
da un codice che giri fralle mani di tutti i cittadini, si apre
una porta alla tirannia, che sempre circonda tutti i confini della
libertà politica. Io non trovo eccezione alcuna a quest'assioma
generale, che ogni cittadino deve sapere quando sia reo o quando
sia innocente. Se i censori, e in genere i magistrati arbitrari,
sono necessari in qualche governo, ciò nasce dalla debolezza
della sua costituzione, e non dalla natura di governo bene organizzato.
L'incertezza della propria sorte ha sacrificate piú vittime
all'oscura tirannia che non la pubblica e solenne crudeltà.
Essa rivolta gli animi piú che non gli avvilisce. Il vero
tiranno comincia sempre dal regnare sull'opinione, che previene
il coraggio, il quale solo può risplendere o nella chiara
luce della verità, o nel fuoco delle passioni, o nell'ignoranza
del pericolo.
Ma quali saranno le pene convenienti a questi delitti? La morte
è ella una pena veramente utile e necessaria per la sicurezza
e pel buon ordine della società? La tortura e i tormenti
sono eglino giusti, e ottengon eglino il fine che si propongono
le leggi? Qual è la miglior maniera di prevenire i delitti?
Le medesime pene sono elleno egualmente utili in tutt'i tempi? Qual
influenza hanno esse su i costumi? Questi problemi meritano di essere
sciolti con quella precisione geometrica a cui la nebbia dei sofismi,
la seduttrice eloquenza ed il timido dubbio non posson resistere.
Se io non avessi altro merito che quello di aver presentato il primo
all'Italia con qualche maggior evidenza ciò che altre nazioni
hanno osato scrivere e cominciano a praticare, io mi stimerei fortunato;
ma se sostenendo i diritti degli uomini e dell'invincibile verità
contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle angosce della morte
qualche vittima sfortunata della tirannia o dell'ignoranza, ugualmente
fatale, le benedizioni e le lagrime anche d'un solo innocente nei
trasporti della gioia mi consolerebbero dal disprezzo degli uomini.
Cap.12 - FINE DELLE PENE
Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte
egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare
ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto
già commesso. Può egli in un corpo politico, che,
ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore
delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile
crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli
tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che
non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è
altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini
e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e
quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione,
farà una impressione piú efficace e piú durevole
sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.
Cap.13 - DEI TESTIMONI
Egli è un punto considerabile in ogni buona legislazione
il determinare esattamente la credibilità dei testimoni e
le prove del reato. Ogni uomo ragionevole, cioè che abbia
una certa connessione nelle proprie idee e le di cui sensazioni
sieno conformi a quelle degli altri uomini, può essere testimonio.
La vera misura della di lui credibilità non è che
l'interesse ch'egli ha di dire o non dire il vero, onde appare frivolo
il motivo della debolezza nelle donne, puerile l'applicazione degli
effetti della morte reale alla civile nei condannati, ed incoerente
la nota d'infamia negl'infami quando non abbiano alcun interesse
di mentire. La credibilità dunque deve sminuirsi a proporzione
dell'odio, o dell'amicizia, o delle strette relazioni che passano
tra lui e il reo. Piú d'un testimonio è necessario,
perché fintanto che uno asserisce e l'altro nega niente v'è
di certo e prevale il diritto che ciascuno ha d'essere creduto innocente.
La credibilità di un testimonio diviene tanto sensibilmente
minore quanto piú cresce l'atrocità di un delitto
o l'inverisimiglianza delle circostanze; tali sono per esempio la
magia e le azioni gratuitamente crudeli. Egli è piú
probabile che piú uomini mentiscano nella prima accusa, perché
è piú facile che si combini in piú uomini o
l'illusione dell'ignoranza o l'odio persecutore di quello che un
uomo eserciti una potestà che Dio o non ha dato, o ha tolto
ad ogni essere creato. Parimente nella seconda, perché l'uomo
non è crudele che a proporzione del proprio interesse, dell'odio
o del timore concepito. Non v'è propriamente alcun sentimento
superfluo nell'uomo; egli è sempre proporzionale al risultato
delle impressioni fatte su i sensi. Parimente la credibilità
di un testimonio può essere alcuna volta sminuita, quand'egli
sia membro d'alcuna società privata di cui gli usi e le massime
siano o non ben conosciute o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo
ha non solo le proprie, ma le altrui passioni.
