IVAN ILLICH 1 - 2 - 3
Per una storia dei bisogni / pag. 3

“Povertà” autodeterminata

Considerazioni educative ci permettono di formulare una seconda caratteristica fondamentale che ogni società postindustriale dovrebbe avere: un corredo di attrezzatura di base che per sua stessa natura controbilanci il dominio tecnocratico. Per ragioni educative, dobbiamo mirare verso una società dove il sapere scientifico sia incorporato in strumenti e componenti che possano essere adoperati, per scopi dotati di senso, in unità abbastanza piccole perché siano alla portata di tutti. Soltanto simili strumenti possono socializzare l'accesso alle abilità. Soltanto simili strumenti consentono associazioni temporanee tra coloro che vogliono adoperarli per occasioni specifiche. Soltanto simili strumenti lasciano emergere progetti specifici nell'atto del loro uso, come sa ogni bricoleur. Solo combinando entrambe le condizioni di cui finora ho parlato, l'accesso garantito ai fatti e una limitata potenza della maggior parte degli strumenti, si può concepire un'economia di sussistenza capace di incorporare in sé i frutti della scienza moderna.

Nei paesi poveri, lo sviluppo di una cosiffatta economia scientifica di sussistenza andrebbe senza alcun dubbio a vantaggio della stragrande maggioranza della gente. E anche per i paesi ricchi essa è l'unica alternativa al progressivo aggravarsi dell'inquinamento, dello sfruttamento, dell'opacità. Ma come abbiamo già visto, non si può detronizzare il Prodotto Nazionale Lordo senza sovvertire al tempo stesso l'Educazione Nazionale Lorda, solitamente concepita come capitalizzazione di forza lavoro. Non può esistere un'economia egualitaria in una società dove sono le scuole a conferire il diritto di produrre.

La realizzabilità di un'economia di sussistenza moderna non dipende da nuove invenzioni scientifiche. Dipende soprattutto dal fatto che una società sia capace di concordare limitazioni fondamentali, autodeterminate, antiburocratiche e antitecnocratiche.

Queste autolimitazioni sociali possono assumere varie forme, ma non possono funzionare se non attengono alle dimensioni fondamentali della vita. (La decisione del Congresso degli Stati Uniti di non realizzare l'aereo da trasporto supersonico è uno dei passi più incoraggianti nella direzione giusta.) La loro sostanza dovrebbe essere costituita da cose molto semplici, pienamente comprensibili e valutabili da ogni persona di buon senso (ne sono un buon esempio le questioni in gioco nella controversia del supersonico). Tutte le limitazioni di questo tipo dovrebbero favorire uno stabile ed eguale godimento del sapere scientifico. I francesi dicono che ci vogliono mille anni perché un contadino impari ad accudire una mucca; ma basterebbe meno di due generazioni per aiutare tutti gli abitanti dell'America Latina o dell'Africa a usare e riparare fuori-bordo, autoveicoli semplici, pompe, cassette di medicinali e betoniere, solo che non se ne cambiasse il modello ogni pochi anni. E poiché una vita ricca di godimento è una vita di rapporti costantemente significativi con gli altri in un ambiente significativo, l'eguaglianza di godimento non può che tradursi in eguaglianza di educazione.

Per il momento, un consenso generale sull'austerità è difficile da immaginare. La ragione che di solito si dà per spiegare l'impotenza della maggioranza è formulata in termini di classi politiche o economiche; ciò che di solito non si comprende è che la nuova struttura di classe di una società scolarizzata è ancora più potentemente dominata da taluni interessi costituiti. Certo, un'organizzazione imperialistica e capitalistica della società genera una struttura sociale entro la quale una minoranza è in grado di esercitare un'influenza sproporzionata sull'opinione della maggioranza. Ma in una società tecnocratica il potere d'una minoranza di capitalisti del sapere può impedire che si formi un'autentica opinione pubblica controllando le capacità scientifiche e i mezzi di comunicazione. Le garanzie costituzionali delle libertà di parola, di stampa e di riunione intendevano assicurare il governo del popolo. L'elettronica, i moderni procedimenti di fotocomposizione e di stampa in offset, i calcolatori che operano in tempo reale, i telefoni offrono in teoria un'attrezzatura che potrebbe dare a quelle libertà un senso del tutto nuovo. Ma purtroppo questi strumenti vengono impiegati nei media moderni per accrescere il potere, proprio dei banchieri del sapere, di convogliare i loro programmi preconfezionati, tramite catene internazionali, verso un maggior numero di persone, anziché essere usati per incrementare delle vere reti capaci di offrire eguali occasioni d'incontro fra i membri della maggioranza.

La descolarizzazione della cultura e della struttura sociale richiede che la tecnologia venga usata in modo da consentire una politica partecipativa. Solo sulla base di un accordo della maggioranza si possono fissare limiti alla segretezza e alla crescente potenza, senza ricorrere a una dittatura. Abbiamo bisogno di un ambiente nuovo in cui si possa crescere senza essere divisi in classi: altrimenti avremo uno splendido mondo nuovo in cui saremo tutti educati dal Grande Fratello.


Bisogni di Tantalo

Questo saggio riproduce il testo di una conferenza che tenni all'inizio del 1947 all'Università di Edimburgo sotto gli auspici della Enciclopedia Britannica. Scopo della conferenza era di esaminare, attraverso lo specchio della medicina, quali possibilità di scelta rimangono a una collettività paralizzata nella morsa dei propri strumenti. Descrivendo l'evidente potere patogeno del sistema medico, attiravo l'attenzione sugli effetti paradossalmente controproducenti di una cultura, quale la nostra, tutta imperniata sulle merci. Ho poi sviluppato il tema in tre versioni successive di un libro, Nemesi medica: l'espropriazione della salute (Londra 1974; Parigi 1975; New York 1976 e trad. ital. Mondadori 1977). Riporto qui la conferenza di Edimburgo nella speranza che serva a ricordare ai lettori di Nemesi medica che, occupandosi di medicina, l'autore intendeva illustrare con un esempio l'inversione politica e istituzionale dell'odierna società industriale in genere.

Nell'ultimo decennio l'istituzione medica è divenuta una grave minaccia per la salute. Le depressioni, le infezioni, le menomazioni e le disfunzioni originate dai suoi interventi causano ormai più sofferenze che non tutti gli incidenti del traffico e gli infortuni sul lavoro. Soltanto i danni organici provocati dagli alimenti di produzione industriale possono competere con la patologia indotta dai medici. Oltre a ciò, la professione medica fomenta la malattia puntellando una società malsana che non solo conserva industrialmente i suoi minorati ma allèva clienti per il terapista con metodo cibernetico. Infine, le cosiddette professioni sanitarie hanno un potere patogeno indiretto, un effetto che nega strutturalmente la salute. Trasformano la sofferenza, la malattia e la morte da impegno personale in problema tecnico, espropriando così la gente d'ogni capacità di misurarsi autonomamente con la propria condizione umana.

