Contributi sul lavoro di strada come lavoro di comunità
PROGETTO SPECIALE PERIFERIE (Eleonora Artesio, Ass. al decentramento Comune TO)

... Le periferie di Torino hanno espresso una percezione di esclusione che in alcune situazioni poteva essere fondata e motivata da condizioni di degrado oggettivo, legato soprattutto al problema del degrado ambientale, mentre in altri casi non necessariamente era giustificata da dati oggettivi di questo tipo perché si erano fatti investimenti con risorse pubbliche per il ricupero di contenitori, per interventi sulla viabilità o volti a valorizzare luoghi con operazioni di tipo urbanistico di grosso rilievo cittadino. Penso per esempio che un qualunque amministratore che fosse andato a confrontarsi con la popolazione di certi quartieri, di fronte alla critica e all’accusa dell’abbandono delle periferie, un anno fa avrebbe risposto citando investimenti e progetti. Si tratta in effetti di operazioni che dal punto di vista oggettivo del costo e della scelta tendevano a valorizzare quel contesto territoriale, ma che non erano percepite dagli abitanti come un’operazione di riqualificazione ambientale. Provare a rifare questo percorso per scalzare la percezione negativa, fornendo elementi oggettivi perché questa percezione non fosse più fondata, secondo me voleva dire provare a ribaltare la logica con la quale abitualmente si connotano le periferie.

Solitamente le periferie sono denominate in termini di differenza, ossia in base alla differenza delle opportunità rispetto alle aree centrali. Dunque "periferia" nell’interpretazione collettiva diventa sinonimo di negazione, è un contesto che è non-centro, oppure è sinonimo di esclusione e di rottura di uno sviluppo prima armonioso. Basta pensare a come sono state identificate le periferie torinesi degli anni ’60, viste come espressione di un processo di urbanizzazione forzata, che rompeva una crescita che altrimenti sarebbe stata più "naturale", più continua, più quieta nel rapporto tra case e servizi.

Si tratta in genere di luoghi caratterizzati da un minor grado di desiderabilità: questa è la percezione con la quale chi si pone a definire le periferie urbane tende a descriverle, sia pure con livelli più o meno sofisticati di approfondimento. Provare a ribaltare quella logica vuol dire scommettere sull’idea che le periferie urbane, oltre a essere i luoghi della differenza (e qui spetta alla politica costruire percorsi che superino le diseguaglianze), sono anche i luoghi delle risorse. Ad esempio si può cominciare ad affermare che le nostre periferie urbane sono dei luoghi che hanno avuto e che hanno tuttora delle forti identità, delle identità fisiche, sono luoghi costruiti intorno a borghi, a strutture che hanno una storia, un senso per quella parte di territorio. Mi vorrei soffermare soprattutto sul discorso delle potenzialità, perché lì si sono sviluppati spazi di innovazione e sperimentazione sociale che hanno rappresentato un’anticipazione delle politiche messe in atto nel resto della città, e in alcuni casi nel resto del paese.

Negli anni ’70 l’antagonismo, la vertenzialità sociale, partivano dalle periferie urbane, in particolare dalle periferie torinesi, per legare il diritto di abitare in un quartiere con il diritto a dei servizi. Queste rivendicazioni hanno prodotto, per esempio nel campo della formazione scolastica l’esperienza delle scuole a tempo pieno, nate non casualmente nei quartieri periferici, anticipando la legge di generalizzazione del tempo pieno della fine degli anni ’80. In questi quartieri si sono sviluppate forme di protagonismo, capacità di organizzazione e di rappresentanza dei residenti che hanno consentito lo sviluppo di progetti fortemente innovativi nel campo dell’assistenza come nella scuola.