Finalmente è quasi nulla la credibilità del testimonio
quando si faccia delle parole un delitto, poiché il tuono,
il gesto, tutto ciò che precede e ciò che siegue le
differenti idee che gli uomini attaccano alle stesse parole, alterano
e modificano in maniera i detti di un uomo che è quasi impossibile
il ripeterle quali precisamente furon dette. Di piú, le azioni
violenti e fuori dell'uso ordinario, quali sono i veri delitti,
lascian traccia di sé nella moltitudine delle circostanze
e negli effetti che ne derivano, ma le parole non rimangono che
nella memoria per lo piú infedele e spesso sedotta degli
ascoltanti. Egli è adunque di gran lunga piú facile
una calunnia sulle parole che sulle azioni di un uomo, poiché
di queste, quanto maggior numero di circostanze si adducono in prova,
tanto maggiori mezzi si somministrano al reo per giustificarsi.
Cap.14 - INDIZI, E FORME DI GIUDIZI
Vi è un teorema generale molto utile a calcolare la certezza
di un fatto, per esempio la forza degl'indizi di un reato. Quando
le prove di un fatto sono dipendenti l'una dall'altra, cioè
quando gl'indizi non si provano che tra di loro, quanto maggiori
prove si adducono tanto è minore la probabilità del
fatto, perché i casi che farebbero mancare le prove antecedenti
fanno mancare le susseguenti. Quando le prove di un fatto tutte
dipendono egualmente da una sola, il numero delle prove non aumenta
né sminuisce la probabilità del fatto, perché
tutto il loro valore si risolve nel valore di quella sola da cui
dipendono. Quando le prove sono indipendenti l'una dall'altra, cioè
quando gli indizi si provano d'altronde che da se stessi, quanto
maggiori prove si adducono, tanto piú cresce la probabilità
del fatto, perché la fallacia di una prova non influisce
sull'altra. Io parlo di probabilità in materia di delitti,
che per meritar pena debbono esser certi. Ma svanirà il paradosso
per chi considera che rigorosamente la certezza morale non è
che una probabilità, ma probabilità tale che è
chiamata certezza, perché ogni uomo di buon senso vi acconsente
necessariamente per una consuetudine nata dalla necessità
di agire, ed anteriore ad ogni speculazione; la certezza che si
richiede per accertare un uomo reo è dunque quella che determina
ogni uomo nelle operazioni piú importanti della vita. Possono
distinguersi le prove di un reato in perfette ed in imperfette.
Chiamo perfette quelle che escludono la possibilità che un
tale non sia reo, chiamo imperfette quelle che non la escludono.
Delle prime anche una sola è sufficiente per la condanna,
delle seconde tante son necessarie quante bastino a formarne una
perfetta, vale a dire che se per ciascuna di queste in particolare
è possibile che uno non sia reo, per l'unione loro nel medesimo
soggetto è impossibile che non lo sia. Notisi che le prove
imperfette delle quali può il reo giustificarsi e non lo
faccia a dovere divengono perfette. Ma questa morale certezza di
prove è piú facile il sentirla che l'esattamente definirla.
