1. Il problema
Già K. Abraham, nella sua critica alle teorie di Jung, aveva
detto: «Va sottolineato che Freud stabilisce dapprima proprio
il fondamento biologico, e vi costruisce sopra la sua teoria
sessuale. Jung invece introduce il suo concetto di libido,
cioè una costruzione filosofica, e spiega i fatti nel senso
di questa teoria».1
E ancora:
Devo infine rilevare ancora che Jung contravviene seriamente
al suo principio di prendere per norma solo la verità e
non il sentimento morale, accostandosi alla sessualità infantile
e all'inconscio con valutazioni etico-teologiche. È proprio
verso questo lato che vorrei, in chiusura, erigere le difese.
Si tratta di proteggere la psicoanalisi da influssi che
potrebbero farne ciò che la filosofia fu in passato: la
ancilla theologiae.2
Abraham accusa Jung di trasformare l'osservazione scientifica
in filosofia e questa, a sua volta, in teologia. Jung, cercando
una maniera per sottrarsi all'autorità di Freud, che forse
era sentita come opprimente dalla maggior parte dei suoi allievi,
cerca di prescindere dall'evidenza empirica per rivolgersi
a quello che era sempre stato il punto forte della cultura
occidentale: la filosofia. Quello stesso campo del sapere
di cui tanto era infatuato Freud in gioventù, e che poi aveva
respinto energicamente, poiché considerata incompatibile con
l'osservazione scientifica.
E, infatti, il concetto di sessualità di Sigmund Freud è
il dogma dell'immanenza.
Non a caso il metodo attraverso il quale avviene il processo
psicoanalitico si basa sulle associazioni libere, ovvero l'esposizione
del materiale così come emerge nella sua forma grezza affinché
venga esposto all'osservazione e all'analisi.
Quello che apparentemente era stato lo scontro tra due personalità
diverse era in realtà molto di più. Jung contrappone alla
concretezza empirica di Freud una visione metafisica. Nelle
pagine seguenti cercherò di provare che questa differenza
contiene significati arcaici profondi e può essere decodificata
solo analizzando il background etnico e mentale
dei due uomini. La tesi che cercherò di dimostrare sostiene
che come la società occidentale aveva superato la fedeltà
al padre e aveva rotto i legami con il capo tribù autoritario,
organizzandosi in una struttura sociale a polis, che la liberava
dall'autorità della Legge del Padre e apriva la strada alla
filosofia e alla metafisica, così Jung si ribella a Freud,
e al posto di una legge che si basi sulle pulsioni, il cui
tema principale è la fedeltà-ribellione al padre e lo schema
edipico, fonda una teoria che si basa sull'astrazione e su
una metafisica trascendentale.
Jung assicura continuamente i suoi lettori della innocuità
delle pulsioni infantili. Come già aveva fatto l'occidente
col crollo del mondo antico, e chiarificheremo più avanti
questo punto, desessualizza il comportamento umano e sterilizza
il corpo dalle pulsioni. Così facendo, asseconda quel gusto
per il soffuso che non è altro che l'espressione di un bisogno
di edonismo e decadenza, particolari del tardo ellenismo come
dei giorni nostri
E infatti, secondo Abraham:
Jung fa un serio passo indietro, dal punto di vista scientifico,
assicurando continuamente i suoi lettori della innocuità
delle pulsioni infantili. Per la verità è anche peggio che
egli poi attribuisca all'inconscio addirittura tendenze
morali.3
A una teoria «ebraica» delle pulsioni, Jung sostituisce la
teoria occidentale degli archetipi. Allo specifico sostituisce
il generale. A una scienza che si basa sull'osservazione che
viene dal basso, una filosofia metafisica. Al codice della
Legge, la filosofia come morale.
La scienza era rinata in Occidente quando, nel tardo Medioevo
e durante il Rinascimento, le teorie neo-platoniche ed aristoteliche
erano state abbandonate a favore dell'osservazione empirica.
Anche a questo allude forse Abraham quando dice: «Jung fa
un serio passo indietro».
Jung è, infatti, un serio passo indietro in rapporto a Copernico,
Leonardo, Galileo e Newton.4
Quando Jung rifiutò la teoria sessuale, Freud fu il primo
a meravigliarsi. Non poteva capire come uno dei suoi seguaci
che più stimava voltasse le spalle a quello che per uno psicoanalista
serio doveva essere di gran lungo scontato. Che ci fosse qualcosa
di irrazionale legato a motivi di estrazione etnica, però,
lo aveva forse percepito. In una lettera ad Abraham del 1908,
in cui lo invitava alla tolleranza nei confronti di Jung,
Freud scrive:
Non dimentichi che per Lei è più facile rispetto a Jung
seguire le mie idee, poiché in primo luogo Lei è completamente
indipendente, e inoltre è più vicino alla mia costituzione
intellettuale per parentela e razza, mentre lui come cristiano
e figlio di un pastore non può che incontrare grosse resistenze
interne nell'avvicinarsi a me.5
Questa è una ben strana argomentazione dalla bocca di un
uomo della levatura intellettuale e morale di Freud. Ci si
sarebbe potuto aspettare da lui che si limitasse ad argomentazioni
molto più razionali e trasparenti.
Mentre Abraham, per ribattere a Jung, si era attenuto a formulazioni
strettamente scientifiche, Freud adopera una frase tenebrosa,
che non richiama certamente associazioni edificanti.
Cosa mai avrà voluto intendere con le parole «per parentela
e per razza»?
E in che cosa esattamente Abraham era più indipendente di
Jung?
Nel 1914, dopo che la scissione era stata consumata, Freud
definisce Jung come qualcuno con «una posizione indipendente».6
Quindi, pur adoperando lo stesso attributo per entrambi, evidentemente
intendeva due cose diverse.
Nelle pagine seguenti cercheremo di decodificare questo enigma.
2. La razionalizzazione
Freud prende la cosa come se fosse personale: Come se dicesse
«Jung, che è cristiano e figlio di un pastore, non può accettare
la psicoanalisi esclusivamente perché l'ho inventata io, che
sono ebreo».
Nel 1913, dopo la secessione con Jung torna su questo punto:
«Egli [Jung] pareva peraltro pronto ad allacciare rapporti
amichevoli con me e a rinunciare per amor mio ai pregiudizi
razziali che fino a quell'epoca si era consentito».7
Questa simbiosi assoluta tra Freud e la sua opera trova espressione
nella sua Autobiografia del 1925, in cui in realtà
ci racconta la storia della psicoanalisi molto di più di quanto
ci racconti la sua storia personale. Ernest Jones scrive nella
sua Biografia:
More than individual friendship Freud had come to treasure
the value of his discoveries and all that ensued from them.
It was as if he had been entrusted with a valuable accession
to our knowledge, and it was his function above everything
else to cherish and to further it, rather as a conscientious
hereditary land owner might feel about his estate.8
Per Freud, chi non accettava la psicoanalisi, la sua creatura,
era perché non accettava la sua persona. E questo perché lui
era ebreo.
Non aveva contemplato la possibilità che forse ci fosse qualcosa
nelle sue teorie che disturbava un equilibrio faticosamente
raggiunto e gelosamente custodito da una cultura che si sentiva
minacciata come tale. E che questo qualcosa fosse percepito
come ebraico, indipendentemente dall'estrazione etnica del
suo fondatore.
Il problema di Freud era che lui stesso connetteva psicoanalisi-ebraismo
per associazione, ed è questo il punto che ci interessa e
che desideriamo focalizzare.
È risaputo che l'antisemitismo è una passione virulenta che
non risparmia nessun mezzo, con le parole di Nietzsche, uno
dei «nomi dei falliti»,9
ma Freud non avrebbe dovuto sfruttare questa circostanza per
astenersi dal focalizzare la questione per i suoi meriti.
La psicoanalisi non è una scienza come tutte le altre, bensì
si propone di decodificare le motivazioni inconsce di tutto
l'agire umano, quindi deve essere in grado anche di analizzare
sé stessa. Se Freud vedeva un legame tra l'antisemitismo e
la resistenza alla sua teoria doveva anche spiegarci il meccanismo
di come questo avviene. E non accontentarsi di dire che una
delle fonti della resistenza alla psicoanalisi era che l'aveva
fondata lui, che era ebreo. Almeno in teoria, se i suoi postulati
fossero stati formulati da un cristiano avrebbero potuto risvegliare
esattamente la stessa antipatia,10
di cui ci riparla più tardi in un articolo pubblicato nella
Revue Juive, «The Resistances to Psycho-Analysis».11
Nell' articolo Freud attribuisce la resistenza alle sue scoperte
a motivi affettivi, che si basano sulla repressione stessa
della sessualità. Poichè la civilizzazione dipende dal controllo
dei nostri istinti primitivi, le rivelazioni della psicoanalisi
la metterebbero a rischio. Ma Freud conclude il saggio suggerendo
che pregiudizi antisemiti concernenti la sua persona siano
la causa per la veemenza dell'opposizione e la sua forma spiacevole,
creando un legame associativo tra sessualità, repressione,
ebraismo e la sua persona stessa.
Sia concesso infine all'autore di sollevare in tutta la
modestia la questione se per caso la sua personalità di
ebreo che non ha mai voluto nascondere le proprie origini
ebraiche non abbia anch'essa contribuito a determinare l'antipatia
del mondo che lo circonda per la psicoanalisi. Raramente
un argomento come questo viene reso esplicito, ma noi siamo
purtroppo diventati talmente sospettosi da non poterci esimere
dalla supposizione che una circostanza come questa non sia
rimasta completamente priva di conseguenze.12
Proprio l'antisemitismo, che da un punto di vista psicoanalitico
è uno dei fenomeni più interessanti, in quanto risveglia passioni
oscure apparentemente indecifrabili, è stato uno dei fenomeni
trattati più superficialmente da Freud.
Nel 1908, analizzando la fobia del piccolo Hans, postula
in una nota: «Il complesso di evirazione è la più profonda
ragione inconscia dell'antisemitismo».13
E poi tratta dell'antisemitismo in maniera più vasta solo
nel 1938, alle soglie della morte, nel suo Uomo Mosè.14
Ma anche qui, in realtà sull'antisemitismo, ci dice molto
poco.
Il fatto stesso che Freud abbia deciso di occuparsi della
figura del condottiero negli ultimi anni della sua vita, suggerisce
che non voleva terminare la sua esistenza prima di dare espressione
a una tensione, che era stata sempre presente, sulle soglie
del subconscio, come lui stesso aveva confessato a Lou Salome
in una lettera del Gennaio 1935.15
L'analisi freudiana del Mosè e delle circostanze
dell'uscita dall'Egitto è completa e convincente,16
mentre quando arriva all'antisemitismo si basa su luoghi comuni
e su induzioni prive di una sequenza organica.
L'associazione stessa tra ebraismo e cristianesimo è un cliché.17
La nostra tesi sostiene che non esiste legame evolutivo tra
ebraismo e cristianesimo. Il cristianesimo è una conseguenza
dell'ellenismo e non dell'ebraismo. Il sacrificio di Cristo
una continuazione di quello di Dioniso e, a nostro parere,
non vi è nessun legame tra Aton e Mosè da una parte, e Gesù
Cristo e Paolo dall'altra. Il monoteismo cristiano è la continuazione
dell'ecumenismo iconodulo di Apollo, ha infatti la stessa
morfologia e non rispecchia i contenuti del monoteismo iconoclastico
di Aton che attraverso Mosè, secondo Freud stesso, è passato
all'ebraismo.
Quello che è molto strano è che proprio il problema dell'antisemitismo
sia stato trattato da Freud in maniera così poco soddisfacente.