L'effetto negativo del progresso

Quest'ultimo effetto negativo del progresso sanitario trascende qualunque iatrogenesi tecnica; supera la somma dell'imperizia protetta, della negligenza amministrativa e dell'insensibilità professionale, contro le quali diventa sempre più difficile ottenere una riparazione giudiziaria; ha radici più profonde della squilibrata distribuzione delle risorse alla quale si cerca di ovviare con rimedi politici; è più globale di tutte le malattie derivate dagli esperimenti e dagli sbagli dei medici. L'espropriazione professionale della cura della salute è il punto d'arrivo di uno sforzo tecnico incontrollato; dà luogo a una gestione eteronoma della vita ad alti livelli di cattiva salute ed è sentita come un orrore di tipo nuovo che io chiamo nemesi medica.

Durante l'ultimo ventennio, negli Stati Uniti l'indice generale dei prezzi è salito di circa il 74 per cento; il costo delle cure mediche è invece cresciuto del 330 per cento. Mentre la spesa pubblica per l'assistenza sanitaria si è duplicata, gli esborsi personali per i servizi medici sono aumentati di tre volte e di diciotto il costo delle assicurazioni private. Dal 1950 il costo degli ospedali pubblici è salito del 500 per cento; nei maggiori di essi le rette per i ricoveri sono cresciute ancora più in fretta, triplicandosi in Otto anni. Le spese d'amministrazione si sono moltiplicate per sette, i costi di laboratorio per cinque. Un letto d'ospedale costa oggi 65.000 dollari, due terzi dei quali assorbiti da attrezzature meccaniche che nel giro di dieci anni o anche meno saranno fuori uso o superflue. Eppure, in questo stesso periodo d'inflazione senza precedenti, la speranza di vita dei maschi adulti americani si è ridotta.

In Inghilterra, il Servizio sanitario nazionale ha avuto un analogo tasso d'inflazione dei costi, pur avendo evitato alcuni dei più clamorosi errori di spesa che suscitano critiche in America. La speranza di vita degli inglesi non è ancora diminuita, ma si registra un aumento delle malattie croniche tra gli uomini di mezza età, come già era avvenuto un decennio prima negli Stati Uniti. Nell'Unione Sovietica, durante lo stesso periodo il numero dei medici e dei giorni di ospedalizzazione pro capite si è triplicato. In Cina, dopo un breve idillio con la sprofessionalizzazione moderna, il sistema medico-tecnologico è recentemente cresciuto ancora più in fretta. Il ritmo col quale la gente arriva a dipendere dai medici sembra non avere alcun rapporto con le diverse forme di governo. Questi andamenti non indicano utilità marginali decrescenti: sono un esempio di economia della dipendenza, nella quale le disutilità marginali aumentano al crescere degli investimenti. Ma, di per sé, la dipendenza non è ancora nemesi.

Negli Stati Uniti i prodotti che agiscono sul sistema nervoso centrale sono il settore più dinamico del mercato farmaceutico, e costituiscono il 31 per cento del fatturato totale. Negli ultimi vent'anni il consumo pro capite degli alcolici è salito del 23 per cento, quello degli oppiacei illegali del 50 per cento circa, quello dei tranquillanti prescritti del 290 per cento. Secondo alcuni questo fenomeno è dovuto ai particolare modo in cui i medici americani si tengono aggiornati durante tutta la loro attività:nel 1970 le case farmaceutiche degli Stati Uniti hanno speso in pubblicità 4500 dollari a medico per toccare i 350.000 dottori che esercitano la professione. Sorprendentemente, il consumo pro capite dei tranquillanti è in relazione con il reddito personale in ogni parte del mondo, anche se in molti paesi il costo della “informazione scientifica” del medico non è compreso nel prezzo del farmaco. Ma per quanto grave possa essere la crescente dipendenza dai medici e dai farmaci, essa è soltanto un sintomo della nemesi.

La medicina non può far molto per i mali che si accompagnano alla senescenza. Non può guarire le malattie cardiovascolari, la maggior parte dei tumori, l'artrite, la sclerosi multipla o la cirrosi avanzata. Qualcuno dei malanni di cui soffrono gli anziani può essere talvolta alleviato. Di massima, le cure dei vecchi che comportano un intervento professionale non soltanto aggravano le loro sofferenze ma, se l'intervento riesce, le protraggono. Sorprende quindi la quantità delle risorse che si spendono per curare la vecchiaia. Solo il 10 per cento della popolazione degli Stati Uniti è di età superiore a sessantacinque anni, ma a questa minoranza va il 28 per cento della spesa per l'assistenza sanitaria. Rispetto al resto della popolazione i vecchi stanno aumentando a un tasso del 3 per cento, mentre il costo pro capite della loro assistenza cresce nella misura del 6 per cento. La gerontologia si sta appropriando del Prodotto Nazionale Lordo. Questa squilibrata allocazione di energie umane, mezzi e attenzione sociale non potrà che generare sofferenze indicibili man mano che aumenteranno le richieste e si esauriranno le risorse.

Tuttavia si tratta solo di un sintomo, e la nemesi trascende anche lo spreco rituale.

Da quando Nixon e Breznev firmarono l'accordo di cooperazione scientifica per l'assoggettamento dello spazio, del cancro e del mal di cuore, le unità di trattamento intensivo delle malattie coronariche sono diventate simboli di progresso pacifico e motivi per aumentare le tasse. Esse richiedono tre volte più attrezzature e cinque volte più personale di quanto occorra per il trattamento normale; negli Stati Uniti il 12 per cento delle infermiere diplomate è addetto a queste unità coronariche. Sono inoltre l'esempio di cosa vuoi dire appropriazione indebita gestita a livello professionale: le indagini statistiche su vasta scala che mettono a confronto i risultati del trattamento di malati in queste unità con quelli della cura domiciliare di casi analoghi non hanno sinora dimostrato che la nuova tecnica abbia portato alcun vantaggio. Si potrebbe dire che il valore terapeutico delle stazioni di controllo cardiaco sia uguale a quello dei voli spaziali: presentati alla televisione, sia questi che quelle fungono come una sorta di danza della pioggia per milioni di persone che imparano in tal modo a fare affidamento sulla scienza e a non prendersi più cura di se stesse.

Mi è capitato di trovarmi sia a Rio de Janeiro sia a Lima mentre vi passava in tournée (il dottor Christiaan Barnard. Sia in Brasile sia in Perù egli riuscì a riempire per due volte nello stesso giorno il massimo stadio calcistico di folle che acclamavano istericamente la sua macabra capacità di scambiare cuori umani. Poco tempo dopo, appresi da testimonianze ben documentate che la polizia brasiliana è stata la prima al mondo a usare nelle camere di tortura apparecchi per prolungare la vita. Quando il compito di assistere o di guarire passa alle organizzazioni o alle macchine, è inevitabile che la terapia diventi un( rituale incentrato sulla morte. Ma la nemesi trascende anche il sacrificio umano.

