Dalla Treccani
Come mai cerchiamo l'invarianza in un mondo di trasformazioni?
(Enrico Bellone)

Ripetiamo da molti secoli un argomento invariante, e cioè quello secondo cui i nostri sensi, irritati da vari stimoli esterni, ci portano a sentire un mondo in trasformazione continua. L'argomento, pur enunciato in forme tra loro più o meno diverse, è una costante dei nostri discorsi. Così diciamo che gli organi di senso captano stimoli e li traducono in segnali elettrici e chimici, e diciamo anche che questi segnali si propagano in strutture biologiche che costituiscono il nostro sistema nervoso.

Il quale li manipola in modo tale da ricavarne sia informazioni sulla nicchia che ci ospita, sia modalità di comportamento che ci aiutino nelle nostre multiformi attività di sopravvivenza. La nicchia, come ripetiamo, è mutevole: se non troviamo un certo numero di invarianti ai quali agganciare pensieri e azioni, possiamo anche estinguerci.

Così tentiamo di cogliere invarianti che ci consentano di capire che cosa siano gli stimoli, quale struttura abbiano i segnali nelle cui sequenze traduciamo gli stimoli, quali codici informatici presiedano alle attività di categorizzazione qua e là disposte nel cervello. Utilizziamo, per far tutto questo, teorie che con tenacia cercano invarianze e che, però, sono anch'esse destinate alla trasformazione

E' così diffusa e costante la credenza che davvero le cose stiano così da renderci inclini a pensare che tale credenza non sia, di per se stessa, problematica. Intendiamoci: con quest'ultima frase voglio solo dire che abbiamo moltissimi problemi su invarianza e trasformazione nei settori disciplinari in cui si discute di interazioni tra luce e materia, di potenziali postsinaptici o di riorganizzazione di macromolecole di pigmento causate nelle nostre retine dalla cattura di un fotone, ma che non sempre vediamo problemi interessanti nel fatto che siamo straordinariamente abituati a dar per scontato che il mondo sia fatto proprio in questo modo. E cioè in modo tale da presentarsi sempre a noi, con testardaggine, nella duplice veste della trasformazione e dell'invarianza.

Forse, però, questa veste duplice non dipende solo da come è fatto il mondo esterno... Ma poi, che cosa intendiamo davvero comunicare ad altri quando ci rivolgiamo loro con espressioni del tipo "mondo esterno"?

Possiamo partire, per amor di chiarezza, da una tesi che fu esposta in proposito, nelle pagine di Palomar, da Italo Calvino: "Dunque: c'è una finestra che s'affaccia sul mondo. Di là c'è il mondo; e di qua? Sempre il mondo: cos'altro volete che ci sia? È dato che c'è mondo di qua e mondo di là della finestra, forse l'io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo. Per guardare se stesso il mondo ha bisogno degli occhi (e degli occhiali) del signor Palomar".

Se Calvino ha ragione - e io credo veramente che egli abbia ragione - allora la questione plurisecolare del rapporto tra trasformazione e invarianza ammette due interpretazioni tra loro complementari.

La prima traspare dai contributi che Bertolini, Emmer e Cerruti hanno rispettivamente sviluppato nei settori della biologia, della matematica e della chimica [e che saranno pubblicati nelle prossime settimane n.d.r.]: quale che sia il significato dell'espressione "mondo esterno", abbiamo sempre a che fare con popolazioni di mutamenti e invarianze.

La seconda soluzione prende forma se accettiamo la filosofia di Calvino e ammettiamo, di conseguenza, che non esiste una linea di confine tra il mondo "esterno" e gli osservatori che lo esplorano cercando invarianti nelle trasformazioni suggerite dai sensi. Gli organi di senso e il cervello sono "mondo" nello stesso senso in cui la stella Sirio o il Monte Everest sono "mondo".

L'ammissione è patologica solo per chi ha bisogno di barriere doganali che garantiscano un qualche livello di credibilità per i tentativi di mantenere in vita la parola "mente" (o qualche suo sinonimo). Ma non è certo patologica per chi è disposto a concedere, al linguaggio, ciò che al linguaggio appartiene: ma nulla di più. La distinzione esterno/interno è, infatti, un mal di testa linguistico, non una barriera la cui presunta solidità dovrebbe garantire sonni tranquilli per le folle di neocartesiani che vanno in fibrillazione non appena si ricorda loro che la parola "mente" ha ormai lo stesso significato di sequenze di segni come "flogisto", "calorico", "etere elettromagnetico" o "vis vitalis".

A questo prezzo - non esoso - possiamo accostarci alla distinzione tra trasformazione e invarianza tenendo conto della circostanza per cui essa è, come ho ricordato sin dall'inizio, una sorta di costante nei documenti che Homo sapiens ha lasciato da quando ha imparato a tracciare segni su supporti materiali. Se è una costante, allora essa caratterizza il modo di lavorare di quel frammento di mondo che abbiamo imparato a disporre, concettualmente, sotto le voci "sensori biologici" e "cervello".

Non è strano che quel frammento di mondo analizzi gli stimoli che lo colpiscono secondo categorie che qualche filosofo definirebbe come "innate". Il cervello cerca invarianti perché è fatto così. E se qualcuno ci chiede come mai è fatto così, non possiamo che far riferimento alla teoria dell'evoluzione: cioè, far riferimento a leggi di natura che i nostri cervelli elaborano con categorie che si sono evolutivamente fissate in certi gruppi specializzati di cellule nei corpi di Homo sapiens. Probabilmente si tratta di una spiegazione molto sobria, troppo modesta rispetto a talune aspettative.

Sulla sobrietà non ho riserve esplicite. Sulla modestia è meglio capire un teorema di aritmetica che una pagina di Bergson. Per quanto riguarda i rischi di autoreferenzialità, non vedo perché dovrebbero suscitare allarmi filosofici. Un passo per volta, insomma: è sempre meglio che stare fermi in nessun luogo.

 

 

 

Fisika & Psichica