Anche se, a sprazzi, ha avuto alcune rivelazioni, sull'antisemitismo
e i suoi meccanismi Freud ci ha svelato molto poco.
Le sue resistenze gli impedivano di scomporre la sintesi
dei luoghi comuni per tutto quello che riguardava l'argomento.
Comunque, anche se non era riuscito a focalizzare il contenuto
del problema, aveva percepito che la sostanza della resistenza
di Jung era nella sua struttura mentale non-ebraica.
Ma Freud non ci spiega né in cosa consista questa mentalità
non-ebraica di Jung, causa delle sue resistenza alla
psicoanalisi, né in cosa consista avere una mentalità ebraica,
e non ci spiega neppure cosa intenda con questa denominazione.
Forse proprio perché non legava direttamente la psicoanalisi
con l'ebraismo, bensì solo attraverso la propria persona:
Freud = ebreo, Freud = psicoanalisi: chi è ostile a Freud
in quanto ebreo è ostile anche alla sua creatura, ma può essere
ostile alla psicoanalisi anche se è ostile solo a Freud.
Adler era ebreo, eppure Freud stesso dice di lui: «che la
sua attitudine a comprendere il valore del materiale inconscio
era particolarmente scarsa».18
In questo caso, Freud fa dipendere la secessione di Adler
dalla sua incapacità, cosa che non poteva fare per Jung, per
il quale aveva avuto, fino a quel momento, solo parole di
lode (vedi nota6)
e in entrambi i casi dall'ostilità verso la sua persona. Ovviamente
nel caso di Adler l'ebraismo non poteva venire chiamato in
causa.
Questo strano legame tra il suo ebraismo e la psicoanalisi
tornerà a turbare Freud, anche negli anni seguenti.
Un legame c'era. Freud sapeva che la psicoanalisi aveva qualcosa
di ebraico, e legava la cosa alla sua persona, invece di legarlo
alla sua teoria. La parte forse più interessante consiste
nel fatto che il rapporto di Freud stesso verso il proprio
ebraismo era stato ambivalente. Se all'inizio della sua carriera,
quando da giovane era fidanzato alla nipote del rabbino, si
era dimostrato estremamente reticente verso le proprie radici
ebraiche, al punto di contemplare una rottura completa con
le proprio passato,19
col progredire del tempo, egli si identifica sempre di più
con il suo popolo, al punto che, nel 1930, in una prefazione
alla prima traduzione in ebraico di Totem e Tabù,
scrive:
Per nessuno dei lettori di questo libro sarà facile immedesimarsi
nell'atteggiamento emotivo dell'autore, che non conosce
la lingua sacra, che si sente completamente estraneo alla
religione dei padri -- come ad ogni altra religione peraltro
-- e che non riesce a far propri gli ideali nazionalistici
pur non avendo mai rinnegato l'appartenenza al suo popolo
e sentendo come ebraico il proprio particolare modo d'essere
che non desidera diverso da quello che è. Se gli venisse
rivolta la domanda: «Dal momento che hai lasciato cadere
tutti questi elementi che ti accomunano ai tuoi connazionali,
cosa ti è rimasto di ebraico?», la sua risposta sarebbe:
«Moltissimo, probabilmente ciò che più conta». Tuttavia
egli non saprebbe al momento esplicitare a chiare lettere
in cosa consista questa natura essenziale dell'ebraismo;
ma confida che un giorno o l'altro essa diventerà intelligibile
per la scienza.20
E qui Freud, lo scienziato positivista, ripone la sua fiducia
nella scienza, ovvero nel pragmatico, nell'immanente. La scienza,
per ora, non gli aveva ancora portato la salvezza, ma Freud
confida che in futuro questo avverrà. Qui Freud si scusa con
i suoi fratelli, che leggeranno le sue opere in ebraico, di
non conoscere la lingua sacra.
Lui stesso ci ha insegnato che nessuna espressione è casuale,
e che ogni parola contiene un significato. Non conosce la
lingua sacra, ovvero non conosce l'ebraico.
Gli israeliani, che ai tempi di Freud si chiamavano ebrei
palestinesi, usano questa lingua nella vita di tutti i giorni
e non la chiamano mai «lingua sacra». Freud poteva dire semplicemente
di non conoscere l'ebraico, come non conosceva anche altre
lingue.
Ma la lingua di Freud, nel suo doppio significato, batteva
dove il dente duole.
Infatti al funerale del padre, nel lontano 1896, trentaquattro
anni prima, non aveva potuto recitare il Kaddish, la
preghiera rituale dei morti, perché questa era in aramaico,
lingua che viene scritta con gli stessi caratteri dell'ebraico.21
Questa era la lingua sacra che emergeva dall'inconscio di
Freud. E sacro, come lui stesso ci ha insegnato, è legato
al tabù e significa che genera venerazione e orrore, come
i morti stessi che si vendicano dei vivi.22
Questo senso di colpa di Freud verso il padre si tradurrà
in senso di colpa verso l'ebraismo, poiché con questo, da
bambino, aveva identificato il padre.
È da questo senso di colpa, dunque, che Freud confida di
essere liberato dalla scienza, e questo avverrà «un giorno
o l'altro» rendendoglielo «intelligibile».
Non a caso, inoltre, Freud scelse di fare una prefazione
all'edizione ebraica di Totem e Tabù e non a
un altro dei suoi saggi. L'associazione Totem e Tabu = ebraismo
= psicoanalisi, in contrasto a tutto quello che appartiene
invece alla sfera mentale del mondo dei gentili, era stata
da lui stesso inconsciamente formulata. Infatti in una lettera
ad Abraham del 13 Maggio 1913, in cui gli preannuncia la prossima
pubblicazione del saggio scrive: «would serve to make a sharp
division between us and all Aryan religiosity».23
Quindi associa il parricidio e l'incesto, la trama del complesso
edipico e lo svolgimento della tragedia primordiale, all'ebraismo,
come se avesse descritto un segmento di storia ebraica, invece
che la preistoria comune a tutta l'umanità. Nello stesso giorno
scrive a Ferenczi:
Since the Interpretation of Dreams
I have not worked at anything with such certain and elation.
The reception will be the same: a storm of indignation except
among those near to me. In the dispute with Zurich it comes
at the right time to divide us as an acid does a salt.24
Freud dà dunque per scontato che il suo Totem e Tabù
non avrebbe potuto essere accettato da Jung, non solo, ma
avrebbe anche accellerato la scissione, come si esprime due
settimane dopo: «Jung is crazy, but I don't really want a
split; I should prefer him to leave on his own accord. Perhaps
my Totem work will hasten the break
against my will».25
E il legame associativo tra psicoanalisti svizzeri = gentili
= estranei ai concetti base della sua teoria sessuale, e viennesi
= ebrei era già stata formulata da Freud nel 1910, quando,
reagendo al criticismo sconclusionato di Alfred Saenger aveva
scritto:
There one hears just the argument I tried to avoid by making
Zurich the center. Viennese sensuality is not to be found
anywhere else! Between the lines you can read further that
we Viennese are not only swine but also Jews. But that does
not appear in print.26
Nel 1913 anche un altro psicoanalista, Maeder, scrive a Ferenczi
che le differenze scientifiche tha i viennesi e gli svizzeri
dipendono dal fatto che i primi sono ebrei e i secondi ariani.27
Usciamo ora dai meandri interni, dove hanno origine le energie
che portano all'azione, per ricollegarci all'epifania esterna,
dove, attraverso l'azione, queste energie vengono consumate
e i bisogni del singolo si intrecciano con quelli della collettività.
Dove l'ermetico dialogo interno si proietta in un, non meno
ermetico, dialogo esterno.
Abbiamo suggerito che il dissidio tra Jung e Freud contenga
elementi dell'arcaica antitesi morfologica tra Occidente e
Oriente semitico. Tra una società che aveva abbandonato la
Legge del Padre e i suoi riti tribali, per rivolgersi alla
filosofia, e una società che continuava a vivere la propria
realtà «barbara» e immanente.
Questa divergenza si era andata allargando sempre di più,
dai filosofi presocratici, attraverso Platone e fino allo
stabilirsi di un'ecumene panellenica, che voleva unificare
tutto il mondo conosciuto sotto il tetto di un'unica cultura
sotto le insegne di Apollo, il dio civilizzatore.
La soluzione apollinea si basava sulla rimozione dell'essenza
dionisiaca della psiche umana, e imponeva il governo assoluto
dell'«Io» sulle sfere oscure dell'«Es», che nella percezione
occidentale era rappresentato da Dioniso.
Chi non voleva uniformarsi a questa cultura era considerato
«barbaro».
Ai tempi dei romani era ormai chiaro a tutti che i barbari
par excellence erano rimasti gli ebrei. Questi
avevano sempre rifiutato la soluzione occidentale, che proponeva
di trasfigurare l'essenza di Dioniso in quella di Apollo.
Al posto di una trasfigurazione si erano trincerati in una
rimozione, che riusciva poiché avveniva sotto la cappa dell'intransigenza
della Legge del Padre e la coesione della tribù dei fratelli.
Sentiamo cosa dice Tacito degli Ebrei:
Tra di loro sono sempre molto leali e molto disponibili
al mutuo soccorso... Siedono a mensa separati e, ancora
separati, dormono: ma sono uomini di sfrenata libidine,
abituati a non avere rapporti sessuali con donne di altri
popoli e a considerare invece tutto lecito tra di loro.
Hanno istituito l'usanza della circoncisione. Per riconoscersi
tra di loro da questo segno distintivo (Hist.
V. 5).
Per Tacito, dunque, gli Ebrei si contraddistinguono da due
cose: a) una sfrenata libidine; b) portano un segno, un marchio
nella carne, per riconoscersi tra di loro. Questo è anche
il simbolo di una coesione peculiare a quella delle tribù
primitive, dove il marchio, la mutilazione subita nel corso
dei riti iniziatici, è anche un segno della fedeltà al clan.
Non a caso questa mutilazione è inferta proprio sull'organo
che è anche lo strumento di questa «sfrenata libidine», attribuita
da Tacito agli ebrei.
Quando mille e novecento anni dopo appare sulla scena della
storia un ebreo che attribuisce tutte le motivazioni umane
alla sessualità (e adoperò la stessa espressione di Tacito,
libido) e istituisce una scienza che si basa
sulla libidine, i gentili non avrebbero potuto fare altro
che esclamare: «Lo sapevamo, questa è una teoria ebraica,
adatta agli ebrei, l'avevamo sempre detto che questa è gente
dalla sfrenata libidine!!».
Ed ecco che arriva Jung, il cavaliere senza macchia e senza
paura, che erge la lancia contro il suo maestro, per salvare
l'onore dell'Occidente e ristabilire l'ordine.
E Jung tranquillizza il suo popolo: la scuola psicoanalitica
intende per sessualità la pulsione di conservazione della
specie,28
e non, come per Freud, unicamente al conseguimento del piacere.
E, come colpo di grazia finale, scaglia il suo santo giavellotto
e proclama: «Il periodo della prima infanzia è caratterizzato
dalla mancanza di funzioni sessuali».29
Questa ovviamente non è una teoria scientifica ma una crociata
contro gli infedeli.
Non sappiamo se Freud abbia letto Tacito (non mi risulta,
infatti, che lo abbia mai menzionato), ma aveva percepito
correttamente che doveva esserci un legame tra l'impossibilità
di Jung a ricevere la psicoanalisi, come era stata da lui
formulata, e il carattere «ebraico» della sua teoria.
Solo che aveva razionalizzato questa resistenza di Jung come
se fosse diretta contro la sua persona, di Freud, l'ebreo.
E questa razionalizzazione era diretta a celare il vero motivo,
di cui parleremo in seguito, dell'«ebraicità» delle teorie
di Freud.