Perché oggi questa capacità di una comunità di definire collettivamente obiettivi e di aprire una vertenza alta con il potere costituito per la realizzazione dei propri obiettivi è scomparsa, almeno in quelle forme? Vi do una risposta non in quanto amministratore ma partendo dalla mia collocazione politica. Credo che la situazione attuale derivi in gran parte dal fatto che negli anni ’70 esisteva la possibilità di trasferire sui luoghi del territorio e dell’ambiente una battaglia per i diritti che si esercitava sui luoghi di lavoro, perché c’era una forte rappresentanza di classe, capace di portare su di sé i diritti di altri soggetti. Quegli operai che lavoravano nei contenitori industriali di Torino e vivevano alle Vallette avevano la forza di legare la battaglia sui tempi di lavoro, nei luoghi di lavoro, alla battaglia sul territorio per chiedere servizi per i propri figli, e contemporaneamente rappresentavano un modo di lottare contro i processi di emarginazione. Ricordo di quegli anni le battaglie per l’adozione alternativa del libro di testo, con una critica alla cultura e alle forme di diffusione della cultura che non a caso nasceva alle Vallette, nel posto dove gli strumenti classici della cultura forse non erano proprietà così diffusa. E’ quindi necessario ricostruire anche nell’immagine esterna una percezione delle periferie come luogo delle risorse, dove per risorse si intendono fondamentalmente i residenti.

Ciò ha portato a pensare ad un progetto molto difficile da descrivere. Infatti ogni volta che qualche giornalista intervista gli amministratori del Comune chiedendogli cos’è il "Progetto Periferie", si aspetta che raccontiamo quanti metri quadri di verde, quante opere di urbanizzazione, quanti alloggi in costruzione verranno realizzati. Sono sempre un po’ in difficoltà invece a dire che forse è un processo più complicato, che ora provo a descrivere.

Gli obiettivi sono sostanzialmente due:

  1. arrivare al recupero dell’identità dei luoghi ragionando su due livelli, dello spazio fisico e della cultura del territorio. Ricostruire una storia ed una memoria dell’ambiente è anche un modo per riallacciare dei legami tra i residenti e il proprio ambiente di vita. Il recupero dell’identità territoriale è un modo per ricostruire la storia del proprio contesto, quindi per non viverla più né come indifferente né come neutra, e forse neanche come distante da sé;
  2. il tentativo di ridare a luoghi indistinti, che non hanno in sé una vocazione specifica, una identità che la gente sceglie di assegnare a quel posto. Il fatto che si possa costruire, attraverso la partecipazione dei soggetti locali, un percorso che assegni una destinazione collettiva a spazi fisici che ne sono privi, ed il processo stesso per arrivare a questo risultato, favoriscono l’appropriazione del proprio ambiente da parte dei residenti.

Provare a ridare un protagonismo alle periferie significa assegnare alla competenza dell’abitante il potere di determinare delle scelte rispetto, ad esempio, alla localizzazione di alcuni investimenti o alla qualità degli spazi che connotano in maniera più significativa parti del territorio. Insieme alla competenza programmatoria della politica e a quella tecnica degli urbanisti, si introduce la competenza degli abitanti. Questo dato, che sembra di assoluta banalità, in realtà rappresenta una nuova dislocazione dei poteri.

Non si raccoglie solo il parere dei residenti, ma questi rappresentano uno dei soggetti che concorrono alla definizione dei progetti. Questa è una fortissima messa in discussione delle professionalità, solitamente abituate a determinare la qualità degli interventi, e questo significa anche introdurre nella progettazione degli interventi da parte della pubblica amministrazione un modo di lavorare che ha le caratteristiche dell’ interdisciplinarietà.

Se la vocazione di un ambiente nasce dalla percezione che ne hanno i residenti, diventa immediatamente comprensibile che la rappresentanza di quei soggetti e l’identificazione di quanto quei soggetti esprimono implica il coinvolgimento, anche nelle progettazioni di tipo urbanistico, di competenze e discipline fino ad ora escluse da questo tipo di investimento. L’idea è di arrivare alla definizione di una struttura operativa che abbia al proprio interno competenze che vanno dall’urbanista all’educatore di strada. La prima operazione, non semplicissima, consiste nel costruire strutture orizzontali in una pubblica amministrazione che lavora per settori verticali e non per progetti, e dove la definizione della professionalità è lo spazio in cui ci si riserva il proprio potere e il proprio ruolo. Questo significa introdurre una modalità di progettazione integrata, cioè di progettazione che fa compenetrare i diversi approcci disciplinari.