Perciò io credo ottima legge quella che stabilisce assessori
al giudice principale presi dalla sorte, e non dalla scelta, perché
in questo caso è piú sicura l'ignoranza che giudica
per sentimento che la scienza che giudica per opinione. Dove le
leggi siano chiare e precise l'officio di un giudice non consiste
in altro che di accertare un fatto. Se nel cercare le prove di un
delitto richiedesi abilità e destrezza, se nel presentarne
il risultato è necessario chiarezza e precisione, per giudicarne
dal risultato medesimo non vi si richiede che un semplice ed ordinario
buon senso, meno fallace che il sapere di un giudice assuefatto
a voler trovar rei e che tutto riduce ad un sistema fattizio imprestato
da' suoi studi. Felice quella nazione dove le leggi non fossero
una scienza! Ella è utilissima legge quella che ogni uomo
sia giudicato dai suoi pari, perché, dove si tratta della
libertà e della fortuna di un cittadino, debbono tacere quei
sentimenti che inspira la disuguaglianza; e quella superiorità
con cui l'uomo fortunato guarda l'infelice, e quello sdegno con
cui l'inferiore guarda il superiore, non possono agire in questo
giudizio. Ma quando il delitto sia un'offesa di un terzo, allora
i giudici dovrebbono essere metà pari del reo, metà
pari dell'offeso; cosí, essendo bilanciato ogni interesse
privato che modifica anche involontariamente le apparenze degli
oggetti, non parlano che le leggi e la verità. Egli è
ancora conforme alla giustizia che il reo escluder possa fino ad
un certo segno coloro che gli sono sospetti; e ciò concessoli
senza contrasto per alcun tempo, sembrerà quasi che il reo
si condanni da se stesso. Pubblici siano i giudizi, e pubbliche
le prove del reato, perché l'opinione, che è forse
il solo cemento delle società, imponga un freno alla forza
ed alle passioni, perché il popolo dica noi non siamo schiavi
e siamo difesi, sentimento che inspira coraggio e che equivale ad
un tributo per un sovrano che intende i suoi veri interessi. Io
non accennerò altri dettagli e cautele che richiedono simili
instituzioni. Niente avrei detto, se fosse necessario dir tutto.
Cap.15 - ACCUSE SEGRETE
Evidenti, ma consagrati disordini, e in molte nazioni resi necessari
per la debolezza della constituzione, sono le accuse segrete. Un
tal costume rende gli uomini falsi e coperti. Chiunque può
sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico.
Gli uomini allora si avvezzano a mascherare i propri sentimenti,
e, coll'uso di nascondergli altrui, arrivano finalmente a nascondergli
a loro medesimi. Infelici gli uomini quando son giunti a questo
segno: senza principii chiari ed immobili che gli guidino, errano
smarriti e fluttuanti nel vasto mare delle opinioni, sempre occupati
a salvarsi dai mostri che gli minacciano; passano il momento presente
sempre amareggiato dalla incertezza del futuro; privi dei durevoli
piaceri della tranquillità e sicurezza, appena alcuni pochi
di essi sparsi qua e là nella trista loro vita, con fretta
e con disordine divorati, gli consolano d'esser vissuti. E di questi
uomini faremo noi gl'intrepidi soldati difensori della patria o
del trono? E tra questi troveremo gl'incorrotti magistrati che con
libera e patriottica eloquenza sostengano e sviluppino i veri interessi
del sovrano, che portino al trono coi tributi l'amore e le benedizioni
di tutti i ceti d'uomini, e da questo rendano ai palagi ed alle
capanne la pace, la sicurezza e l'industriosa speranza di migliorare
la sorte, utile fermento e vita degli stati?
Chi può difendersi dalla calunnia quand'ella è armata
dal piú forte scudo della tirannia, il segreto? Qual sorta
di governo è mai quella ove chi regge sospetta in ogni suo
suddito un nemico ed è costretto per il pubblico riposo di
toglierlo a ciascuno?
Quali sono i motivi con cui si giustificano le accuse e le pene
segrete? La salute pubblica, la sicurezza e il mantenimento della
forma di governo? Ma quale strana costituzione, dove chi ha per
sé la forza, e l'opinione piú efficace di essa, teme
d'ogni cittadino? L'indennità dell'accusatore? Le leggi dunque
non lo difendono abbastanza. E vi saranno dei sudditi piú
forti del sovrano! L'infamia del delatore? Dunque si autorizza la
calunnia segreta e si punisce la pubblica! La natura del delitto?
Se le azioni indifferenti, se anche le utili al pubblico si chiamano
delitti, le accuse e i giudizi non sono mai abbastanza segreti.