La cosa più interessante è che anche Jung «collaborò» alla
razionalizzazione di Freud, creandone una sua parallela, e
confermando così indirettamente l'asserzione di Freud che
la secessione fosse diretta contro la persona del maestro
e non contro la sua teoria.
Infatti, nel momento decisivo della crisi, nel 1912, Jung
cita il Zarathustra di Nietzsche per rivendicare il proprio
diritto d'allievo all'autonomia, dicendo «si fa torto a un
maestro rimanendo sempre suo allievo».30
Anche Jung preferì, quindi, celare i motivi inconsci della
sua secessione, che erano molto più profondi e meno triviali,
nascondendoli dietro la parvenza di una disputa con motivazioni
personali. Jung preferì inconsciamente una razionalizzazione
che gli attribuisse motivazioni meschine, piuttosto che lasciar
trapelare che qui si trattasse invece di un dialogo tra culture
diverse: tra Occidente e Oriente semitico, tra polis e tribù,
tra metafisica e realtà pulsionale immanente.
Indipendente dalle motivazioni personali di Jung, che forse
era quello che Freud definisce «una persona la quale, incapace
di tollerare l'altrui autorità, era ancor meno incline a crearsene
una propria e devolveva tutte le sue energie nel perseguire
senza scrupoli i propri personali interessi»,31
di fatto Jung diventò il portavoce di una cultura, che per
motivi insiti nelle proprie soluzioni esistenziali, non era
disposta ad accettare la teoria della sessualità di Freud.
Ed è molto piu utile, ai nostri fini, concentrarci su questo
aspetto del ruolo che coprì Jung nella sua disputa con Freud,
piuttosto che sulle sue motivazioni personali.
Tacito era stato molto più chiaro.
Come disse Nietzsche, ognuno può attingere solo da quello
che sa già, dal proprio Erlebnis, la propria
esperienza, anche se in questo caso si tratta di un erlebniss
filogenetico, per usare la teoria di Freud secondo la quale
esperienze del passato vengono tramandate alle generazioni
posteriori attraverso l'ereditarietà.32
Ma prima di affidarci definitivamente all'erlbniss
filogenetico di Freud, preferiamo fare un tentativo guardando
nell'esperienza esistenziale di Freud l'uomo e del suo gruppo,
piuttosto che in quella di Freud, membro di un ethnos
particolare e l'implicazione di un'eventuale tendenza ereditata.
Nel suo habitat mentale e quello della sua
generazione, forse riusciremo a trovare una spiegazione migliore,
piuttosto che in un'attitudine filogenetica, che come tale
rimane necessariamente nebulosa.
Nel 1924 Freud aveva detto: «Per aderire alla teoria psicoanalitica
bisognava avere una notevole disponibilità ad accettare un
destino al quale nessun altro è avvezzo come un ebreo: è il
destino di chi sta all'opposizione da solo».33
Ma questa ci pare un'argomentazione molto debole, dalla quale
emana una connotazione di razionalizzazione poichè, malgrado
da questa frase non siamo obbligati ad indurre automaticamente
che ognuno che abbia «disponibilità ad accettare un destino...»
debba per forza aderire alla teoria psicoanalitica, questa
è la conclusione inconscia che se ne trae. «La disponibilità
ad accettare un destino... il destino di chi sta all'opposizione
da solo» può spiegare al massimo la sua persistenza di fronte
alla forte opposizione incontrata. Tale disponibilità, infatti,
non può essere addotta come la causa della nascita di una
nuova scienza e tanto meno come argomentazione in favore della
validità di questa.
Freud vedeva nella sua strada una missione, anzi, come lui
stesso dice un «destino». Sia missione che destino sono definizioni
che si associano all'eroe tragico che non ha scelta alcuna,
se non seguire la strada destinatagli dal Fato. Vedremo in
seguito come questa associazione tra «essere ebreo» e «destino»
non era stata casuale, e come si ricolleghi a Totem
e Tabù e alla tragedia greca, quando il destino era
stato comune, prima della divergenza in due Fati diversi,
uno per gli ebrei, e un altro per i gentili.
Freud, sempre di più, percepiva un legame tra il proprio
ebraismo e la psicoanalisi. Questa era un'associazione dalla
quale non poteva prescindere, ma non riusciva a focalizzare
quale fosse il contenuto di questa associazione. E, come lui
stesso ci ha insegnato, ogni contenuto rimosso continua a
premere per un riconoscimento. Infatti nella sua Autobiografia,34
scritta nello stesso anno, ritorna il motivo della sua appartenenza
etnica, come causa della sua tendenza a rimanere sempre nelle
file dell'opposizione: «Ma queste prime impressioni universitarie
ebbero la conseguenza importantissima di abituarmi fin da
principio al destino di stare meglio nelle file dell'opposizione
e all'ostracismo della "maggioranza compatta"». E, come abbiamo
visto, l'equazione anticonformismo = psicoanalisi era già
stata, da lui stesso, stabilita.
L'anno dopo, questo leitmotiv, continua
ad emergere, come se ormai fosse un verità acquisita. In un
discorso al Bnei Brith dice:
Poiché ero ebreo mi ritrovai immune dai molti pregiudizi
che limitavano gli altri nell'uso del loro intelletto e,
in quanto ebreo, fui sempre pronto a passare all'opposizione
e a rinunciare all'accordo con la «maggioranza compatta».35
E qui torna per la seconda volta «la maggioranza compatta»,
alla quale Freud si sente orgoglioso di essere in opposizione.
Quindi, per Freud, essere ebrei corrisponde automaticamente
ad essere immuni da pregiudizi, illimitati nell'uso del proprio
intelletto, ed essere perpetuamente all'opposizione. Questo
è al massimo un luogo comune e non certo un postulato scientifico.
Se Freud non avesse avuto una forte resistenza nel riconoscere
il motivo vero per cui il primo psicoanalista sia stato ebreo
e la psicoanalisi sia nata come una scienza ebraica, ci avrebbe
risparmiato questi stereotipi pietosi.
L'associazione ebraismo-psicoanalisi gli veniva alla mente
continuamente, come una goccia d'olio, spinta di forza in
un barile d'acqua, emerge sempre prepotente alla superficie.
E più passava il tempo più questa associazione emergeva con
i sintomi di una rappresentazione ossessiva. Quindi prendiamo
senz'altro per buona questa associazione del padre della psicoanalisi,
ma cerchiamone i motivi veri, non una razionalizzazione stereotipata,
che equivale, nel suo basso livello, alla formula antisemita
«Gli ebrei sono tutti intelligenti!». Da Freud avremmo potuto
aspettarci un livello di argomentazione molto più alto.
Ma, quando si trattava di ebraismo, il padre della psicanalisi
non riusciva a rimanere completamente lucido. Delle forze
oscure disturbavano la sua capacità di valutazione.
3. La crisi
Vediamo dunque qual'è, secondo noi, il vero motivo, per cui
i primi psicoanalisti furono quasi tutti ebrei.36
E cominciamo con quello che Freud stesso lascia trapelare
da dietro le sue affermazioni. Nello stesso discorso del 1926
alla riunione dei Bnai Brith, che è una loggia ebraica37
senza nessuna intenzione oscura e misteriosa, ma pur sempre
una confraternita esclusiva, che era composta da soli uomini,
Freud comincia con la frase: «Onorevole Gran Presidente, stimati
Presidenti, cari Fratelli».
Dopo alcune frasi di presentazione continua:
Accadde negli anni seguenti al 1895, quando due forti impressioni
sortirono contemporaneamente su di me il medesimo effetto.
Da un lato avevo cominciato a penetrare nelle profondità
della vita pulsionale umana, avevo visto parecchie cose
che potevano disincantare, da principio addirittura spaventare;
dall'altro la comunicazione delle mie spiacevoli scoperte
ebbe il risultato di farmi perdere la maggior parte delle
mie relazioni umane di quell'epoca; mi pareva di essere
un proscritto evitato da tutti; in questa solitudine si
destò in me l'anelito per una cerchia di uomini eletti e
di elevato sentire, i quali, nonostante la mia temerarietà,
mi accogliessero amichevolmente. La vostra associazione
mi fu indicata come il luogo in cui poter trovare uomini
siffatti.
Il vostro essere Ebrei non poteva che essermi gradito,
dal momento che io stesso sono ebreo e mi è sempre parso
non solo indegno ma assolutamente assurdo negarlo. Ciò che
mi legava all'ebraismo era -- mi vergogno di ammetterlo
-- non la fede, e nemmeno l'orgoglio nazionale.38
Quindi c'è una cosa indegna, che Freud non fa, e della quale
quindi non deve vergognarsi, ed è negare il proprio ebraismo.
E una cosa invece di cui si vergogna, quindi indegna, ed è
che quello che lo lega all'ebraismo non è la fede
e, come aggiunge in secondo piano, nemmeno l'orgoglio nazionale.
Questa frase è per noi assolutamente incomprensibile.
Perché si vergogna del fatto che quello che lo lega all'ebraismo
non sia la fede?
Anche senza aver condotto una ricerca su questo argomento,
possiamo ragionevolmente sostenere che molti ebrei siano laici,
molti atei, orgogliosi di essere ebrei, e che non si vergognino
affatto di non essere legati all'ebraismo dalla fede.
Nel 1886, esattamente trent'anni prima di questo discorso,
alla vigilia delle sue nozze con la nipote del rabbino, Freud
si era dimostrato ben orgoglioso di non avere fede e di non
sentire orgoglio nazionale, al punto di contemplare la possibilità
di battezzarsi con il solo scopo di troncare, anche ufficialmente,
questi legami.39
E adesso, sulle soglie della vecchiaia, improvvisamente si
vergogna di non avere fede.
Perché mai avrebbe dovuto avere fede, se questa contraddiceva
tutte le sue più radicate convinzioni?
Freud confessa dunque di essersi sentito diverso dai suoi
colleghi gentili che lo avevano allontanato (proscritto) e
si erano estraniati da lui, in quanto ebreo, e di aver ricercato,
di conseguenza, la compagnia dei suoi simili che lo avrebbero
accolto amichevolmente.
Non solo, ma questi suoi simili si chiamavano Bnai Brith,
i figli dell'alleanza, la circoncisione attraverso la quale
i fratelli dello stesso clan si distinguono fra di loro (vedi
nota37).
Quindi Freud ci conferma le parole di Tacito: «Tra di loro
sono sempre molto leali e molto disponibili al mutuo soccorso...
Hanno istituito l'usanza della circoncisione per riconoscersi
tra di loro da questo segno distintivo».
Ma questi uomini, che lo avrebbero accolto amichevolmente,
erano anche «una cerchia di uomini eletti e di elevato sentire».
Freud stesso, nel 1938, alle soglie della morte, ci chiarirà
cosa in realtà intendeva già dodici anni prima, e questo lo
farà trattando dell' eroe, suo e del popolo ebraico. Nel terzo
saggio su L'uomo Mosè scrive:
Quando sentiamo che Mosè «consacrò» il suo popolo introducendo
l'usanza di circoncidersi, comprendiamo adesso il senso
profondo di questa affermazione. La circoncisione è il sostituto
simbolico dell'evirazione, che un tempo il padre primigenio
nella pienezza del suo potere assoluto aveva inflitto ai
figli; chi accettava questo simbolo, mostrava con ciò di
essere pronto a sottomettersi al volere del padre anche
se questi gli imponeva il sacrificio più doloroso.40
E nella pagina seguente:
Volevamo chiarire donde abbia origine il carattere peculiare
del popolo ebraico, che verosimilmente ha reso anche possibile
la sua sopravvivenza fino al giorno d'oggi. Abbiamo trovato
che l'uomo Mosè impresse questo carattere negli Ebrei dotandoli
di una religione che accrebbe la loro presunzione, al punto
che si credettero superiori a tutti gli altri popoli. Si
conservarono dopo di allora tenendosi lontani dagli altri
(come asserisce Tacito). Le mescolanze di sangue causarono
poco turbamento, poiché ciò che li teneva uniti era il fattore
ideale, il possesso comune di determinati beni intellettuali
ed emotivi. La religione mosaica ebbe questo effetto perché
1) fece sì che il popolo prendesse parte alla grandiosità
insita in una nuova rappresentazione di Dio, 2) asserì che
questo popolo era stato scelto da questo grande Dio ed era
destinato a ricevere le testimonianze del suo particolare
favore, 3) impose al popolo di progredire spiritualmente,
e questo progresso di per sé solo già abbastanza importante,
aprì la strada all'apprezzamento del lavoro intellettuale
e a nuove rinunce pulsionali.