Rimedi contraddittori

La prevenzione della malattia mediante l'intervento di terzi professionisti è diventata una moda. La sua domanda cresce. Donne incinte, bambini sani, operai, vecchi, tutti si sottopongono a periodici check-up e a esami diagnostici sempre più complessi. Per questa via, ci si rafforza nella convinzione di essere macchine la cui durata dipende da un piano sociale. Le risultanze d'un paio di dozzine di studi attestano che questi esami non hanno alcuna influenza sull'andamento della mortalità e della morbilità. In realtà essi trasformano persone sane in pazienti angosciati, e i rischi per la salute che si accompagnano a queste campagne di diagnosi automatizzata sopravanzano i benefici teorici. Per ironia della sorte, i disturbi asintomatici gravi che si possono scoprire soltanto con questo tipo d'indagine sono spesso malattie inguaribili, nelle quali una cura precoce aggrava la condizione patologica del paziente. Ma la nemesi trascende anche la tortura terminale.

Fino a un certo punto, la medicina moderna si è occupata di ingegneria terapeutica: ha cioè elaborato strategie d'intervento chirurgico, chimico o comportamentistico nella vita delle persone che sono o potrebbero diventare malate. Ma da quando s'è visto che questo genere d'interventi non guadagna efficacia per il fatto di costare sempre di più, e' venuto in primo piano un nuovo tipo di ingegneria della salute. I sistemi sanitari tendono oggi alla medicina preventiva, oltre che curativa. Si propongono servizi orientati verso una gestione ambientale della salute. L'ossessione dell'immunità cede il passo all'incubo dell'igiene. Man mano che il sistema di assistenza sanitaria perde colpi non riuscendo a soddisfare le richieste che gli vengono rivolte, certi stati che oggi sono classificati come malattie rischiano di essere presto definiti devianza criminale. All'intervento medico imposto potrebbero far seguito l'autocritica e la rieducazione obbligatorie. La convergenza dell'ingegneria igienica individuale e di quella ambientale fa pendere oggi sull'umanità la minaccia di un'epidemia di nuovo tipo, in cui diventano parte integrante del flagello gli stessi rimedi, che si ritorcono sistematicamente contro il loro scopo. Questa sinergia patogena delle funzioni tecniche e delle funzioni non tecniche della medicina è ciò che io chiamo nemesi igienica o medica, una nemesi che riduce l'uomo nella condizione di Tantalo.

Nemesi industriale

Da sempre, una gran parte della sofferenza è opera dell’uomo: la storia non fa che registrare asservimento e sfruttamento. I suoi documenti ci parlano di guerre, e delle devastazioni, delle carestie e delle pestilenze venute al loro seguito. La guerra tra popoli e classi è stata sinora il principale strumento con cui l'uomo ha programmato e prodotto miseria. L'uomo è dunque l'unico animale la cui evoluzione sia stata condizionata da una duplice necessità di adattamento: se non soccombeva agli elementi naturali, doveva fare i conti con lo sfruttamento e la prepotenza dei propri simili. Per poter condurre questa lotta su due fronti, l'uomo ha sostituito agli istinti il carattere( e la cultura. Di un terzo fronte esposto a catastrofi si è avuta coscienza sin dai tempi di Omero, ma i comuni( mortali erano ritenuti esenti da questo pericolo. Nemesi, come i greci chiamavano la minaccia incombente da questa terza direzione, era il destino che attendeva i pochi eroi che incorrevano nella gelosia degli dei. L'uomo cresceva e moriva lottando con la natura e con il prossimo; soltanto l'élite sfidava i limiti che la natura aveva posto all'uomo.

Prometeo non era “Ognuno”, ma un deviante. Mosso da pleonexia, da cupidigia estrema, egli oltrepassò le barriere della condizione umana. Nella sua hubris, o presunzione smisurata, sottrasse il fuoco al cielo e attirò quindi Nemesi su di sé. Fu incatenato a una rupe del monte Caucaso, dove un'aquila gli divorava il fegato e gli dei, guaritori spietati, lo tenevano in vita tornando ogni notte a trapiantarglielo. L'incontro con Nemesi fece di questo eroe classico un simbolo imperituro dell'ineluttabile vendetta cosmica. Fu preso ad argomento di tragedie epiche, ma non certo a modello per le aspirazioni quotidiane. Oggi Nemesi è invece endemica; è il contraccolpo del progresso. Si è paradossalmente diffusa dappertutto di pari passo col diritto di voto, con la scolarizzazione, con l'accelerazione meccanica, con l'assistenza medica. “Ognuno”è incorso nella gelosia degli dei. Per sopravvivere, la specie deve imparare a battersi su questa terza frontiera.

La massima parte della sofferenza provocata dall'uomo è oggi il prodotto secondario di iniziative che in origine miravano a proteggere il comune mortale nella sua lotta contro l'inclemenza dell'ambiente e le crudeli ingiustizie inflitte dalle élites. La fonte principale del dolore, della menomazione e della morte è oggi un tormento procurato, anche se non intenzionale. I disturbi più diffusi, l'impotenza e l'ingiustizia sono effetti collaterali di strategie finalizzate al progresso. Nemesi è ormai così universalmente presente che la si crede parte integrante della condizione umana. Un'idea comune a tutte le etiche precedenti era che il campo aperto all'azione umana fosse rigorosamente circoscritto; la techné era un misurato tributo alla necessità, non la strada per realizzare qualsivoglia impresa decisa dall'uomo. La disperata incapacità dell'uomo contemporaneo di immaginare un'alternativa all'aggressione industriale ai danni della condizione umana fa parte della maledizione di cui egli è vittima.

Quando si tenta di ridurre la nemesi a un semplice processo politico o biologico si rende vana qualsiasi diagnosi dell'attuale crisi istituzionale. Ogni analisi dei cosiddetti limiti dello sviluppo diventa futile se riduce la nemesi a una minaccia affrontabile sui due fronti tradizionali. La nemesi non perde il suo carattere specifico solo perché ha assunto un volto industriale. Non si può capire la crisi della società industriale se non si distingue tra l'aggressione a scopo di sfruttamento operata da una classe a danno di un'altra, e la rovina ineluttabile che è intrinseca a ogni tentativo smisurato di trasformare la condizione umana. E impossibile comprendere la situazione nella quale ci troviamo se non si distingue tra la violenza prodotta dall'uomo e la distruttiva gelosia del cosmo: tra la soggezione dell'uomo all'uomo e l'asservimento dell'uomo ai suoi dei, che sono, inutile dirlo, i suoi mezzi di produzione. La nemesi non è riducibile a un problema di competenza degli ingegneri o degli organizzatori politici.