Vi possono essere delitti, cioè pubbliche offese, e che nel
medesimo tempo non sia interesse di tutti la pubblicità dell'esempio,
cioè quella del giudizio? Io rispetto ogni governo, e non
parlo di alcuno in particolare; tale è qualche volta la natura
delle circostanze che può credersi l'estrema rovina il togliere
un male allora quando ei sia inerente al sistema di una nazione;
ma se avessi a dettar nuove leggi, in qualche angolo abbandonato
dell'universo, prima di autorizzare un tale costume, la mano mi
tremerebbe, e avrei tutta la posterità dinanzi agli occhi.
È già stato detto dal Signor di Montesquieu che le
pubbliche accuse sono piú conformi alla repubblica, dove
il pubblico bene formar dovrebbe la prima passione de' cittadini,
che nella monarchia, dove questo sentimento è debolissimo
per la natura medesima del governo, dove è ottimo stabilimento
il destinare de' commissari, che in nome pubblico accusino gl'infrattori
delle leggi. Ma ogni governo, e repubblicano e monarchico, deve
al calunniatore dare la pena che toccherebbe all'accusato.
Cap.16 - DELLA TORTURA
Una crudeltà consacrata dall'uso nella maggior parte delle
nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo,
o per constringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni
nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so
quale metafisica ed incomprensibile purgazione d'infamia, o finalmente
per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è
accusato.
Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice,
né la società può toglierli la pubblica protezione,
se non quando sia deciso ch'egli abbia violati i patti coi quali
le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello
della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una
pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non
è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto;
se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi,
ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione
del reo; se è incerto, e' non devesi tormentare un innocente,
perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti
non sono provati. Ma io aggiungo di piú, ch'egli è
un voler confondere tutt'i rapporti l'esigere che un uomo sia nello
stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo
della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli
e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro
di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti.
Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità,
ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch'essi
per piú d'un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime
di una feroce e troppo lodata virtú.
Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri
uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private
carnificine, che la tirannia dell'uso esercita su i rei e sugl'innocenti?
Egli è importante che ogni delitto palese non sia impunito,
ma è inutile che si accerti chi abbia commesso un delitto,
che sta sepolto nelle tenebre. Un male già fatto, ed a cui
non v'è rimedio, non può esser punito dalla società
politica che quando influisce sugli altri colla lusinga dell'impunità.
S'egli è vero che sia maggiore il numero degli uomini che
o per timore, o per virtú, rispettano le leggi che di quelli
che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente deve valutarsi
tanto di piú, quanto è maggiore la probabilità
che un uomo a dati uguali le abbia piuttosto rispettate che disprezzate.
Un altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione dell'infamia,
cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare
la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest'abuso
non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo. Si crede che
il dolore, che è una sensazione, purghi l'infamia, che è
un mero rapporto morale. È egli forse un crociuolo? E l'infamia
è forse un corpo misto impuro? Non è difficile il
rimontare all'origine di questa ridicola legge, perché gli
assurdi stessi che sono da una nazione intera adottati hanno sempre
qualche relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla nazione
medesima. Sembra quest'uso preso dalle idee religiose e spirituali,
che hanno tanta influenza su i pensieri degli uomini, su le nazioni
e su i secoli. Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte
dall'umana debolezza e che non hanno meritata l'ira eterna del grand'Essere,
debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate; ora l'infamia
è una macchia civile, e come il dolore ed il fuoco tolgono
le macchie spirituali ed incorporee, perché gli spasimi della
tortura non toglieranno la macchia civile che è l'infamia?
Io credo che la confessione del reo, che in alcuni tribunali si
esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non dissimile,
perché nel misterioso tribunale di penitenza la confessione
dei peccati è parte essenziale del sagramento. Ecco come
gli uomini abusano dei lumi piú sicuri della rivelazione;
e siccome questi sono i soli che sussistono nei tempi d'ignoranza,
cosí ad essi ricorre la docile umanità in tutte le
occasioni e ne fa le piú assurde e lontane applicazioni.
Ma l'infamia è un sentimento non soggetto né alle
leggi né alla ragione, ma alla opinione comune. La tortura
medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la vittima.
Dunque con questo metodo si toglierà l'infamia dando l'infamia.