Ed ecco che abbiamo trovato cosa intendeva Freud, ancora
nel 1908, quando nella sua lettera ad Abraham aveva parlato
di parentela e razza: «Le mescolanze di sangue causarono poco
turbamento, poiché ciò che li teneva uniti era il fattore
ideale, il possesso comune di determinati beni intellettuali
ed emotivi».
E «la cerchia di uomini eletti e di elevato sentire», la
confraternita dei Bnai Brith, erano quelli che Mosè
«consacrò», attraverso la circoncisione, e che accettando
questo simbolo «mostrava con ciò di essere pronto a sottomettersi
al volere del padre anche se questi gli imponeva il sacrificio
più doloroso».
Ed ecco il Padre, quello stesso padre sulla cui tomba Freud
non aveva potuto leggere il Kaddish, trent'anni prima,
poiché non conosceva la lingua sacra, che riemerge
dalla rimozione.
Questa confraternita, a cui Freud testimonia la sua appartenenza,
fu dotata «di una religione che accrebbe la loro presunzione,
al punto che si credettero superiori a tutti gli altri popoli»
e le fu imposto «di progredire spiritualmente... e aprì per
giunta la strada all'apprezzamento del lavoro intellettuale
e a nuove rinunce pulsionali».
E qui cominciamo forse a capire perché mai Freud si vergognasse
di ammettere che «non la fede» era quello che lo
legava all'ebraismo.
Era stata la fede nel dio-Padre che aveva imposto la circoncisione,
e l'inibizione pulsionale conseguente a questa fede che, secondo
Freud, era stata responsabile del progresso spirituale e l'apprezzamento
del lavoro intellettuale, che aveva fatto degli ebrei, e dei
Bnai Brith davanti ai quali ora Freud si confessava,
«la cerchia di uomini eletti e di elevato sentire, i quali,
nonostante la mia temerarietà, mi accogliessero amichevolmente».
Se Freud non condivideva questa fede, sentiva di non meritarsi
l'amicizia di questa confraternita e di non essere degno di
farne parte. E da qui il carattere espiatorio del suo discorso,
in cui cerca, sempre di più, di giustificarsi.
Lasciamolo continuare nella sua confessione davanti alla
tribù dei fratelli, i Bnai Brith. Dopo aver preso le
parti dell'accusa (Non hai fede e quindi non meriti di essere
uno dei nostri), viene la parte della difesa:
Ma tante altre cose rimanevano che rendevano irresistibile
l'attrazione per l'ebraismo e gli Ebrei, molte oscure potenze
del sentimento, tanto più possenti quanto meno era possibile
tradurle in parole, così come la chiara consapevolezza dell'interiore
identità, la familiarità che nasce dalla medesima costruzione
psichica.41
Quindi è come se dicesse: «non mi merito di essere dei vostri
poiché non ho fede ma vi prego di accettarmi lo stesso poiché
mi identifico con voi. Il motivo per il quale questo avvenga
non mi è chiaro e non può essere espresso in parole».
Proprio lui, che aveva trovato una cura la cui efficacia
si basa sul potere delle parole, la loro essenza magica, la
loro capacità ad abreare i contenuti oscuri e a risolverli,
sostiene che non può tradurre in parole i suoi sentimenti.
E quindi li condanna a rimanere oscuri, non decifrati. Se
un suo paziente fosse venuto da lui con un simile discorso,
possiamo facilmente immaginare che lo avrebbe fatto stendere
subito sul lettino e lo avrebbe invitato a cominciare con
le prime associazioni. L'efficacia della psicoanalisi si basa
proprio sulla capacità di tradurre in parole chiare i contenuti
oscuri del proprio inconscio, e infatti è un processo verbale.
Un muto non può essere psicoanalizzato, poiché non può tradurre
in parole chiare le sue rappresentazioni figurate.
Le «molte oscure potenze del sentimento» sono incompatibili
con la «chiara consapevolezza dell'interiore identità» poiché
se le potenze del sentimento sono oscure, come può essere
chiara l'identità che ne deriva?
Ma «l'accusato» continua a giustificarsi, a perorare la propria
causa: «E a ciò si aggiunse ben presto la certezza che soltanto
alla mia natura di ebreo io devo le due qualità che mi erano
diventate indispensabili nel lungo e difficile cammino della
mia esistenza». E qui viene quella frase contro la quale siamo
insorti prima: «Poiché ero ebreo mi ritrovai immune dai molti
pregiudizi che limitavano gli altri nell'uso del loro intelletto
e, in quanto ebreo, fui sempre pronto a passare all'opposizione
e a rinunciare all'accordo con "la maggioranza compatta"».
Poiché «la maggioranza compatta» torna per la seconda volta
nelle parole di Freud, cercheremo in seguito di decodificarne
i significati.
Per il momento, Freud, nel terrore di essere «eliminato
dal suo popolo» (Gn., 17/14, vedi supra,
nota37),
è pronto a tutto pur di avere l'assoluzione, e si prostra
umiliato davanti ai suoi fratelli-giudici:
Non so se sono stato un vero B. B., così come voi l'intendete.
Sono quasi propenso a dubitarne, troppe condizioni particolari
si sono determinate nel mio caso. Mi sia consentito però
di assicurarvi che per me avete voluto dire molto e avete
fatto molto negli anni in cui mi sono sentito uno dei vostri.
Freud non sapeva cosa intendessero i suoi fratelli per «un
vero B. B.».
Come nel Processo di Kafka, l'eroe percepisce
la colpa ma non il capo d'accusa. Per questo anche la sua
difesa è confusa. Temeva di non poter qualificare, di venire
squalificato. E la squalifica dal popolo ebraico è il karet,
l'estirpazione di quell'anima dal suo popolo. Come chi non
è circonciso (Gn., 17/14), chi non aderisce al
rito pasquale (Es., 12/15; Nm.,
9/13), e chi non partecipa al giorno dell'Espiazione (kippur)
(Lv., 23/32), in cui tutta la tribù partecipa
al lutto e alla resurrezione dell'ariete, l'animale totem
ucciso.42
4. Freud e L'Uomo Mosè
L'Uomo Mosè fu l'ultima opera di Freud. Come
lui stesso aveva confessato a Lou Andreas-Salomè nel 1935,
il problema di Mosè «lo aveva perseguitato tutta la vita».43
E a questo punto siamo pronti anche a decodificare un'altra
razionalizzazione di Freud. Egli apre il primo saggio su Mosè
con le seguenti parole:
Non è impresa né gradevole né facile privare un popolo
dell'uomo che esso celebra come il più grande dei suoi figli:
tanto più quando si appartiene a questo popolo. Ma nessuna
considerazione deve indurre a subordinare la verità a presunti
interessi nazionali, quando dal chiarimento di un problema
obbiettivo possiamo attenderci un progresso delle nostre
conoscenze.44
Quindi fa derivare il suo interesse per Mosè dal dovere morale
della scienza verso la verità per sé.
Ma lui stesso aveva definito la sua opera «un romanzo storico»45
e un «fantasma irrequieto».46
L'implicazione era, dunque, che quel qualcosa che «lo aveva
perseguitato tutta la vita», quel «fantasma irrequieto» premeva
per un riconoscimento, e che la verità scientifica era solo
uno strumento per permettere a questo qualcosa di emergere
e venire esorcizzato. Il fine era il suo romanzo personale.
Freud «l'Uomo» doveva raccontare il suo romanzo personale
per chiarire non un «problema obbiettivo» bensì poiché
si attendeva un progresso della conoscenza di sé.
In nome della scienza voleva abreare una tensione che lo
turbava.
Chi legga i suoi tre saggi su Mosè non riceve affatto l'impressione
che Freud abbia privato il popolo ebraico del suo Mosè, anche
se questi era nato come egiziano. Anzi, l'impressione è che,
attraverso il «romanzo storico» di Freud, il legame tra Mosè
e il suo popolo adottivo abbia ricevuto ancora più consistenza.
Freud avrebbe potuto aprire così il suo primo saggio:
È impresa sia gradevole che facile fare l'apologia di un
nobile egizio, che si mise a capo delle tribù ebraiche per
conferire loro il più grande messaggio di civiltà che sia
mai stato dato, e stabilire così tra sé e il popolo ebraico
un legame simbiotico indissolubile che si tramanderà, come
una lega indistruttibile, attraverso i millenni e per sempre.
Il timore di Freud, dunque, non era di «privare il popolo
ebraico dell'uomo che esso celebra come il più grande dei
suoi figli». Per il popolo ebraico Mosè non era mai stato
«il più grande dei suoi figli», bensì lui stesso un semidio.
L'appellativo stesso «l'Uomo» che viene attribuito a Mosè,
in ebraico ish, non significa uomo come la parola adam,
bensì uomo importante, speciale. Esattamente il contrario
di un figlio. La Bibbia aveva adoperato questa parola solo
per Giuseppe, quand'era viceré d'Egitto (Gn.,
42/33; 43/3; 6/14).
Mosè era pari a Dio, come ci racconta la Bibbia:
Il Signore disse: «Ascoltate le mie parole! Se ci sarà
un vostro profeta, io, il Signore in visione a lui mi rivelerò,
in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè:
egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca
a bocca parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli
guarda l'immagine del Signore» (Nm., 12/6).
L'unico che ebbe l'occasione di vedere il Dio invisibile
e di parlargli «faccia a faccia» (Deut.,
34/10).
Mosè «parlava con Dio faccia a faccia» ed «egli guarda l'immagine
del Signore», intercedeva a favore d'Israele di fronte a Dio,
quindi gli era quasi pari. Era un dio figlio, la cui natura
era quella di una consustanzialità con dio-Padre, probabilmente
simile a quella di Cristo con il Padre nel mito cristiano,
e a cui solo la censura del Redattore, impedì di affiorare.47
Non lui era il figlio del popolo d'Israele di cui parla Freud.
C'è un proverbio in ebraico che dice «non c'è un profeta
nella propria città» (Perush Haia'betz LeAvot 3/Mishna'
15),48
ovvero qualcuno che nasce in un posto non sarà mai riconosciuto
dai suoi concittadini come un grande, poiché lo hanno visto
crescere tra di loro e quindi non possono attribuirgli doti
sovrumane. Infatti i profeti nati in Giudea erano mandati
in missione nel regno d'Israele e viceversa. Quindi nel riconoscere
in Mosè un nobile egiziano non si sminuisce per niente la
figura dell'Eroe, anzi è vero esattamente il contrario. Quindi
non ci pare giustificato lo strano scrupolo di Freud che,
analizzando la personalità di Mosè, avrebbe «privato il popolo
dell'uomo che esso celebra come il più grande dei suoi figli».
Mosè è per Israele la manifestazione antropomorfica della
grazia divina, un secondo Iahve a forme umane, e non «uno
dei suoi figli».