La scolarizzazione, i trasporti, il sistema giuridico, la agricoltura moderna, la medicina sono altrettanti esempi di come agisce la frustrazione procurata. Una volta superato un certo limite, la degradazione del sapere a mero risultato di un insegnamento predeterminato innesca inevitabilmente, a tutto danno della maggioranza povera, un nuovo tipo d'impotenza a un nuovo tipo di struttura di classe discriminante. Tutte le forme di istruzione obbligatoria programmata recano impliciti questi effetti collaterali, qualunque sia la somma di denaro, di buona volontà, di impegno politico e di idealismo pedagogico che si profonde nell'operazione: tanto che si riempia il mondo di aule, quanto che lo si trasformi in un'unica aula.

Quando l'energia impiegata per l'accelerazione di una qualsiasi persona circolante sale al di sopra di un certo livello, l'industria del trasporto immobilizza e asservisce la maggioranza dei passeggeri anonimi offrendo soltanto discutibili vantaggi marginali a una élite olimpica. Nessuna nuova specie di combustibile, di tecnologia o di controllo pubblico può impedire a una società sempre più mobilizzata di produrre sempre maggiori dosi di disturbo, di paralisi e di iniquità.

Quando l'investimento di capitali nell'agricoltura e nell’industria alimentare sale al di sopra di un certo livello, non può che aversi malnutrizione dappertutto; l'illusione dei “piani verdi” rode il fegato del consumatore più efficacemente dell'aquila di Zeus; e non c e ingegneria biologica che possa impedirlo.

Quando la produzione e l'erogazione di assistenza medica vanno al di sopra di un certo limite, generano più mali di quanti ne riescono a guarire. La previdenza sociale garantisce una sopravvivenza dolorosa più democraticamente e più efficacemente degli dei più spietati.

Il progresso ha comportato il pagamento d'uno scotto che non si può chiamare prezzo. L'esborso iniziale era indicato sul cartellino e si può esprimere in termini misurabili. Il resto da versare a rate con gli interessi composti matura sotto varie forme di sofferenza che trascendono il concetto di “prezzo”. Ha cacciato società intere in una prigione per debitori, dove la crescente tortura cui è soggetta la maggioranza sopraffà e annulla ogni eventuale beneficio che possa ancora andare a un'esigua minoranza.

Il contadino che prima si tesseva i propri panni, si costruiva la casa, si fabbricava i propri strumenti di lavoro e che oggi passa a comprare abiti bell'e fatti, solai precompressi e trattori, non riesce più a sentirsi soddisfatto finché non dà il proprio contributo alla nemesi mondiale. Il suo vicino che cerca ancora di tirare avanti con i tessuti,le abitazioni e i modi di produzione tradizionali non riesce più a vivere in un mondo dove ormai imperversa la nemesi industriale. E questo duplice legame il punto su cui vorrei far luce. La cupidigia esasperata e la cieca baldanza non più limitate agli eroi; nella società industrializzata fanno parte dei doveri sociali di “Ognuno”. Nell'accedere all'economia di mercato contemporanea, di solito per la via della scuola, il cittadino si unisce al coro che evoca la nemesi; ma si unisce anche a un'orda di furie scatenata contro coloro che restano fuori del sistema. I cosiddetti partecipanti marginali, che non entrano del tutto nell'economia di mercato, si trovano privati dei mezzi tradizionali per far fronte alla natura e al prossimo.

A un certo punto della crescita delle nostre grandi istituzioni, i rispettivi clienti cominciano a pagare un prezzo di giorno in giorno più alto per continuare a consumare, malgrado sia chiaro che ne ricaveranno inevitabilmente maggiori sofferenze. A questo punto dello sviluppo il comportamento nella società corrisponde a quello che si rileva di solito nei drogati. Il calo dei benefici è niente in confronto all'aumento delle disutilità marginali. L'Homo oeconomicus si tramuta in Homo religiosus. Le sue aspettative diventano sovrumane. Lo scotto dello sviluppo economico non soltanto eccede il prezzo al quale fu acquistato, ma supera anche il danno complessivo arrecato dalla natura e dal prossimo. Nemesi classica puniva l'abuso sconsiderato di un privilegio; la nemesi industrializzata castiga la supina partecipazione alla società.

Guerra e fame, pestilenza e morte improvvisa, tortura e follia rimangono compagne dell'uomo, ma sono ora fuse in una nuova Gestalt dalla nemesi che le sovrasta. Quanto più una comunità è economicamente progredita, tanto maggiore è la parte che la nemesi industriale ha nelle soffèrenze, nelle discriminazioni e nella morte che colpiscono i suoi membri. Diremmo perciò che lo studio sistematico del carattere particolare della nemesi dovrebb'essere il pimo tema di ricerca per coloro che si occupano di curare, guarire e consolare.

La nemesi industriale è conseguenza di procedimenti decisionali che generano inevitabilmente disavventure controintuitive. E conseguenza d'uno stile di gestione che rimane un rompicapo per programmatori. Fin quando le si descrive con i termini della scienza e dell'economia, queste disavventure restano delle singolari sorprese. Il linguaggio per studiare la nemesi industriale è ancora da creare; dev'essere in grado di descrivere le contraddizioni intrinseche ai processi mentali di una società che apprezzava la verifica operazionale più dell'evidenza intuitiva.

La “hubris” di Tantalo

La nemesi medica è solo una delle tante “disavventure controintuitive” tipiche della società industriale. E il frutto mostruoso di un particolarissimo sogno della ragione, cioè la hubris che rende simili a Tantalo. Tantalo era un re famoso che gli dei un giorno invitarono sull'Olimpo a un loro banchetto; ma dalla mensa divina egli rubò l'ambrosia, la pozione che dava l'immortalità, e per castigo fu precipitato nell'Ade e condannato a soffrire in eterno fame e sete. Quando Tantalo si china verso il ruscello nel quale è immerso, l'acqua si ritira, e quando cerca di cogliere la frutta che gli pende sul capo, i rami si allontanano. Un etologo direbbe che la nemesi igienica lo ha programmato per un comportamento controintuitivo obbligato.

La brama di ambrosia ha oggi contagiato i comuni mortali. L'ottimismo scientifico e quello politico hanno insieme contribuito a propagarla. Per sostenerla, si è costituito un corpo di sacerdoti di Tantalo, che promette un miglioramento medico illimitato della salute umana. I membri di questa congregazione si dicono discepoli di Asclepio il guaritore, ma in realtà sono spacciatori di ambrosia. La gente si rivolge a loro perché la sua vita migliori, sia prolungata, resa compatibile con le macchine e capace di resistere a ogni sorta di accelerazione, di alterazione e di tensione. Per tutto risultato, la salute è divenuta scarsa al punto che l'uomo comune la fa dipendere dal consumo di ambrosia.

