Il mito dell'integrazione Guglielmo Colombi

Il termine integrazione è diventato il valore principali dei sostenitori della globalizzazione. Nel migliore dei casi è l'incorporazione di una certa entità etnica in una società, con l'esclusione di qualsiasi discriminazione razziale. E' come l'inserimento dell'individuo all'interno di una collettività, attraverso il processo di socializzazione. Implica la relazione e il reciproco influenzamento fra le parti che puntano all'integrazione.
Nei casi meno nobili, integrazione significa assimilazione e tolleranza. Tolleriamo gli estranei, a patto che si adeguino ai nostri costumi.

Malgrado l'Occidente sbandieri la sua devozione all'integrazione fra diversità, la nostra sembra la cultura meno propensa a realizzarla. L'ultimo vero esempio di integrazione reale risale all'impero romano, quando chiunque stava nell'orbita geopolitica di Roma poteva definirsi "cittadino romano". Sono tanti gli imperatori di origine diversa da qualla romana o italica. La Chiesa cattolica, la prima entità globalizzatrice delle storia, ha dato prova di una forte integrazione geopolitica (non si ontano papi, cardinali, santi di ogni provenienza geografica), anche se sulle spalle della dis-integrazione teologica e ideologica.

Dall'impero romano e a parte la Chiesa, l'Occidente è stata la cultura meno integrativa del pianeta. L'Oriente ha fatto di meglio, ma solo un poco. Cina e Russia, in quanto grandi imperi, hanno imitato l'integrazione imperiale romana, anche se ancora persistono problemi come il Tibet e la Cecenia. La mezzaluna verde ha integrato diverse etnìe sotto l'ombrello religioso, più o meno come la Chiesa cattolica. In Myanmar, la minoranza Rohingya è perseguitata.
In Africa, gli scontri etnici sono permanenti. Il Sudafrica bianco muove oggi i primi passi fuori dall'apartheid.
In Occidente, l'integrazione è quasi ovunque stata fallimentare. In Australia l'integrazione è stata sostituita con l'olocausto. In Sudamerica, le minoranse etniche sono vicine all'estinzione programmata. Negli Usa, dopo lo sterminio dei nativi, è stata raggiunta l'integrazione fra bianchi di diverse provenienze, ma ancora oggi sembra molto critico il processo di integrazione con la popolazione di colore o sud-americana. Gli esempi meno felici sono quelli europei.

A parte l'aberrazione anti-ebraica del nazi-fascismo, sono sempre aperti i conflitti anti-integrazione fra Israele e Palestina, o fra i gruppi etnici della ex-Jugoslavia. La integrazione dei Rom e dei Sinti è un problema irrisolto da secoli. L'Europa è il continenete dove pullulano i movimenti autonomisti. Fiamminghi e Valloni sono come cane e gatto. In Spagna i baschi e i catalani sono in perenne rivolta. Irliandesi e scozzesi non sembrano molto integrati con gli inglesi.
Sembrava che Francia e Belgio avessero trovato la formula giusta dell'integrazione fra bianchi cristiani e africani musulmani. Il fatto che milioni di italiani abbiano scelto l'emigrazione per quasi un secolo (1870-1970) e l'abbiano ripresa oggi (nel 2017 sono 285mila gli italiani scappati), non è certo un segno di integrazione.
I paesi nord-europei sono quelli che hanno fatto più sforzi per l'integrazione, ma oggi stanno cominciando a chiudere le frontiere.

In Svezia, più del 15 per cento della popolazione è di origine straniera e quasi due milioni di persone vivono nei quartieri periferici delle grandi città. Il simbolo di tutto questo è Rinkeby, 16 mila abitanti, un caleidoscopio di 60 etnie dove si parlano 40 lingue e dove solo una persona su venti è di origini svedesi. Ci abitano somali (da qui il soprannome “Mogadiscio”) ma anche iracheni, siriani, etiopi, turchi, bosniaci, romeni, bangladeshi, latinoamericani. Ci ricorda i ghetti per gli ebrei e l'apartheid sudafricana.

Le Figaro ha riportato che Les Izards, un quartiere di Tolosa, è una "no-go zone", dove le bande arabe di trafficanti di droga controllano le strade in un clima di paura. Oltralpe vengono chiamate “Zus” (Zone urbane sensibili), sono 751 in tutto il Paese ed ospitano almeno 5milione di musulmani. Una di queste è Sevran, banlieue di 50mila anime, dove il 90 per cento degli abitanti sono di origine straniera.

In Gran Bretagna, esiste‘Londonistan’. Una denominazione che va ben oltre la capitale per comprendere quartieri in quasi tutte le città del Regno Unito. Quartieri dove spesso si trovano dei cartelli avvertono che "stai entrando in una zona controllata dalla sharia".

Il Belgio ha una lunga lista di zone a rischio. A Bruxelles, dove il 20% della popolazione è di religione musulmana, esiste un intero quartiere – Molenbeek – ‘sottoposto alla Sharia’. Qui nessuno, anche se non islamico, può bere o mangiare in pubblico durante il mese di digiuno il Ramadan, le donne sono "invitate" a indossare il velo e a non portare i tacchi. Bere alcool e ascoltare musica sono attività non gradite.

L’Olanda, ha una lista di 40 zone di aree urbane off-limits. Il problema numero uno, è il distretto di Kolenkit, ad Amsterdam.

E' vero che l'Europa, come l'Italia, pullula di zone urbane interdette, non solo per l'islamislazione. Ma anche per la delinquenza autoctona. Nel primo caso si tratta di mancata integrazione fra culture o etnìe, nel secondo di mancata integrazione fra ceti autoctoni.

In entrambi i casi abbiamo la conferma che l'integrazione, in Occidente, è un mito mai realizzato. A riprova di questo fallimento c'è il caso di molti terroristi non immigrati ma autoctoni (nati in Europa). E tantissimi sono i combattenti europei arruolatisi nel Califfato. Non che l'integrazione non debba essere cercata, ma con la consapevolezza che è un'operazione difficile e dai tempi lunghissimi.