Il figlio è lui, Freud, e non Mosè.
E infatti l'associazione ci viene confermata poiché aggiunge:
«tanto più quando si appartiene a quel popolo».
La giusta lettura della frase è la seguente: io, Freud, uno
dei figli del popolo, mi sono privato della figura di Mosè,
dio-figlio e vicario del Padre, allontanandomi dalla tradizione.
Adesso ne sento la nostalgia e attraverso lo strumento della
ricerca scientifica (la verità) mi ricollegherò alla sua figura.
Freud, lo scienziato positivista, non poteva dircelo in maniera
esplicita, ma il suo inconscio lo lascia trapelare nelle due
frasi di apertura. Freud fa qui una proiezione del suo malessere
e lo attribuisce al popolo ebraico. Gli ebrei non temevano
che qualcuno portasse loro via il loro Eroe. Era Freud che
lo aveva perduto ed ora, in vecchiaia, cercava di riprenderne
possesso.
E come aveva esorcizzato il proprio complesso di Edipo decifrandolo,
scoprendone il meccanismo e codificandone la scientificità,
così adesso tenta di riprendere possesso di Mosè, il suo Eroe
personale, figura di Padre eroico e prototipo di tutti i padri
che Freud avrebbe voluto avere,49
con lo stesso «potere» scientifico (la verità), con il quale
aveva preso possesso delle sue tensioni edipali.
Come abbiamo visto sopra, in gioventù Freud aveva contemplato
la possibilità di rompere ogni legame con la tradizione dei
padri. Il suo rapporto verso l'ebraismo era sempre stato ambivalente,
e non riusciva a conciliare tra la propria pretesa alla razionalità
scientifica e «le tante altre cose che rimanevano che rendevano
irresistibile l'attrazione per l'ebraismo e gli Ebrei, molte
oscure potenze del sentimento, tanto più possenti quanto meno
era possibile tradurle in parole».
Quindi non è la sua integrità morale di scienziato che lo
spinge verso l'ebraismo e Mosè, il suo eroe personale, bensì
questa è solo una razionalizzazione per poter giustificare
il suo bisogno di conoscere il proprio popolo e i
suoi eroi.
Freud sentiva il malessere del distacco dalla coesione del
clan e le sue tradizioni, ma non poteva ricollegarsi a queste,
se non attraverso un presupposto interesse scientifico, che
era la giustificazione manifesta di tutto il suo operare.
Come abbiamo sostenuto era lui Freud, il figlio, a temere
di aver perso la figura di Mosè. Attraverso la ricerca scientifica
cercava di riprendere il contatto e di ricollegarsi, non solo
a Mosè, ma a tutto il suo ebraismo.
Ma temeva che i suoi fratelli lo avrebbero estraniato ancora
di più, se avesse usato questi mezzi, considerati dissacratori.
Ovvero, attraverso la scienza e non la fede.
E qui ci diventa completamente chiaro il motivo per cui,
nel suo discorso ai Bnai Brith, aveva dichiarato che si vergognava
di ammettere che ciò che lo legava all'ebraismo era «non la
fede».
Aveva però lasciato la frase in sospeso: «non la fede, e
nemmeno l'orgoglio nazionale», e avrebbe dovuto aggiungere:
bensì... e qui tace. E noi completeremo questa frase: «bensì
il senso di colpa che io cerco di esorcizzare attraverso la
mia scienza».
L'ambivalenza emotiva verso la legittimità dei mezzi da lui
adoperati nel tentativo di riallacciarsi a Mosè e al proprio
ebraismo trova espressione negli scrupoli eccessivi e le esitazioni
che dichiara di aver avuto nel conseguimento del suo lavoro.
Ma anche in un altra cosa.
Per dimostrare che Mosè era egiziano e non ebreo adopera
molte prove circostanziali, che possono convincere ma che
possono anche venire facilmente confutate.
Infatti queste vengono confutate proprio dal suo allievo
più fedele: Theodor Reik.
Reik infatti sostiene, tra l'altro, che il fatto che Mosè
fosse un nome egiziano non è una prova, come non si può arguire
che Freud non sia stato ebreo ma tedesco poiché si chiamava
Sigmund.50
Reik riassume anche tutte le altre argomentazioni a favore
della contro-tesi e arriva alla conclusione che Mosè, malgrado
tutto, probabilmente era ebreo e non egiziano.
Anche lui, come Freud, cita le Antichità Giudaiche
di Giuseppe Flavio (II/10), in cui si racconta che Mosè aveva
raggiunto la gloria in Egitto, comandando un spedizione militare
contro gli Etiopi. Quello che nessuno menziona è il Contro
Appio di Giuseppe Flavio (vedi nota16).
Qui l'autore menziona Manetho, il sacerdote e storico egiziano
della fine del IV sec. A. C.
Manetho compose le liste di tutti i faraoni dalla prima dinastia
in poi e si rivelò estremamente credibile, come confermano
gli scavi archeologici.
Manetho sostiene che Mosè era un famoso sacerdote egiziano
di Eliopolis che fu cacciato dall'Egitto poiché si era unito
ai lebbrosi (Contro Appio, I/31).
L'importanza di questa menzione di Giuseppe Flavio deriva
dal fatto che questi si adopera tenacemente per confutare
le parole di Manetho. Questa è la prova più sostanziale della
tesi che Mosè fosse realmente egiziano, poiché non avrebbe
avuto senso, per lo scrittore ebreo, riportare la tesi di
Manetho solo per confutarla.
Quindi esisteva realmente una tradizione egizia indipendente
che diceva che Mosè fosse egiziano. Freud non riporta questa
prova, che è molto più valida di tutte le altre.
Ma c'è anche molto di più.
Freud sostiene che la circoncisione sia stata data agli ebrei
da Mosè51
e questa, come riporta anche Erodoto, era una peculiarità
egizia, che «I Siri di Palestina» (gli ebrei) riconoscono
di aver ricevuto dagli Egiziani (Storie, II/104).
Però è anche vero, per fare la parte dell'avvocato del diavolo,
che la circoncisione è una «mutilazione» che viene fatta sul
corpo dei giovani iniziati presso molte tribù primitive, nel
contesto dei riti della pubertà. Gli arabi la fanno ancora,
e non si può certo sostenere che questi l'abbiano presa dagli
egiziani. Era possibile che gli ebrei abbiano conservata quest'usanza
nel contesto delle tradizioni tribali, come queste traspaiono
anche da molte altre usanze ebraiche, da quando vagavano come
nomadi ai margini del seminato, dai tempi di Abramo, Isacco
e Giacobbe, i prototipi delle loro tribù di pastori.
Ma su questo punto bisogna evidenziare una cosa importante:
mentre le tribù selvagge dei nostri giorni, e anche gli arabi,
eseguono questo rito nel suo contesto originario, cioè all'età
della pubertà, gli ebrei circoncidono i propri figli a otto
giorni.
Questo è un punto molto importante.
Anche gli Egiziani avevano conservato quest'usanza dai tempi
antichi, prima che il primo faraone unisse tutte le tribù
dell'Egitto predinastico in un unico stato.
Gli egiziani dei tempi di Mosè, e dopo di Erodoto, non erano,
già da duemila anni, più strutturati a tribù. Quindi questo
segno, peculiare della sottomissione alla coesione del clan
e alla fedeltà della Legge del Padre, era stato conservato
come una traccia mnestica di antichi riti d'iniziazione che
non venivano più eseguiti da millenni.
Per gli egiziani questo simbolo di sottomissione alle leggi
della tribù si era trasfigurato a simbolo della sottomissione
alla sovranità dello Stato e del faraone che lo personificava.
Quando Mosè impose agli Ebrei questo rito non poteva avere
altro che lo stesso significato: imporre loro la sovranità
della legge del Padre, ma nella nuova trasfigurazione che
questa aveva assunto anche per gli egiziani.
Così si spiega il fatto che gli ebrei si circoncidano a otto
giorni e non all'età di riti della pubertà, che non eseguivano
più, anch'essi, da lungo tempo. Gli arabi, che non avevano
ricevuto la circoncisione da Mosè, bensì è per loro una tradizione
che ha una continuità ininterrotta dai tempi più antichi,
la eseguono nel suo contesto originale, ovvero alla stessa
età in cui venivano eseguiti i riti iniziatici della pubertà.
Così si spiega come mai la Torà ci racconti che gli ebrei
eseguivano la circoncisione ai tempi di Abramo, Isacco e Giacobbe.
A quei tempi le tribù ebraiche erano nomadi, come continuarono
ad esserlo gli arabi quasi fino ai giorni nostri, e il nomadismo
preserva la struttura tribale del clan. A quei tempi certamente
la circoncisione faceva parte dei riti iniziatici e veniva
eseguita all'età della pubertà, come la Bibbia stessa ci racconta
di Ismaele, che fu circonciso a tredici anni (Gn.,
17/25).
Ai tempi di Mosè, gli ebrei o non praticavano già più la
circoncisione o la praticavano secondo il costume egizio,
cioè al di fuori del contesto dei riti della pubertà che non
venivano già più praticati, avendo smesso di essere tribù
nomadi.
Quindi è vero che la circoncisione che gli ebrei praticano
oggi è quella che fu imposta da Mosè, anche se l'avevano probabilmente
già praticata prima della loro emigrazione in Egitto. Il contesto
però era cambiato: Mosè, l'Egiziano, trasfuse in essa un nuovo
significato. Anche su questo punto Freud non riuscì a essere
chiaro. Le correnti emotive che si agitavano nel suo inconscio
annebbiavano la sua lucidità «scientifica».
Le citazioni del libro della Genesi sulla circoncisione (Gn.,
17/9; 34/22) rendevano chiaro che gli ebrei nomadi dei tempi
antichi l'avevano già conosciuta, esattamente come gli arabi
di oggi. Non aveva senso, da parte di Freud, cercare di confutarlo.
Era altrettanto chiaro però che la circoncisione era anche
legata a Mosè e all'Egitto.
E non solo dalle parole di Erodoto.
Gesù dice: «Mosè vi ha dato la circoncisione» e subito dopo
aggiunge «non che essa venga da Mosè, ma dai patriarchi» (Gv.,
7/21).
Spaventato da quello che gli era appena uscito dalla bocca,
Gesù ritratta subito.
In un lapsus linguae, che più freudiano
di esso non sarebbe potuto essere, Gesù ci rivela esattamente
come erano andate le cose.
Anche questa rivelazione, che il Vangelo ci presenta come
su un piatto d'argento, non fu sfruttata da Freud, che fu
colui che aveva scoperto il significato dei lapsus
linguae.
E non finisce qui.
La religione dagli alti precetti morali che Mosè impose agli
Ebrei, era stata, dunque, secondo Freud, la religione egiziana
del suo signore Ekhnaton.52
E la circoncisione era stata il segno peculiare della religione
degli Egiziani, che Mosè aveva voluto conservare, considerandola
un precetto morale elevato. Ma non era l'unico precetto altamente
morale che Mosè aveva prelevato dalla religione egiziana e
imposto agli ebrei.
Erodoto dice: «Anche in quest'altra consuetudine gli Egiziani
vanno d'accordo con i Greci, con i soli Spartani però: i loro
giovani quando incontrano una persona più anziana cedono il
passo, si scansano; e al loro apprestarsi si alzano da sedere»
(Storie, II/80).
E la Torà: «Alzati davanti a chi ha i capelli bianchi, onora
la persona del vecchio e temi il tuo Dio» (Dt.,
19/32).
Certamente gli ebrei non avevano ricevuto questo precetto
dagli spartani.
E il precetto, forse ancora più importante della circoncisione,
che Mosè conosceva dall'Egitto e che impose agli israeliti,
è la proibizione assoluta della prostituzione sacra.