L'umanità si è evoluta solo perché ogni suo membro è venuto al mondo protetto da una serie di bozzoli, visibili e invisibili. Ognuno conosceva il grembo dal quale era uscito e si orientava con le stelle sotto le quali era nato. Per essere uomo e diventarlo, l'individuo della nostra specie doveva scoprire il proprio destino nel corso della sua particolare lotta con la natura e con i vicini. In questa lotta era solo, ma le armi, le regole e lo stile gli erano dati dalla cultura in cui cresceva. Le culture si evolvevano, ciascuna secondo la propria vitalità; e con le culture crescevano le persone, ognuna imparando a sopravvivere entro un bozzolo comune. Ogni cultura era la somma delle regole grazie alle quali l'individuo si conciliava con la sofferenza, la malattia e la morte, le interpretava e provava compassione per gli altri, soggetti alle medesime minacce. Ogni cultura creava i miti, i rituali, i tabù e le norme etiche necessari per far fronte alla fragilità della vita.

La civiltà medica cosmopolita nega che l'uomo abbia bisogno di accettare questi mali. E concepita e organizzata al fine di sopprimere la sofferenza, eliminare la malattia e lottare contro la morte. Sono obiettivi nuovi, che non si erano mai posti alla vita sociale e che sono antitetici a tutte quante le culture che la civiltà medica incontra quando la si scaraventa addosso ai cosiddetti poveri come parte integrante del loro progresso economico.

L'effetto di negazione della salute esercitato dalla civiltà medica è quindi altrettanto forte nei paesi ricchi quanto in quelli poveri, anche se a questi ultimi vengono spesso risparmiati alcuni dei suoi aspetti più sinistri.

La soppressione della sofferenza

Perché un vissuto diventi sofferenza nel senso pieno del termine, bisogna che si inquadri in una cultura. Proprio perché ogni cultura fornisce un suo modo di soffrire, la cultura è una forma particolare di salute. L'atto di soffrire è trasformato dalla cultura in un interrogativo che può essere espresso e condiviso.

Con l'avvento della civiltà medica, alla capacità di soffrire modellata dalla cultura si sostituisce una crescente richiesta, da parte del singolo, di una gestione istituzionale della propria sofferenza. Una miriade di sentimenti diversi, espressione ognuno di un qualche tipo di forza d'animo, si riduce esclusivamente a pressione politica, esercitata da consumatori di anestesia. La sofferenza diventa una delle voci di un elenco di rivendicazioni. Il risultato è un nuovo genere di orrore. Concettualmente è ancora sofferenza, ma l'effetto sulle nostre emozioni di questo inedito dolore opaco, impersonale e privo di valore, è qualcosa di completamente nuovo.

In tal modo, per l'uomo industriale, la sofferenza suscita ormai solo una domanda tecnica: cosa devo per curare o fare sparire questa sofferenza? Se poi essa persiste, la colpa non è dell'universo, di Dio, dei miei peccati o del diavolo, ma del sistema sanitario. La sofferenza esprime la domanda, da parte del consumatore, di maggiori prestazioni sanitarie. Diventando non necessaria, è divenuta intollerabile. Dato questo atteggiamento, oggi sembra più razionale fuggire la sofferenza che affrontarla, anche a costo della dipendenza. Sembra ragionevole eliminarla, anche a costo della salute. Sembra intelligente negare legittimità a tutte le questioni non tecniche che essa solleva, anche a costo di disarmare chi è vittima di sofferenze irriducibili. Per un po' si può asserire che la somma delle sofferenze anestetizzate, all'interno d'una società, supera quella delle sofferenze generate ex novo; ma a un certo punto insorgono crescenti disutilità marginali. La nuova sofferenza non solo è intrattabile, ma ha perso ogni referente. E diventata priva di significato, mera tortura. Solo il ricupero della volontà e capacità di soffrire può restituire sanità al dolore.

L'eliminazione della malattia

Le prestazioni mediche non hanno inciso sui tassi della mortalità globale; tutt'al più hanno spostato la sopravvivenza da una fascia all'altra della popolazione. Una ricca documentazione mostra spettacolari cambiamenti nella natura delle malattie che hanno afflitto le società occidentali negli ultimi cento anni. Dapprima l'industrializzazione esasperò le malattie infettive, che poi decrebbero. La tubercolosi non fece che aumentare per cinquanta-settantacinque anni, per poi calare prima ancora che se ne scoprisse il bacillo o che si varassero provvedimenti per combatterla. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti le subentrarono le principali sindromi da malnutrizione - rachitismo e pellagra - che raggiunsero l'apice e declinarono e furono rimpiazzate dalle malattie infantili, che a loro volta lasciarono il posto all'ulcera duodenale dei giovani. Quando questa calò, presero a infierire le epidemie moderne: le malattie coronariche, l'ipertensione, il cancro, l'artrite, il diabete e i disturbi mentali. Almeno negli Stati Uniti, i tassi di mortalità per malattie cardiache da ipertensione sembrano ora in calo. Nonostante le intense ricerche fatte, non si è riusciti ad accertare alcun nesso tra i sopraccennati mutamenti avvenuti nel quadro delle malattie e l'esercizio professionale della medicina.

La stragrande maggioranza degli interventi diagnostici e terapeutici moderni che fanno per certo più bene che, male presenta due caratteristiche: i mezzi materiali occorrenti hanno un costo irrisorio, ed è inoltre possibile predisporli in confezioni usabili personalmente o col semplice aiuto d'un familiare. Nella medicina canadese, la tecnologia che ottiene i risultati più significativi nel campo della terapia o del miglioramento della salute costa così poco che si potrebbe fornirla all'intero subcontinente indiano per la stessa cifra che oggi vi si spreca per la cosiddetta “medicina moderna”. Per altro verso, le abilità necessarie per l'impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici più generalmente usati sono così elementari che un'attenta osservanza delle istruzioni da parte della persona stessa che si cura garantirebbe un uso più efficace e responsabile di quello che può fornire un medico.

Non c'è stato né un declino delle grandi epidemie di malattie mortali, né alcun cambiamento rilevante nella ripartizione per età della popolazione, né alcuna caduta o crescita dell'assenteismo sul lavoro, che abbia avuto un rapporto significativo con le prestazioni terapeutiche effettuate dai medici o anche con l'immunizzazione. I servizi medici non hanno né alcun merito per la longevità né alcuna colpa per la minacciosa pressione demografica. La longevità si deve molto di più alle ferrovie e alla fabbricazione sintetica dei fertilizzanti e degli insetticidi che non alle nuove medicine e siringhe. Quanto è inefficace, tanto la prestazione professionale è sempre più ricercata. Questa crescita del prestigio dei medici, ingiustificata..sotto il profilo tecnico, è spiegabile soltanto come un rituale magico, rivolto a conseguire obiettivi che per via tecnica o politica non si riesce a raggiungere. Si può contrastarla soltanto con misure legislative e con un'azione politica che favoriscano la sprofessionalizzazione della cura della salute.