Il terzo motivo è la tortura che si dà ai supposti
rei quando nel loro esame cadono in contradizione, quasi che il
timore della pena, l'incertezza del giudizio, l'apparato e la maestà
del giudice, l'ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e
agl'innocenti, non debbano probabilmente far cadere in contradizione
e l'innocente che teme e il reo che cerca di coprirsi; quasi che
le contradizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, non
debbano moltiplicarsi nella turbazione dell'animo tutto assorbito
nel pensiero di salvarsi dall'imminente pericolo.
Questo infame crociuolo della verità è un monumento
ancora esistente dell'antica e selvaggia legislazione, quando erano
chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell'acqua bollente
e l'incerta sorte dell'armi, quasi che gli anelli dell'eterna catena,
che è nel seno della prima cagione, dovessero ad ogni momento
essere disordinati e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani.
La sola differenza che passa fralla tortura e le prove del fuoco
e dell'acqua bollente, è che l'esito della prima sembra dipendere
dalla volontà del reo, e delle seconde da un fatto puramente
fisico ed estrinseco: ma questa differenza è solo apparente
e non reale. È cosí poco libero il dire la verità
fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era allora l'impedire senza
frode gli effetti del fuoco e dell'acqua bollente. Ogni atto della
nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della
impressione sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità
di ogni uomo è limitata. Dunque l'impressione del dolore
può crescere a segno che, occupandola tutta, non lasci alcuna
libertà al torturato che di scegliere la strada piú
corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena. Allora la
risposta del reo è cosí necessaria come le impressioni
del fuoco o dell'acqua. Allora l'innocente sensibile si chiamerà
reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento.
Ogni differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo, che si
pretende impiegato per ritrovarla. È superfluo di raddoppiare
il lume citando gl'innumerabili esempi d'innocenti che rei si confessarono
per gli spasimi della tortura: non vi è nazione, non vi è
età che non citi i suoi, ma né gli uomini si cangiano,
né cavano conseguenze. Non vi è uomo che abbia spinto
le sue idee di là dei bisogni della vita, che qualche volta
non corra verso natura, che con segrete e confuse voci a sé
lo chiama; l'uso, il tiranno delle menti, lo rispinge e lo spaventa.
L'esito dunque della tortura è un affare di temperamento
e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua
robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo
metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo
problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle
fibre d'un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà
confessar reo di un dato delitto.
L'esame di un reo è fatto per conoscere la verità,
ma se questa verità difficilmente scuopresi all'aria, al
gesto, alla fisonomia d'un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi
in un uomo in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni,
per i quali dal volto della maggior parte degli uomini traspira
qualche volta, loro malgrado, la verità. Ogni azione violenta
confonde e fa sparire le minime differenze degli oggetti per cui
si distingue talora il vero dal falso.
Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori,
presso i quali non trovasi usata alcuna tortura che su i soli schiavi,
ai quali era tolta ogni personalità; queste dall'Inghilterra,
nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità del
commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli
esempi di virtú e di coraggio non ci lasciano dubitare della
bontà delle leggi. La tortura è stata abolita nella
Svezia, abolita da uno de' piú saggi monarchi dell'Europa,
che avendo portata la filosofia sul trono, legislatore amico de'
suoi sudditi, gli ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle
leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che possono
gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose.
La tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti
composti per la maggior parte della feccia delle nazioni, che sembrerebbono
perciò doversene piú d'ogni altro ceto servire. Strana
cosa, per chi non considera quanto sia grande la tirannia dell'uso,
che le pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle
stragi ed al sangue il piú umano metodo di giudicare.
Questa verità è finalmente sentita, benché
confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la
confessione fatta durante la tortura se non è confermata
con giuramento dopo cessata quella, ma se il reo non conferma il
delitto è di nuovo torturato. Alcuni dottori ed alcune nazioni
non permettono questa infame petizione di principio che per tre
volte; altre nazioni ed altri dottori la lasciano ad arbitrio del
giudice: talché di due uomini ugualmente innocenti o ugualmente
rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco
ed il timido condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io
giudice dovea trovarvi rei di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo
resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai
ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappatavi
fra i tormenti non avrebbe alcuna forza, ma io vi tormenterò
di nuovo se non confermerete ciò che avete confessato.
Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall'uso della
tortura è che l'innocente è posto in peggiore condizione
che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento,
il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa
il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente,
ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole
per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza,
deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore
in una minore. Dunque l'innocente non può che perdere e il
colpevole può guadagnare.
La legge che comanda la tortura è una legge che dice: Uomini,
resistete al dolore, e se la natura ha creato in voi uno inestinguibile
amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra
difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un
eroico odio di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi,
dicendo la verità anche fra gli strappamenti dei muscoli
e gli slogamenti delle ossa.
Dassi la tortura per discuoprire se il reo lo è di altri
delitti fuori di quelli di cui è accusato, il che equivale
a questo raziocinio: Tu sei reo di un delitto, dunque è possibile
che lo sii di cent'altri delitti; questo dubbio mi pesa, voglio
accertarmene col mio criterio di verità; le leggi ti tormentano,
perché sei reo, perché puoi esser reo, perché
voglio che tu sii reo.
Finalmente la tortura è data ad un accusato per discuoprire
i complici del suo delitto; ma se è dimostrato che ella non
è un mezzo opportuno per iscuoprire la verità, come
potrà ella servire a svelare i complici, che è una
delle verità da scuoprirsi? Quasi che l'uomo che accusa se
stesso non accusi piú facilmente gli altri. È egli
giusto tormentar gli uomini per l'altrui delitto? Non si scuopriranno
i complici dall'esame dei testimoni, dall'esame del reo, dalle prove
e dal corpo del delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi che
debbono servire per accertare il delitto nell'accusato? I complici
per lo piú fuggono immediatamente dopo la prigionia del compagno,
l'incertezza della loro sorte gli condanna da sé sola all'esilio
e libera la nazione dal pericolo di nuove offese, mentre la pena
del reo che è nelle forze ottiene l'unico suo fine, cioè
di rimuover col terrore gli altri uomini da un simil delitto.
Cap.17 - DEL FISCO
Fu già un tempo nel quale quasi tutte le pene erano pecuniarie.
I delitti degli uomini erano il patrimonio del principe. Gli attentati
contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lusso. Chi era
destinato a difenderla aveva interesse di vederla offesa. L'oggetto
delle pene era dunque una lite tra il fisco (l'esattore di queste
pene) ed il reo; un affare civile, contenzioso, privato piuttosto
che pubblico, che dava al fisco altri diritti che quelli somministrati
dalla pubblica difesa ed al reo altri torti che quelli in cui era
caduto, per la necessità dell'esempio. Il giudice era dunque
un avvocato del fisco piuttosto che un indifferente ricercatore
del vero, un agente dell'erario fiscale anzi che il protettore ed
il ministro delle leggi. Ma siccome in questo sistema il confessarsi
delinquente era un confessarsi debitore verso il fisco, il che era
lo scopo delle procedure criminali d'allora, cosí la confessione
del delitto, e confessione combinata in maniera che favorisse e
non facesse torto alle ragioni fiscali, divenne ed è tuttora
(gli effetti continuando sempre moltissimo dopo le cagioni) il centro
intorno a cui si aggirano tutti gli ordigni criminali. Senz'essa
un reo convinto da prove indubitate avrà una pena minore
della stabilita, senz'essa non soffrirà la tortura sopra
altri delitti della medesima specie che possa aver commessi. Con
questa il giudice s'impadronisce del corpo di un reo e lo strazia
con metodiche formalità, per cavarne come da un fondo acquistato
tutto il profitto che può. Provata l'esistenza del delitto,
la confessione fa una prova convincente, e per rendere questa prova
meno sospetta cogli spasimi e colla disperazione del dolore a forza
si esige nel medesimo tempo che una confessione stragiudiziale tranquilla,
indifferente, senza i prepotenti timori di un tormentoso giudizio,
non basta alla condanna. Si escludono le ricerche e le prove che
rischiarano il fatto, ma che indeboliscono le ragioni del fisco;
non è in favore della miseria e della debolezza che si risparmiano
qualche volta i tormenti ai rei, ma in favore delle ragioni che
potrebbe perdere quest'ente ora immaginario ed inconcepibile. Il
giudice diviene nemico del reo, di un uomo incatenato, dato in preda
allo squallore, ai tormenti, all'avvenire il piú terribile;
non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il
delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di
far torto a quella infallibilità che l'uomo s'arroga in tutte
le cose. Gl'indizi alla cattura sono in potere del giudice; perché
uno si provi innocente deve esser prima dichiarato reo: ciò
chiamasi fare un processo offensivo, e tali sono quasi in ogni luogo
della illuminata Europa nel decimo ottavo secolo le procedure criminali.