Chiamiamo nuovamente in aiuto il padre della storia:
Gli Egiziani sono anche i primi che ritennero come pratica
religiosa di non aver contatto nei templi e di non entrarvi,
dopo il contatto, senz'essersi lavati. Quasi tutti, invece,
gli altri uomini, eccetto Egiziani e Greci, si uniscono
alle donne nell'interno dei templi o, levandosi dopo il
contatto, entrano in un santuario senza essersi lavati (Storie,
II/64).
La prostituzione sacra era il rito più importante di tutto
l'Oriente semitico.
Ma la Torà ci dice: «Non vi sarà alcuna donna dedita alla
prostituzione sacra (qaddeshà) tra le figlie d'Israele,
né vi sarà alcun uomo dedito alla prostituzione sacra (qaddesh)
tra i figli d'Israele» (Dt., 23/18).
In tutto il Medio Oriente antico gli unici che non praticavano
la prostituzione sacra erano gli egiziani, e questa proibizione
fu trasferita da Mosè agli israeliti.
Gli ebrei, una volta entrati nella Terra Promessa, abbandonarono
i precetti mosaici e si dedicarono a questo culto, esattamente
come i cananei che li avevano preceduti, e le tracce abbondano
sia nei libri dei Re che nei Profeti. Sarebbe bastato questo
per provare «l'egizianità» dei precetti mosaici.
Ma Freud «non lo sapeva».
Da un lato sembrava convinto dell'egizianità del suo Mosè,
dall'altra preferiva lasciare il tutto nell'atmosfera nebulosa
del «romanzo storico».
Reik, un ebreo della generazione di Freud, e dello stesso
milieu culturale, preferì anch'egli pensare
che il suo maestro si fosse sbagliato, e che Mosè fosse stato
ebreo.
L'ambivalenza emotiva di entrambi impediva loro di vedere
chiaro.
Ma questa ambivalenza emotiva dipendeva non dalla problematica
storica e scientifica dell'argomento, bensì dalla problematica
dell'ambivalenza emotiva della loro autoidentità.
5. La soluzione
E ora, con quello che abbiamo capito dalle parole di Freud,
possiamo tentare di penetrare i veri significati dell'equazione
psicoanalisi = ebraismo.
Freud e i suoi primi seguaci appartenevano alla prima generazione
di ebrei europei che era nata fuori dalle mura del ghetto.
All'interno di queste mura i padri di Freud si attenevano
rigorosamente alla tradizione, ai riti ebraici che sono l'espressione
dell'unità e della coesione del clan. Questi riti fanno del
popolo d'Israele un popolo di figli «prescelti» da un dio
che ha tutte le caratteristiche del padre della tribù. Questo
dio-Padre ha imposto loro la circoncisione come segno della
propria sovranità sull'orda dei figli, e per questi rappresenta
anche la loro appartenenza al clan e la fedeltà a questo.53
Tutti i riti ebraici sono l'espressione della coesione del
clan, sotto l'autorità di un padre intransigente, e questa
coesione diluisce e risolve anche il senso di colpa prodotto
dalle pulsioni aggressive verso la figura del padre, peculiari
del complesso edipico.
Chi sostiene che la nevrosi sia un fenomeno occidentale è
parzialmente nel giusto poiché la creazione di una società,
distaccatasi dalla fedeltà di sangue e dai riti tribali, che
si basa sulla famiglia monogama, anche se non ha creato per
sé il senso di colpa, caratteristico dello schema edipico,
ne ha però resa difficile la soluzione, staccando il singolo
dalla coesione della tribù dei fratelli, e lasciandolo solo
a misurarsi con la fantasia della figura minacciosa del padre.
L'aggressività del figlio non è più condivisa dagli altri
membri della tribù, e di conseguenza il senso di colpa non
è più diluito. La pressione sul singolo diventa insostenibile
e sfocia in nevrosi.
Edipo è il prodotto di una società che aveva abbandonato
i legami del clan e si era istituita a polis.
Come ci ha mostrato Reik, il mito di Edipo, che risolve l'enigma
e uccide la Sfinge, è la condensazione di due miti diversi.54
Il primo è il mito arcaico in cui l'Eroe uccide la Sfinge,
il mostro, simbolo del Padre primigenio che minaccia la tribù
dei fratelli, e ha in premio la città di Tebe e la sua regina.
Questo mito corrisponde a tutti gli altri miti arcaici in
cui un Eroe, vicario di tutta la congregazione, commette il
parricidio liberatorio e viene premiato: tutti fanno il tifo
per lui; Teseo che uccide il Minotauro, Perseo che uccide
la Medusa (qui c'è uno spostamento dal parricidio all'uccisione
di un mostro fallico femminile che rappresenta una regressione
a uno stadio pre-edipale), Ercole e le sue fatiche, Bellerofronte
che uccide la chimera e persino l'Apollo di Ovidio che uccide
il Pitone ecc.
Queste saghe sono tracce mnestiche di quando la società greca
era ancora strutturata in un modus mentale
tribale e l'atto eroico faceva parte del contesto dei suoi
riti iniziatici.
La parte più recente del mito di Edipo, che si condensa con
quella arcaica, è la parte in cui risolve l'enigma, sposa
la madre e uccide il padre.
Questa sovrapposizione appartiene alla sfera culturale del
VI--V sec. a.C.
La società greca aveva superato tutti i riti d'iniziazione
tribali e si era organizzata a polis. Da una fedeltà al clan
era passata a una fedeltà alle istituzioni dello stato.
Niente più riti iniziatici con le loro mutilazioni e imprese
eroiche.
Qui il parricidio non avviene più come atto liberatorio compiuto
in nome della congregazione dei fratelli, bensì come azione
criminosa attuata sotto la pressione delle proprie pulsioni
personali. E infatti nel mito dell'Edipo apollineo incesto
e parricidio sono raccontati in maniera esplicita, senza il
velo di una censura che ne condensi i simboli. L'Edipo che
risolve l'enigma è solo, senza una tribù di fratelli che ne
condivida il peso della colpa attraverso il rito tribale.
Il suo atto parricida da eroico si trasfigura in crimine e
si auto-acceca in una auto-castrazione simbolica.55
La tensione della costellazione edipale che nei riti tribali,
e ancora nella Grecia arcaica, trovava la sua soluzione nei
riti iniziatici e nella solidarietà del clan dei fratelli,
nella Grecia apollinea rimangono senza soluzione e trovano
sfogo e catarsi nella tragedia sofoclea. Tale è infatti il
suo nome: una tragedia.
Quella che sulla scena è una tragedia, nella vita si chiama
nevrosi.
Per dirla in breve, i riti tribali e la coesione del clan
rendono superflua la psicoanalisi, poiché il senso di colpa
viene esorcizzato attraverso i riti e diluito tra i fratelli
che li condividono.
Ed ora vediamo qual è il parallelismo tra una Grecia, che
aveva abbandonato i riti tribali e la solidarietà del clan,
a un ebraismo che, dopo duemilacinquecento anni, si scoprirà
esposto allo stesso problema di una simile tensione irrisolta.
Gli stessi ebrei di cui Tacito dice che «tra di loro sono
sempre molto leali e molto disponibili al mutuo soccorso...
hanno istituito l'usanza della circoncisione, per riconoscersi
tra di loro da questo segno distintivo», per i successivi
millenovecento anni erano rimasti tali. Sradicati con la forza
dalla loro terra ed emarginati dal resto delle società tra
le quali abitavano, avevano conservato, fino all'emancipazione
del XIX secolo, le peculiarità di una tribù compatta, mantenuta
tale dai propri riti.
Quando l'emancipazione, accordata dalla rivoluzione francese
e dai sovrani illuminati del diciannovesimo secolo, aprì le
porta del ghetto e offrì loro l'uguaglianza e i diritti civili,
proponendo loro di diventare cittadini della polis e dello
stato, si creò un problema, simile a quella dell'Edipo Re,
sradicato dalla coesione del clan e dalla solidarietà tribale.
Per molti anni tutti i seguaci di Freud furono quasi solo
ebrei, poiché il turbamento di una situazione da triade edipale
non risolta era, in quel momento, il problema «nuovo» dei
giovani ebrei emancipati. Il motivo va ricercato proprio qui:
nella rottura che si ebbe, con l'emancipazione, tra una giovane
generazione di ebrei e la loro tradizione.
Come per gli antichi greci, questo rilassamento dei legami
di sangue e la ribellione alle coercizioni delle imposizioni
del clan avevano reso insopportabile il senso di colpa, che
aveva trovato la sua espressione nella tragedia sofoclea,
in cui queste tensioni trovavano la loro catarsi, così l'ambiente
di Freud e dei suoi seguaci, tutti ebrei che sentivano di
voler rompere con le tradizioni dei padri e i suoi riti, soffriva
il malessere di quella che, per loro, era una nuova situazione.
La coesione del gruppo, con le sue coercizioni, i suoi riti
e la sua fede indiscutibile, di cui godevano-soffrivano i
padri di Freud dentro le mura del ghetto, era stata anche
il loro scudo. La coesione del gruppo e i suoi riti diluivano
il senso di colpa e li collettivizzavano, come tra le tribù
primitive: per merito loro la rimozione riusciva. Con il crollo
di queste mura, l'emancipazione del secolo scorso, e soprattutto
il desiderio di una nuova generazione di ebrei di rompere
con il proprio passato, restituì il senso di colpa del conflitto
edipale dal gruppo al singolo.
Ed ecco che ci ricolleghiamo al «destino» di cui aveva parlato
Freud nel lontano 1924, parlando di se e degli ebrei (pp.
9-10). Il fatum arcaico dell'Eroe che deve
compiere parricidio e incesto, come Edipo, senza possibilità
alcuna di sottrarsi alla sua missione.
La psicoanalisi nacque, dunque, sotto la spinta di questa
pressione, che era un problema particolare ebraico, e fu per
gli ebrei emancipati della mittle Europa
quello che la tragedia era stata per i greci: il sintomo di
questo malessere e la sua catarsi.
Il senso di colpa, non più risolto dalla coesione del gruppo
e i suoi riti, trovò sé stesso e la propria catarsi
nella propria teorizzazione scientifica.
Freud e i suoi seguaci, rinnegando i riti dei padri, avevano
preso contatto diretto con il malessere che ne emergeva di
conseguenza. Freud trovò quello che aveva dentro di sé, ma
la cosa fu possibile solo perché questo qualcosa aveva cominciato
a disturbare e a turbare, come conseguenza della metamorfosi
che aveva passato la società ebraica con l'emancipazione del
XIX secolo. È il complesso di Edipo riemerso dopo che i riti
tribali, che lo mantenevano nella rimozione, erano stati «superati».
Ora l'associazione freudiana psicoanalisi-ebraismo ci diventa
chiara. Il suo contenuto è il malessere della perduta coesione
del clan, che Freud lascia trapelare in tutte le citazioni
che abbiamo portato sopra.56
E la perdita della coesione del clan aveva fatto riemergere
la tensione di un complesso di Edipo, che con la perdita di
questa coesione era rimasto senza soluzione.
Una volta riemersa questa tensione, Freud l'aveva trovata
e trasformata in istanza scientifica, per poterla esorcizzare.
Il clan. Le «oscure potenze del sentimento, tanto più possenti
quanto meno era possibile tradurle in parole, così come la
chiara consapevolezza dell'interiore identità, la familiarità
che nasce dalla medesima costruzione psichica» (p. 13).
Ed ecco cosa intendeva Freud quando ancora nel lontano 1908
si era rivolto ad Abraham, dicendogli: «lei è più vicino alla
mia costituzione intellettuale per parentela e per razza»
(p. 2), ovvero, «Lei è del mio clan, Jung no! Lei soffre della
stessa tensione non risolta che mi ha portato alle scoperte
che ho fatto».