Sprofessionalizzazione della medicina non vuoi dire, né si deve credere che implichi, negazione degli esperti in guarigione, della competenza, della critica reciproca o del controllo pubblico: significa combattere la mistificazione,il dominio transnazionale di un'unica ortodossia, l'esclusione dei guaritori scelti dai pazienti ma non riconosciuti dalla corporazione. Sprofessionalizzare la medicina non significa rifiutare lo stanziamento di denaro pubblico per scopi di 'cura: significa non volere che questo denaro venga speso per prescrizione e decisione dei membri della corporazione anziché sotto il controllo dei consumatori. Sprofessionalizzare non vuoi dire eliminare la medicina moderna, né ostacolare l'invenzione di una medicina nuova, né necessariamente far ritorno a programmi, riti e metodi antichi: significa che nessun professionista deve avere il potere di elargire a un qualunque suo paziente un complesso di mezzi terapeutici maggiore di quello che ciascun cittadino per proprio conto potrebbe rivendicare. Infine, sprofessionalizzare la medicina non significa perdere di vista i particolari bisogni che si hanno in momenti particolari della vita - quando si nasce, ci si rompe una gamba, ci si sposa, si partorisce, si diventa invalidi o si affronta la morte -: significa solo che la gente ha il diritto di vivere in un ambiente ospitale queste fasi salienti della propria esistenza.

La lotta contro la morte

La conseguenza estrema della nemesi medica è l'espropriazione della morte In ogni società l'immagine della morte è l'anticipazione, condizionata dalla cultura, di un evento certo di data incerta. Questa anticipazione determina una serie di norme di condotta nel corso della vita e informa la struttura di certe istituzioni. Ovunque la civiltà medica moderna sia penetrata in una cultura tradizionale, è sorta una concezione nuova della morte. Questo nuovo ideale si diffonde grazie alla tecnologia e all'ethos professionale che a essa corrisponde.

Nelle società primitive la morte è sempre concepita come l'intervento di un attore: un nemico, uno stregone, un antenato o un dio. Il Medioevo cristiano e quello islamico vedevano in ogni morte la mano di Dio. In Occidente la morte ha cominciato ad avere un proprio volto soltanto intorno al 1420. La concezione occidentale della morte, che tocca egualmente a tutti per cause naturali, è di origine piuttosto recente. Solo nell'autunno del Medioevo, infatti, la morte fa la sua apparizione sotto forma di uno scheletro dotato di un proprio potere; solo col Cinquecento gli europei cominciano a elaborare “l'arte di morir bene”. Nel corso di tre secoli successivi il nobile e il contadino, il prete e la prostituta si prepararono per tutta la vita a presiedere alla propria morte. La sporca morte, la dura morte diventa non più il fine ma la fine della vita. L'idea che la morte naturale debba sopraggiungere soltanto al termine di una vecchiaia trascorsa in buona salute non compare prima del Settecento, ed è fenomeno specificatamente borghese. La richiesta che i medici lottino contro la morte e mantengano in salute i vecchi cadenti non ha nulla a che fare con la loro capacità di fornire simili servizi: come ha dimostrato Philip Ariès, i costosi tentativi di prolungare la vita si registrano dapprima solo nell'ambiente dei banchieri, cioè di coloro che più anni passavano al banco più diventavano potenti.

Non si può comprendere appieno l'organizzazione sociale contemporanea se in essa non si vede un molteplice esorcismo di tutte le forme di mala morte. Le nostre principali istituzioni costituiscono un gigantesco schieramento difensivo rivolto, in nome dell'“umanità”, contro tutti coloro che possono essere associati con ciò che si suole intendere come ingiustizia sociale somministratrice di morte. Non soltanto le organizzazioni mediche, ma l'assistenza sociale, gli aiuti internazionali, i programmi di sviluppo sono al servizio di questa lotta. Partecipano alla crociata burocrazie ideologiche d'ogni colore. Persino alla guerra si è fatto ricorso per sancire la sconfitta dei colpevoli d'una inammissibile tolleranza nei confronti della malattia e della morte. Lo scopo di assicurare a tutti una “morte naturale” è sul punto di diventare una giustificazione suprema del controllo sociale. Sotto l'influenza dei riti medici, la morte contemporanea torna ad essere argomento per una caccia alle streghe.

Il ricupero della salute

Crescenti e irreparabili danni accompagnano l'attuale espansione industriale in ogni settore. Nella medicina questi danni si configurano come iatrogenesi. La iatrogenesi può essere diretta, quando la sofferenza, la malattia e la morte sono risultato di prestazioni mediche; o indiretta, quando le politiche sanitarie rafforzano un'organizzazione industriale che danneggia la salute. Può essere strutturale, quando illusioni e comportamenti promossi dai medici restringono l'autonomia vitale della gente minandone la capacità di crescere, curarsi e invecchiare; o quando paralizza l'impegno personale stimolato dalla sofferenza, dalla menomazione, dall'angoscia.

Quasi tutti i rimedi proposti per ridurre la iatrogenesi sono interventi tecnici, che affrontano in termini terapeutici l'individuo, il gruppo, l'istituzione o l'ambiente. Questi presunti rimedi generano mali iatrogeni di secondo grado, creando nuovi pregiudizi a danno dell'autonomia del cittadino.

Gli effetti iatrogeni più profondi esercitati dalla tecnostruttura medica derivano dalle sue funzioni sociali di natura non tecnica. Le conseguenze patogene tecniche e non tecniche dell'istituzionalizzazione della medicina concorrono a generare una sofferenza di tipo nuovo: la sopravvivenza anestetizzata e solitaria in un mondo trasformato in un unico ospedale.

La nemesi medica non è suscettibile di verifica operazionale. Tanto meno può essere misurata. L'intensità con cui si avverte è proporzionale all'indipendenza, alla vitalità e alla ricchezza di relazioni che ciascuno possiede. Come concetto teorico, è una delle componenti di una teoria generale atta a spiegare le anomalie che affliggono i sistemi di assistenza sanitaria del nostro tempo. E un aspetto particolare di un fenomeno più vasto che io ho chiamato nemesi industriale, il contraccolpo della hubris industriale strutturata in istituzioni. Questa hubris consiste nell'ignorare i confini entro i quali il fenomeno rimane vitale. Oggi la ricerca è in grandissima parte finalizzata a “conquiste” irraggiungibili; quella che io ho definito controricerca è l'analisi metodica dei livelli ai quali le ripercussioni della hubris non possono che recare danno all'uomo.

Rendersi conto della nemesi che ci avvolge porta a una scelta sociale. O si valutano e si riconoscono quelli che sono i confini naturali dello sforzo umano e li si traduce in limiti fissati da una deliberazione politica; o l'alternativa all'estinzione sarà la sopravvivenza coatta in un inferno artificiale programmato.