Il vero processo, l'informativo, cioè la ricerca indifferente
del fatto, quello che la ragione comanda, che le leggi militari
adoperano, usato dallo stesso asiatico dispotismo nei casi tranquilli
ed indifferenti, è pochissimo in uso nei tribunali europei.
Qual complicato laberinto di strani assurdi, incredibili senza dubbio
alla piú felice posterità! I soli filosofi di quel
tempo leggeranno nella natura dell'uomo la possibile verificazione
di un tale sistema.
Cap.18 - DEI GIURAMENTI
Una contradizione fralle leggi e i sentimenti naturali all'uomo
nasce dai giuramenti che si esigono dal reo, acciocché sia
un uomo veridico, quando ha il massimo interesse di esser falso;
quasi che l'uomo potesse giurar da dovero di contribuire alla propria
distruzione, quasi che la religione non tacesse nella maggior parte
degli uomini quando parla l'interesse. L'esperienza di tutt'i secoli
ha fatto vedere che essi hanno piú d'ogni altra cosa abusato
di questo prezioso dono del cielo. E per qual motivo gli scellerati
la rispetteranno, se gli uomini stimati piú saggi l'hanno
sovente violata? Troppo deboli, perché troppo remoti dai
sensi, sono per il maggior numero i motivi che la religione contrappone
al tumulto del timore ed all'amor della vita. Gli affari del cielo
si reggono con leggi affatto dissimili da quelle che reggono gli
affari umani. E perché comprometter gli uni cogli altri?
E perché metter l'uomo nella terribile contradizione, o di
mancare a Dio, o di concorrere alla propria rovina? talché
la legge, che obbliga ad un tal giuramento, comanda o di esser cattivo
cristiano o martire. Il giuramento diviene a poco a poco una semplice
formalità, distruggendosi in questa maniera la forza dei
sentimenti di religione, unico pegno dell'onestà della maggior
parte degli uomini. Quanto sieno inutili i giuramenti lo ha fatto
vedere l'esperienza, perché ciascun giudice mi può
esser testimonio che nessun giuramento ha mai fatto dire la verità
ad alcun reo; lo fa vedere la ragione, che dichiara inutili e per
conseguenza dannose tutte le leggi che si oppongono ai naturali
sentimenti dell'uomo. Accade ad esse ciò che agli argini
opposti direttamente al corso di un fiume: o sono immediatamente
abbattuti e soverchiati, o un vortice formato da loro stessi gli
corrode e gli mina insensibilmente.
Cap.19 - PRONTEZZA DELLA PENA
Quanto la pena sarà piú pronta e piú vicina
al delitto commesso, ella sarà tanto piú giusta e
tanto piú utile. Dico piú giusta, perché risparmia
al reo gli inutili e fieri tormenti dell'incertezza, che crescono
col vigore dell'immaginazione e col sentimento della propria debolezza;
piú giusta, perché la privazione della libertà
essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non
quando la necessità lo chiede. La carcere è dunque
la semplice custodia d'un cittadino finché sia giudicato
reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare
il minor tempo possibile e dev'essere meno dura che si possa. Il
minor tempo dev'esser misurato e dalla necessaria durazione del
processo e dall'anzianità di chi prima ha un diritto di esser
giudicato. La strettezza della carcere non può essere che
la necessaria, o per impedire la fuga, o per non occultare le prove
dei delitti. Il processo medesimo dev'essere finito nel piú
breve tempo possibile. Qual piú crudele contrasto che l'indolenza
di un giudice e le angosce d'un reo? I comodi e i piaceri di un
insensibile magistrato da una parte e dall'altra le lagrime, lo
squallore d'un prigioniero? In generale il peso della pena e la
conseguenza di un delitto dev'essere la piú efficace per
gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perché
non si può chiamare legittima società quella dove
non sia principio infallibile che gli uomini si sian voluti assoggettare
ai minori mali possibili.