Ora ci è chiaro anche perché le forze che lo legano al clan
sono «oscure» e «intraducibili in parole», poiché sono legami
emotivi, che sfuggono a una logica razionale, ma proprio per
questo conservano una vitalità indistruttibile.
Il clan, questa è la vera «maggioranza compatta» all'accordo
della quale Freud, in gioventù, si vantava di aver saputo
rinunciare, ma che cercava di sostituire, in vecchiaia, con
«una cerchia di uomini eletti e di elevato sentire», che erano
il clan stesso.
Infatti i gentili intorno a Freud erano senza dubbio la maggioranza,
ma questa mal si associa alla parola «compatta».
Compatti sono gli ebrei di cui parla Tacito che tra di loro
«sono sempre molto leali e molto disponibili al mutuo soccorso...
Siedono a mensa separati... Hanno istituito l'usanza della
circoncisione per riconoscersi tra di loro da questo segno
distintivo», e quelli di cui parla Freud stesso nelle citazioni
dell' Uomo Mosè che abbiamo portato sopra «Chi
accettava questo simbolo, mostrava con ciò di essere pronto
a sottomettersi al volere del padre anche se questo gli imponeva
il sacrificio più doloroso... Si conservarono dopo di allora
tenendosi lontano dagli altri».
La «maggioranza compatta» era quella dei suoi padri, che
erano rimasti uniti dietro le mura dei ghetti, e la tradizione
dei quali Freud aveva rotto. A suo tempo, trent'anni prima
era stato orgoglioso di essersi staccato da queste tradizioni
ma adesso cominciava a emergere il senso di colpa e Freud,
il vecchio, cerca di trovare nei padri-fratelli del Bnai
Brith un sostituto per quelli abbandonati. A loro chiede
scusa, come rappresentanti della tribù dei fratelli, che Freud,
nella sua arroganza giovanile, sentiva di aver abbandonato.
Per questo apre il suo discorso all'Associazione con le parole
esplicite: «Onorevole Gran Presidente, stimati Presidenti,
cari fratelli».
Ovvero: Padre primigenio, miei avi, miei fratelli nel rito.
Come lui stesso dice: «... in questa solitudine si destò
in me l'anelito per una cerchia di uomini eletti e dall'elevato
sentire», e l'anelito è la nostalgia, il richiamo degli antichi
ebrei che avevano ricevuto il marchio della Legge di Mosè
e che i suoi avi e i suoi padri avevano mantenuto. La rinuncia
pulsionale, conseguente alla fede e simboleggiata dalla circoncisione,
«impose al popolo di progredire spiritualmente... e aprì per
giunta la strada all'apprezzamento del lavoro intellettuale
e a nuove rinunce pulsionali», ovvero «l'elevato sentire»
che Freud, ritornato momentaneamente a essere un giovane iniziato,
attribuisce ai suoi padri-fratelli del Bnai Brith.
Questo spiega come mai la psicoanalisi sorse all'inizio come
una scienza ebraica, e anche come mai le resistenze maggiori
siano venute da parte dei non ebrei. La società occidentale
aveva avuto duemila e cinquecento anni per elaborare soluzioni
e maneggiare i propri turbamenti, e vedeva naturalmente di
malocchio queste «nuove scoperte» di un ebreo, che avrebbero
solo potuto gettare un nuovo scompiglio negli equilibri mentali
in cui si erano trincerati.
Le teorie di Freud, svelando l'essenza di una realtà pulsionale
repressa, dionisiaca, minacciava le soluzioni di un occidente
apollineo che le aveva esorcizzate attraverso le formule dell'oracolo
di Apollo e della sua opera civilizzatrice.
La filosofia e la metafisica avevano steso un velo sull'Es,
e Dioniso e le sue pulsioni erano stati rimossi. Jung cercava
disperatamente di stendere nuovamente questo velo per ristabilire
l'equilibrio delle soluzioni turbate.
L'antipatia per la psicoanalisi, o meglio la resistenza
contro la psicoanalisi, non deve quindi la sua fonte al fatto
che Freud fosse ebreo, quanto dal fatto che questa era una
scienza nata sotto lo stimolo di bisogni ebraici, per risolvere
un problema, una tensione, sentito per la prima volta da ebrei,
e quindi era sé stessa una scienza «ebraica», che poteva solo
mettere scompiglio e turbare l'equilibrio mentale occidentale.
Se Freud avesse proposto una nuova scienza in accordo con
i bisogni delle resistenze e le rimozioni della cultura occidentale,
non solo il suo ebraismo sarebbe stato considerato irrilevante,
ma probabilmente sarebbe stato lodato come elemento civilizzatore.
Un filosofo come Karl Popper, ebreo e austriaco esattamente
come Freud, viene oggi lodato in tutte le accademie d'Occidente
proprio perché propone una metafisica sterilizzata da qualsiasi
immanenza pulsionale e che da il suo benestare e la sua legittimazione
alle razionalizzazioni del momento. Nessuno parla dell'ebraismo
di Popper, nessuno è turbato dal fatto che fosse ebreo. Al
contrario, quando Popper sostiene che la metafisica è comunque
un ingrediente necessario per i «programmi di ricerca scientifici»,
avvalora in qualche modo la possibilità che la scienza rimanga
l'ancilla filosofiae, un pericolo che, abbiamo
visto, Abraham scorgeva nelle teorie razionalizzanti di Jung,
e che viene invece generalmente accolto con entusiasmo presso
molti intellettuali occidentali.
Non è un caso, quindi, se le teorie di Jung abbiano trovato
in Occidente una ricezione così entusiasta. Jung è venuto,
come un nuovo Messia, a portare la salvezza dalla teoria delle
pulsioni incestuose, scoperte da un ebraismo per la prima
volta, e che doveva trovare il modo di esorcizzarle.
E Freud, l'ebreo, trovò modo di esorcizzarle scoprendone
e svelandone il meccanismo.
Come gli ebrei da millenni esorcizzano il potere magico delle
Sacre Scritture studiandole e cercando di decodificarne i
contenuti, in un perenne pilpul,57
che sotto la razionalizzazione dell'obbedienza cieca al dio-Padre,
cerca di carpirne il significato e d'impadronirsi della sua
potenza.
Non così l'Occidente cristiano. Questo aveva esorcizzato
le pulsioni incestuose negandole. E per proteggere la rimozione
aveva istituito il dogma: una metafisica piovuta dall'alto,
come protezione da qualsiasi pulsione che venga dal basso.
È più facile, per questi, adoperare le chiavi d'interpretazione
che meglio si conformano alla propria cultura apollinea: metafisica,
mondo platonico delle idee, filosofia. Più facile per l'Occidente
prescindere dal mondo immanente delle pulsioni, come tenta
di prescindere dal suo passato tribale, pre-apollineo represso.
Gli archetipi di Jung stanno alle pulsioni di Freud come
il mito sta al rito. Il rito è l'accadere immanente,
il mito la razionalizzazione dell'evento. Il rito è quello
che siamo, il mito è la rappresentazione di come ci vediamo.
L'Occidente ha sempre cercato di superare il rito per rifugiarsi
nel mito, e questo come evoluzione da un rito tribale superato,
a una ricerca di verità più generali che lo sostituiscano.
Ma rifugiarsi nella metafisica vuol dire anche delegare la
responsabilità delle proprie pulsioni alle sfere superiori
di un mondo che esula dal nostro essere specifico.
Jung è l'ultimo grande neoplatonico occidentale, continuatore
diretto di Kant e di Hegel. Grande nella razionalizzazione.
Come Platone aveva creato un mondo di idee olimpico, iperuranico,
a cui corrisponde il mondo della realtà su questa terra, così
Jung crea il mondo degli archetipi. Così facendo ripete il
modo di risolvere occidentale che, dal periodo ellenista in
poi, «prescinde» dall'accadere immanente, dalle pulsioni conflittuali
onnipresenti che fanno parte del nostro essere e cioè siamo
noi, per spostare la conflittualità in un mondo di idee che
così si fa soffuso, sterilizza le pulsioni dalla loro carica
vitale, e dove possiamo rifiutarci di prendere atto del nostro
essere e rinforzare i bastioni della resistenza.
Come aveva rilevato Abraham, Jung fa della scienza l'ancilla
theosofiae, e, come un nuovo Orfeo stende il pietoso velo
dell'anestesia sulle pulsioni prorompenti dal basso.
E infatti «Jung assicura continuamente i suoi lettori della
innocuità delle pulsioni infantili» (vedi nota3).
Concluderò con le parole di Nietzsche, un filosofo partorito
dall'Occidente suo malgrado. Nietzsche, rifiutando
la metafisica, si eleva al disopra di tutti gli altri filosofi,
che non fanno che legittimare il pensiero del proprio tempo,
e arriva per intuizione, là dove arriverà Freud, come risultato
di un lungo lavoro empirico. Nietzsche diventa così anche
l'unico vero filosofo e l'unico filosofo anti-occidentale:
Ma il pensiero profondo può essere tuttavia molto lontano
dalla verità, come per esempio ogni pensiero metafisico;
se dal sentimento profondo si detraggono gli elementi di
pensiero in esso commisti, resta il sentimento «forte»,
e questo di per sé non garantisce per la conoscenza null'altro
che se stesso, esattamente come la forte fede dimostra solo
la sua forza, non la verità della cosa creduta.58
Copyright © 2002 Iakov
Levi
Iakov Levi. «Un'analisi del dissenso tra Freud
e Jung. La genealogia di un turbamento». Dialegesthai.
Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 4
(2002) [inserito il 16 luglio 2002], disponibile su World
Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [115
KB], ISSN 1128-5478.
Note
-
Karl
Abraham, «Critica al "Saggio di esposizione della teoria
psicoanalitica" di C.G. Jung» (1914), in Opere,
in 2 vol., a cura di Johannes Cremerius, Bollati Boringhieri,
Torino 1997, Vol. II, p. 749.
-
Ibidem,
p. 759.
-
Ibidem,
p. 750.
-
Per
questa e le successive valutazioni sul rapporto storico
tra pensiero metafisico e conoscenza scientifica, vedi:
Luigi Russo, La Rivoluzione dimenticata. Il pensiero
scientifico greco e la scienza moderna, Campi
del sapere, Feltrinelli, Milano 1996.
-
Freud
-- Abraham, Briefe, lettera del
3 Maggio 1908, in K. Abraham, op. cit., vol. I, p. 25.
La stessa lettera è riportata anche da Jones in: Ernest
Jones, The Life and Work of Sigmund Freud, Edited
and Abridged in one Volume by Lionel Trilling and Steven
Marcus, Basic Books, Inc. Publishers, New York 1961,
p. 261.
-
Sigmund
Freud, «Il dissenso con Adler e con Jung» (1914) in
Opere, in 11 vol., a cura di Cesare Luigi
Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. VII,
p. 416. Freud scrive di Jung: «in favore di Jung parlavano
inoltre il suo eccezionale talento, i contributi che
egli aveva già portato all'analisi, la sua posizione
indipendente e l'impressione di sicura energia che emanava
dalla sua persona».
-
Ibidem.
-
E.
Jones, op. cit., p. 409.
-
Friedrich
Nietzsche, Frammenti postumi, 14 [182],
in Friedrich Nietzsche, scelta di frammenti postumi,
a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Mondadori,
Milano 1981, p. 316.