In molti paesi il pubblico è maturo per una revisione del proprio sistema sanitario. Le frustrazioni che si sono manifestate tanto nei sistemi basati sull’iniziativa privata quanto nell'assistenza socializzata hanno finito per assomigliarsi in modo spaventoso. Le differenze tra le critiche che si sentono fare dai russi, dai francesi, dagli americani, dagli inglesi, dagli italiani sono divenute irrilevanti. Esiste però un serio pericolo che la revisione si compia all'interno delle coordinate stabilite dalle illusioni post-cartesiane. Tanto nei paesi ricchi quanto in quelli poveri la domanda di riforma dell'assistenza sanitaria nazionale è caratterizzata da una serie di richieste: un equo accesso alle merci della corporazione, uno sviluppo dell'intervento professionale e la creazione di una serie di sottoprofessioni, una maggiore veridicità nella reclamizzazione del progresso, e un controllo laico sul tempio di Tantalo. E facile che il dibattito in corso sulla crisi sanitaria venga usato per convogliare ancora più potere, prestigio e denaro verso gli ingegneri e i programmatori biomedici.

Abbiamo ancora qualche anno di tempo per evitare che il dibattito porti a rafforzare un sistema frustrante. E possibile orientare la discussione in maniera diversa, mettendo al centro di essa la nemesi. Per trovare la spiegazione della nemesi occorre infatti prendere in esame simultaneamente tanto gli aspetti tecnici della medicina quanto quelli non tecnici, che la medicina venga vista sia come industria sia come religione. La denuncia dell'aspetto di hubris istituzionale della medicina fa venire alla luce precisamente quelle illusioni personali che tengono aggiogato all'assistenza sanitaria anche chi la critica.

Il fatto di percepire e comprendere la nemesi permette così di orientarsi verso scelte politiche idonee a spezzare quel cerchio magico delle querele che oggi finiscono per ribadire la dipendenza del querelante dagli organi di programmazione e gestione della salute da lui messi sotto accusa. Il riconoscimento della nemesi può costituire la catarsi che ponga le premesse di una rivoluzione non violenta nel nostro modo di considerare il male e la sofferenza. L'alternativa a una guerra contro queste avversità è la ricerca della pace dei forti.

La salute esprime un processo di adattamento. E il risultato non dell'istinto, ma di una risposta autonoma e vitale a una realtà vissuta. Denota la capacità di adattarsi al mutare degli ambienti, di crescere e d'invecchiare, di guarire quando si sta male, di soffrire e di attendere serenamente la morte. La salute abbraccia anche il futuro, e quindi include l'angoscia e le risorse interiori per accettarla.

La fragilità, l'individualità e le connessioni dell'uomo, se vissute consapevolmente, fanno dell'esperienza del dolore, della malattia e della morte una parte integrante della sua vita. La capacità di affrontare questo trio in modo autonomo è essenziale alla sua salute. Nella misura in cui si rimette a una amministrazione tecnica della propria intimità, egli rinuncia a questa autonomia e la sua salute non può non scadere. Il vero miracolo della medicina moderna è di natura diabolica: consiste nel far sopravvivere non solo singoli individui, ma popolazioni intere, a livelli di salute personale disumanamente bassi. Che la salute non possa se non scadere col crescere della somministrazione di assistenza è una cosa imprevedibile solo per l'amministratore sanitario, proprio perché le strategie che questi persegue sono frutto della sua cecità al carattere inalienabile della salute.

Il livello della sanità pubblica corrisponde al modo in cui i mezzi e la responsabilità per far fronte alle malattie sono distribuiti fra tutta la popolazione. Questa capacità può essere potenziata ma mai surrogata dall'intervento medico sulla vita delle persone o sulle caratteristiche igieniche dell'ambiente. Le condizioni migliori per la salute le offrirà quella società che ridurrà al minimo l'intervento professionale. Quanto maggiore sarà negli individui il potenziale di adattamento autonomo a se stessi, agli altri e all'ambiente, tanto meno sarà necessaria o tollerata una gestione tecnica ditale adattamento.

Proporsi il ricupero di un atteggiamento sano nei confronti della malattia non è da luddisti né da romantici né da utopisti: è un ideale che non sarà mai realizzato del tutto, ma che, con i mezzi moderni, può essere raggiunto come mai nella storia e che deve comunque orientare le scelte politiche se non si vuole che la nemesi dilaghi.

Energia ed equità

La prima stesura di questo saggio apparve su “ Le Monde ” all'inizio del 1973. Nell'accettarne il testo il venerando direttore del giornale suggerì, mentre pranzavamo insieme a Parigi, un unico cambiamento: gli pareva che un'espressione tecnica poco nota come “ crisi energetica ” fosse fuori luogo nella frase iniziale d'un articolo ch'egli intendeva stampare in prima pagina. Riguardando ora il saggio, mi colpisce la rapidità con cui in appena cinque anni sono cambiati il linguaggio e i temi; ma altrettanto mi colpisce il lento e però costante aumento di coloro che si schierano in favore dell'alternativa radicale alla società industriale, cioè per la modernità conviviale a basso consumo di energia.

In questo saggio io sostengo che, in determinate circostanze, una tecnologia incorpora a tal punto i valori della società per la quale fu inventata, che questi valori finiscono col dominare in ogni società che poi applichi la medesima tecnologia. La struttura materiale dei mezzi di produzione può dunque incorporare irrimediabilmente un pregiudizio di classe. La tecnologia ad alto contenuto di energia, almeno nella sua applicazione al traffico, ne è un chiaro esempio.

Ovviamente, si tratta di una tesi che mina la legittimità di quei professionisti che monopolizzano l'esercizio di tali tecnologie. Essa riesce particolarmente sgradita a coloro che, all'interno delle professioni, cercano di servire la collettività usando la fraseologia della lotta di classe col proposito di sostituire ai “ capitalisti ”, che ora governano la politica delle istituzioni, professionisti o anche profani ma che accettino i criteri di giudizio professionali. Principalmente per influenza di questi professionisti “ radicali ”la mia tesi, dapprima accolta come una stranezza, in appena cinque anni è diventata un'eresia che attira un bombardamento di ingiurie.