Ho detto che la prontezza delle pene è piú utile,
perché quanto è minore la distanza del tempo che passa
tra la pena ed il misfatto, tanto è piú forte e piú
durevole nell'animo umano l'associazione di queste due idee, delitto
e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione
e l'altra come effetto necessario immancabile. Egli è dimostrato
che l'unione delle idee è il cemento che forma tutta la fabbrica
dell'intelletto umano, senza di cui il piacere ed il dolore sarebbero
sentimenti isolati e di nessun effetto. Quanto piú gli uomini
si allontanano dalle idee generali e dai principii universali, cioè
quanto piú sono volgari, tanto piú agiscono per le
immediate e piú vicine associazioni, trascurando le piú
remote e complicate, che non servono che agli uomini fortemente
appassionati per l'oggetto a cui tendono, poiché la luce
dell'attenzione rischiara un solo oggetto, lasciando gli altri oscuri.
Servono parimente alle menti piú elevate, perché hanno
acquistata l'abitudine di scorrere rapidamente su molti oggetti
in una volta, ed hanno la facilità di far contrastare molti
sentimenti parziali gli uni cogli altri, talché il risultato,
che è l'azione, è meno pericoloso ed incerto.
Egli è dunque di somma importanza la vicinanza del delitto
e della pena, se si vuole che nelle rozze menti volgari, alla seducente
pittura di un tal delitto vantaggioso, immediatamente riscuotasi
l'idea associata della pena. Il lungo ritardo non produce altro
effetto che di sempre piú disgiungere queste due idee, e
quantunque faccia impressione il castigo d'un delitto, la fa meno
come castigo che come spettacolo, e non la fa che dopo indebolito
negli animi degli spettatori l'orrore di un tal delitto particolare,
che servirebbe a rinforzare il sentimento della pena.
Un altro principio serve mirabilmente a stringere sempre piú
l'importante connessione tra 'l misfatto e la pena, cioè
che questa sia conforme quanto piú si possa alla natura del
delitto. Questa analogia facilita mirabilmente il contrasto che
dev'essere tra la spinta al delitto e la ripercussione della pena,
cioè che questa allontani e conduca l'animo ad un fine opposto
di quello per dove cerca d'incamminarlo la seducente idea dell'infrazione
della legge.
Cap.20 - VIOLENZE
Altri delitti sono attentati contro la persona, altri contro le
sostanze. I primi debbono infallibilmente esser puniti con pene
corporali: né il grande né il ricco debbono poter
mettere a prezzo gli attentati contro il debole ed il povero; altrimenti
le ricchezze, che sotto la tutela delle leggi sono il premio dell'industria,
diventano l'alimento della tirannia. Non vi è libertà
ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo
cessi di esser persona e diventi cosa: vedrete allora l'industria
del potente tutta rivolta a far sortire dalla folla delle combinazioni
civili quelle che la legge gli dà in suo favore. Questa scoperta
è il magico segreto che cangia i cittadini in animali di
servigio, che in mano del forte è la catena con cui lega
le azioni degl'incauti e dei deboli. Questa è la ragione
per cui in alcuni governi, che hanno tutta l'apparenza di libertà,
la tirannia sta nascosta o s'introduce non prevista in qualche angolo
negletto dal legislatore, in cui insensibilmente prende forza e
s'ingrandisce. Gli uomini mettono per lo piú gli argini piú
sodi all'aperta tirannia, ma non veggono l'insetto impercettibile
che gli rode ed apre una tanto piú sicura quanto piú
occulta strada al fiume inondatore. continua
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