-
Ernest
Jones aveva intuito che la resistenza verso la psicoanalisi
non dipendesse dall'estrazione etnica di Freud. Infatti,
citando la seguente frase di Freud ad Abraham: «You
may be sure that if I were called Oberhuber my new ideas
would, despite all the other factors, have met with
far less resistance», Jones commenta: «It is hard to
know how much truth there is in this judgment. It was
not entirely borne out of my experience in England where
we found quite enough "resistance" although in the first
dozen years there were only two Jews in our Society»
(E. Jones, op. cit., p. 366).
-
Ginevra,
Marzo 1925. Citato da E. Jones, op. cit., p. 455.
-
Freud,
«Resistenze alla Psicoanalisi» (1925), in op. cit. vol.
X, p. 58.
-
Freud,
«Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (Caso
clinico del piccolo Hans)» (1908), in op. cit., vol.
V, p. 504, nota 2.
-
Freud,
«L'Uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi»
(1934-8), in op. cit., vol. XI, pp. 410-3; 425-6; 451-3.
-
E.
Jones, op. cit., p. 502. Freud scrive: «the historical
basis of the Moses story is not solid enough to serve
as a basis for my invaluable piece of insight. So I
remain silent. It is enough that I myself can believe
in the solution of the problem. It has pursued me through
my whole life».
-
Molto
più convincente di quello che lui stesso ammettesse.
Infatti Freud porta molte prove circostanziali sul fatto
che Mosè sia stato egizio. Ma non porta proprio la prova
determinante. Infatti malgrado citi le Antichità
Giudaiche di Giuseppe Flavio (Freud, op. cit.,
p. 356, nota 2), in cui l'autore menziona che Mosè era
stato un generale egiziano che condusse una campagna
militare vittoriosa in Etiopia, non cita G. Flavio in
Contro Appio I/31, in cui l'autore cita
Manetho.
Manetho,
che era uno storico egiziano vissuto ai tempi di Tolomeo
I (301 A. C), dice espressamente che Mosè era stato
un sacerdote egiziano di Heliopolis. L'importanza del
Contro Appio consiste nel fatto che G.F.
cerca di confutare vigorosamente la tesi di Manetho
e di sostenere che Mosè sia stato ebreo. Se nella versione
delle Antichità Giudaiche si può sostenere
che lo storico ebreo-romano si sia inventato il fatto
che Mosè sia stato un generale egiziano per fare un
apologia del condottiero, nel Contro Appio
non si può sostenere che si sia inventato una cosa del
genere, attribuendola a Manetho, solo per poterla confutare.
Infatti la cosa non avrebbe senso. Quindi esisteva una
fonte egizia, alla fine del IV sec. A. C., completamente
indipendente, che affermava che Mosè era stato un sacerdote
Egizio di Heliopolis.
A
questo punto i casi sono due: o Freud non conosceva
il Contro Appio, o ha preferito ignorarlo
per poter continuare a crogiolarsi nel dubbio che forse,
malgrado tutto, si stesse sbagliando.
-
Freud,
op. cit., pp. 408-9. Contestiamo in assoluto la frase:
«Paolo, il continuatore del giudaismo» (p. 409). Sarebbe
come dire: «Spinoza, il continuatore del giudaismo»
o «Marx, il continuatore del giudaesimo». Paolo, come
Spinoza e come Marx, era ebreo, ma questo non significa
niente. Entrambi si misero a capo, per così dire, di
una corrente di pensiero che può essere stata influenzata
dall'appartenenza etnica del loro fondatore, ma questo
non fa della loro filosofia una continuazione del giudaismo.
Perché definire Paolo «il continuatore»? Questo può
essere valido per i cristiani, che hanno interpretato
la loro religione come una continuazione di quella ebraica,
ma non certo per gli ebrei che non hanno accettato la
suddetta interpretazione .
-
Ibidem,
p. 423.
-
Su
come Freud in gioventù, fosse estremamente ostile all'ebraismo,
in quanto religione irrazionale e oscurantista, e alla
vigilia delle sue nozze contemplasse l'idea di lasciare
l'ebraismo, vedi E. Jones, cit, 112. Vedi
anche Jakob Hessing, Der Fluch des Propheten,
Drei Abhandlungen zu Sigmund Freud,
tr. it. La Maledizione del Profeta, La
Giuntina, Firenze 1991, p. 116 e p. 280. L'autore nelle
prime pagine del libro segue le vicende del rifiuto
di Freud, bambino, della figura del padre, che si tradusse
più tardi nel rifiuto della tradizione, non solo del
suo padre biologico, ma anche di quella dei padri in
un contesto più ampio (pp. 13-21).
-
Freud,
«Prefazioni», in op. cit., vol. VII, pp. 8-9.
-
J.
Hessing, op. cit., pp. 280-1. L'autore ci racconta del
senso di colpa di Freud per questa empietà verso il
defunto, che si era manifestata anche ritardando al
funerale e radendosi nello stesso giorno, in contraddizione
assoluta ai precetti della tradizione ebraica.
-
Freud,
«Totem e Tabù» (1912-13), in op. cit., vol. VII, p.
34. Per il tabù dei morti e il timore che i selvaggi
hanno che i morti si vendichino dei vivi, vedi pp. 59-80.
-
Citato
da E. Jones, op. cit., p. 288.
-
Ibidem.
-
Ibidem.
-
Ibidem,
p. 304.
-
Ibidem,
p. 325.
-
Abraham,
op. cit., pp. 745-6.
-
Ibidem.
-
Lettera
di Jung del 3 Marzo 1912. Riportata in: Paul Laurent
Assoun, Freud e Nietzshe, Giovanni Fioriti,
Roma 1998, p. 35.
-
Freud,
«Per la storia del movimento psicoanalitico» (1914),
in op. cit., vol. VII, p. 416.
-
Freud,
«L'Uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi»
(1934-38), in op. cit., vol. XI, pp. 419-20.
-
Freud,
«Resistenze alla psicoanalisi» (1925), in op. cit.,
vol. X, p. 58.
-
«Autobiografia»
(1924), in op. cit., vol. X, p. 77.
-
«Discorso
ai membri della Associazione B'nai B'rith» (1926), in
op. cit., vol. X, p. 342.
-
Per
le fonti indubbiamente ebraiche della psicoanalisi vedi:
Dennis B. Klein, Jewish Origins of the
Psychoanalitic Movement, Praeger Publishers,
Chicago and London 1981 e 1985.
Jones,
l'unico non ebreo a rimanere tra i fedelissimi a Freud
e a far parte del Comitato, si esprime nella maniera
seguente: «The question of whether only a Jew could
have contrived psychoanalysis is obviously much harder
to answer. On the one hand it could be said that after
all only a Jew actually did, but on the other hand it
might be equally said there were countless millions
of Jews who did not» (E. Jones, op. cit., pp. 366-7).
Questa è una ben strana osservazione, se si considera
che anche se un altro ebreo, prima di Freud, avesse
fondato la psicoanalisi, si sarebbe ugualmente creata
una situazione in cui un ebreo avrebbe fatto quello
che milioni di altri no. Dopotutto una cosa non può
essere fatta per la prima volta da due persone diverse.
Il punto non è tanto perchè proprio Freud sia stato
ebreo, ma perchè la maggior parte dei suoi seguaci lo
siano stati.
-
Il
nome stesso, Bnai Brith, significa «figli dell'Alleanza».
Anche la circoncisione viene denominata in ebraico Brith,
e l'intenzione è che la circoncisione fu il segno dell'Alleanza
tra Dio e Abramo: «questa è la mia alleanza (brith)
che dovete osservare, alleanza (brith) tra me
e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso
tra di voi ogni maschio. Vi lascerete circoncidere la
carne del vostro membro e ciò sarà il segno dell'alleanza
(brith) tra me e voi... il maschio non circonciso, di
cui cioè non sarà stata circoncisa la carne del membro,
sia eliminato dal suo popolo: ha violato la
mia alleanza (brith)» (Gn. 17/9-15).
Quindi la circoncisione non è solo il segno del patto
tra Iahvè e il suo popolo, ma anche il segno distintivo
di tutti gli appartenenti a questo popolo. Come aveva
detto Tacito: «Per riconoscersi tra di loro da questo
segno distintivo».
-
Freud,
op. cit., pp. 341-3.
-
Vedi
note19
e.21
-
Freud,
«L'Uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi»,
in op. cit., p. 439.
-
«Discorso
ai membri della Associazione B'nai B'rith» (1926), in
op. cit., Vol. X, p. 342.
-
Per
il Kippur, come festività in cui gli ebrei celebrano
la ricorrenza dell'uccisione del dio-totem montone e
l'espiazione, vedi: Theodor Reik, Ritual,
Farrar -- Strauss & Co., New York 1946. Tr. it.
Il Rito Religioso, Boringhieri, Torino
1949, pp. 289-306.
-
E.
Jones, op. cit., p. 502.
-
Freud,
«L'Uomo Mosè...», op. cit., p. 337.
-
Lettera
di Freud a Jones del 3 Marzo 1936 in The
Complete Corrispondence of Sigmund Freud and Ernest
Jones 1908-1939, Edited by R. Andrew Paskauskas,
The Belknap Press of Harvard University Press Cambridge,
Massachusetts and London, England, 1993, p. 751.
-
In
una lettera a Jones del 28 Aprile 1938, Freud definisce
is suo Mosè: «A ghost not laid» (Ibidem, p. 762).
-
Per
la natura di Jahve e di Mosè come dio-Padre e dio-figlio,
vedi T. Reik, op. cit., pp. 307-359.
-
Lo
stesso concetto è espresso nel Vangelo: «Ma Gesù disse
loro: "Un profeta non è disprezzato se non nella sua
patria e in casa sua"» (Mt., 13/57).
-
Freud,
in gioventù, contrapponeva la figura sbiadita del proprio
padre naturale a quella dell'eroe semita Annibale, come
lui stesso ci racconta in L'interpretazione dei
sogni (1899), in op. cit., vol. III, p. 186.
Ci
pare giustificato dedurre che vi sia stata anche un'associazione
tra l'eroe cartaginese Annibale e l'eroe ebreo Mosè.
Il primo poiché era il paladino dell'onore nazionale
dei cartaginesi semiti contro i romani, che Freud identificava
con i gentili antisemiti tra cui viveva, e il secondo
poiché aveva fatto degli israeliti un popolo con un'identità
nazionale. (Vedi J. Hessing, op. cit., pp. 14-15 e p.
290, in cui appare il medesimo legame associativo tra
Annibale e Mosè).
-
T.
Reik, Mystery on the Mountain,
Harper & Brothers, New York 1959, pp. 11-18.
-
Freud,
«L'Uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi»,
in op. cit., vol. XI, p. 354.
-
Ibidem,
p. 347.
-
Ibidem,
p. 439.
-
T.
Reik, «Oedipus and the Sphinx», in Dogma
and Compulsion, International Universities Press,
New York 1951, pp. 320-1.
-
Per
l'occhio, come simbolo del genitale, vedi K. Abraham,
«Limitazioni e trasformazioni del piacere di guardare
negli psiconevrotici; osservazioni di fenomeni analoghi
nella psicologia dei popoli» (1913), in op. cit., vol.
II, pp. 577-80.
-
È
molto illuminante rilevare che nel 1913, quando Freud
fondò il Comitato dei fedelissimi (sei, compreso Freud,
di cui solo Jones non era ebreo), presentò a ognuno
un anello particolare come segno di distinzione e fedeltà
(E. Jones, op. cit., p. 328). La classica orda dei fratelli
di cui l'anello era il simbolo della fedeltà e coesione.
-
Sistema
di studio nel quale un allievo ribatte continuamente
le argomentazioni del maestro e degli altri allievi.
Un tipo di discussione volutamente polemico per poter
scoprire tutti i punti deboli di ogni argomentazione.
-
Umano
Troppo Umano I, Adelphi, Milano 1979, p. 25.
|