La seconda parola d’ordine del progetto è che questa progettazione non può che essere partecipata.

Quando abbiamo scritto la delibera, abbiamo sostenuto che la partecipazione è una misura dell’efficacia delle politiche pubbliche, nel senso che quanto più le opzioni e le modalità d’intervento sono condivise attraverso un processo partecipativo vero, tanto più è possibile che i cambiamenti introdotti da quegli investimenti siano conservati nel tempo. Se chi dovrà fruire dei beni collettivi li sente come propri, assumerà un maggiore livello di responsabilità nella loro conservazione e nella loro gestione. Si cerca di costruire un processo di trasformazione in cui ciascuno assume un ruolo e conquista un peso contrattuale nei confronti della circoscrizione, dell’amministrazione pubblica e del sapere tecnico, che prima non aveva.

Nel caso dell’esperienza di via Arquata, zona in cui si concentrano tutti i problemi sociali ed abitativi tipici delle periferie, abbiamo provato a lavorare per un progetto che si chiama "Contratti di quartiere", e prevede una progettazione integrata e partecipata. Ciò ha voluto dire, ad esempio, che la ricerca di misure condivise dai residenti rispetto al risanamento di quel quartiere, pur avendo inevitabilmente provocato conflitti nella determinazione delle scelte d’uso degli spazi, ha creato relazioni tra i residenti ed i servizi sociali operanti nel quartiere. Ciò li ha rimessi in gioco, permettendo la realizzazione nel futuro prossimo di iniziative culturali collettive. La progettazione partecipata mobilita i soggetti locali con la riscoperta delle risorse degli individui e la possibilità che le mettano a disposizione, e cerca di costruire le condizioni per una cittadinanza attiva, partendo da un progetto di riqualificazione ambientale. Questa operazione ci permette la costruzione di una rete, che necessita però della creazione di nuove figure professionali che facciano da ricettori dei bisogni espressi dalla comunità e in grado di interloquire con le istituzioni, mediante il "laboratorio di quartiere". Si tratta di un termine che evoca esperienze passate e che significa provare a trasferire la struttura orizzontale di cui vi parlavo nei diversi punti del territorio, quindi con la competenza che va dal geometra al sociologo, all’educatore di strada, e che diventa il polo sensibile rispetto alla situazione locale.

Si tratta così di costruire uno sviluppo di comunità, che apra anche una vertenzialità sociale nei confronti della pubblica amministrazione. L’azzardo di operazioni come queste può essere doppio: o dar adito ad aspettative che, se non soddisfatte, possono far ricadere le persone nella diffidenza, nella distanza e soprattutto nella percezione di impotenza; o creare una situazione di conflittualità sociale molto più acuta di quella che si è manifestata fino ad oggi. In ogni caso l’illusione che limitando le modalità partecipative si limiti la conflittualità sociale è stata abbandonata, almeno dai politici torinesi.

In realtà oggi il conflitto sociale nel territorio c’è, anche se non nelle forme che ho ricordato in precedenza, ma si manifesta con la contrapposizione d’interessi diversi e a difesa di se stessi. I quartieri si muovono contro l’ "altro" che fa paura e che si teme possa sottrarre qualche cosa che già si possiede, si muovono per recintarsi rispetto ad un pericolo esterno. Con questo progetto noi vogliamo puntare su questa capacità di aggregazione, ma dando ad essa uno scopo in positivo, non contro qualcuno ma a favore di un cambiamento del territorio e quindi della qualità della vita.