La distinzione che qui viene avanzata non è tuttavia una novità. Io contrappongo degli strumenti che si possono usare per generare valori d'uso ad altri che non sono invece utilizzabili se non per produrre valori di scambio, merci. Ultimamente questa distinzione è stata rimessa in evidenza da una grande varietà di studiosi; di fatto, l'insistenza sulla necessità di un equilibrio tra strumenti conviviali e strumenti industriali è l'elemento comune che caratterizza un'emergente concordanza tra i gruppi impegnati su posizioni politiche radicali. Una magnifica guida bibliografica su questo argomento è stata pubblicata nel volume Radicai Technology (Londra e New York 1976) dai redattori di “ Undercurrents ”. Valentino Borremans ha redatto, ad uso dei bibliotecari, una guida alle pubblicazioni esistenti sugli strumenti moderni orientati verso la produzione di valori d'uso (Guide to convivial tools, vol. 130 della serie Special Reports del “ Library Journal ”, Bowker Company, New York 1979). La tesi specifica sulle soglie di energia socialmente critiche nel campo del trasporto da me esposta in questo saggio, è stata sviluppata e documentata dai colleghi Jean-Pierre Dupuy e Jean Robert in due libri che hanno scritto assieme: La trahison de l'opulence (Parigi 1976) e Les chronophages (Parigi 1978).

La crisi energetica

Da qualche tempo è venuto di moda parlare di un'imminente crisi energetica. Questo eufemismo occulta una contraddizione e consacra un'illusione. Maschera la contraddizione che è implicita nel perseguire assieme l'equità e lo sviluppo industriale; fa salva l'illusione che la potenza della macchina possa sostituire indefinitamente il lavoro dell'uomo. Per superare la contraddizione e dissolvere l'illusione, è urgente chiarire quella realtà che viene oscurata dal linguaggio della crisi: e la realtà è che elevati quanta di energia degradano le relazioni sociali con la stessa ineluttabilità con cui distruggono l'ambiente fisico.

Coloro che parlano di crisi energetica credono in una particolare idea dell'uomo e continuano a propagarla. Secondo questa concezione l'uomo nasce, e resta per tutta la vita, dipendente da schiavi che deve faticosamente imparare a dominare. Se non dispone di prigionieri, ha bisogno di macchine che compiano gran parte del suo lavoro. Si può misurare il benessere d'una società, secondo tale dottrina, dal numero degli anni che i suoi membri hanno trascorso a scuola e dal numero degli schiavi energetici che hanno così imparato a governare. Questa convinzione è comune a tutte le contrastanti ideologie economiche attualmente in voga. E’ messa in pericolo dalle evidenti iniquità, molestie e impotenze che si manifestano ovunque quando le orde voraci degli schiavi energetici superano oltre un certo rapporto il numero delle persone. La crisi energetica concentra le preoccupazioni sulla scarsità del foraggio disponibile per questi schiavi. Io preferisco chiedermi se gli uomini liberi hanno bisogno di essi.

Gli indirizzi di politica energetica che verranno adottati nel decennio in corso determineranno la portata e il carattere delle relazioni sociali che una società potrà avere nell'anno 2000. Una politica di bassi consumi di energia permette un'ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate, capitaliste o socialiste.

In questo momento le società, specie quelle povere, sono per lo più ancora libere di seguire nel campo dell'energia uno di questi tre indirizzi: possono identificare il benessere con un forte consumo energetico pro capite, o con il conseguimento di un'elevata efficienza nella trasformazione dell'energia, oppure ancora con il minor uso possibile di energia meccanica da parte dei membri più potenti della società. Il primo orientamento punterebbe su una gestione rigida di combustibili rari e distruttivi a vantaggio dell'industria, mentre il secondo metterebbe l'accento su una riattrezzatura dell'apparato industriale nell'interesse del risparmio termodinamico. Questi due primi atteggiamenti comportano ingenti investimenti pubblici e un accentuato controllo sociale; entrambi giustificano 1'avvento di un Leviatano computerizzato, e sono oggi contestati da più parti.

La possibilità di una terza scelta è percepita da ben pochi. Mentre si è cominciato ad accettare, come condizione per sopravvivere fisicamente, qualche limitazione ecologica al consumo energetico massimo pro capite, non si arriva ancora a vedere nell'impiego del minimo possibile di potenza il fondamento di una varietà di ordinamenti sociali che sarebbero tutti moderni quanto desiderabili. E tuttavia solo stabilendo un tetto all'uso di energia si possono ottenere rapporti sociali che siano contraddistinti da alti livelli di equità L'unica scelta attualmente trascurata è la sola che sia alla portata di ogni nazione. E’ pure la sola strategia che permetta di usare una procedura politica per porre limiti al potere anche del più motorizzato dei burocrati. La democrazia partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e solo la democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia razionale.

Ciò che in genere si perde' di vista è che l'equità e l'energia possono crescere parallelamente solo sino a un certo punto. Al di sotto di una certa soglia di watt pro capite, i motori forniscono condizioni migliori per il progresso sociale. Al di sopra di quella soglia, l'energia cresce a spese dell'equità. Ogni sovrappiù di energia significa allora un restringimento del controllo sull'energia stessa.

La diffusa convinzione che un'energia pulita e abbondante sarebbe la panacea di tutti i mali sociali è dovuta a un inganno politico, secondo cui l'equità e il consumo d'energia possono stare in correlazione all'infinito, almeno in certe condizioni politiche ideali. Vittime di questa illusione, tendiamo a ignorare qualunque limite sociale della crescita del consumo energetico. Ma se hanno ragione gli ecologi ad affermare che la potenza non metabolica è inquinante, è di fatto altrettanto inevitabile che, al di là d'una certa soglia, la potenza meccanica produca guasti. La soglia oltre la quale comincia la disgregazione sociale indotta da alti quanta di energia non coincide con quella dove la trasformazione dell'energia comincia a produrre distruzione fisica; espressa in cavalli-vapore, è sicuramente più bassa.. E’questo il fatto che va riconosciuto in via teorica perché si possa affrontare sul piano politico il problema del wattaggio pro capite che la società deve porre come limite ai propri membri.

Anche ammettendo che una potenza non inquinante sia ottenibile e in abbondanza, resta il fatto che l'impiego di energia su scala di massa agisce sulla società al pari di una droga fisicamente innocua ma assoggettante per la psiche. Una collettività può scegliere tra il Metadone e la disintossicazione, tra il restare dipendente da un'energia estranea e il liberarsene con spasmi dolorosi: ma nessuna può avere una popolazione che sia incatenata a un sempre maggior numero di schiavi energetici e che nello stesso tempo sia fatta di individui autonomamente attivi.

In altri scritti ho mostrato come, al di là d'un certo livello di PNL pro capite, il costo del controllo sociale non possa che aumentare più in fretta del prodotto globale, diventando la principale attività istituzionale all'interno di una economia. La terapia somministrata dagli educatori, dagli psichiatri e dagli assistenti sociali non può che convergere verso i medesimi obiettivi dei pianificatori, dei managers e dei venditori, e divenire complementare ai servizi degli organi di sicurezza, delle forze armate e della polizia. Qui vorrei ora indicare uno dei motivi per cui l'aumento della ricchezza impone un più accentuato controllo sociale. Sostengo che, al di là di una certa  mediana del livello di energia pro capite, il sistema politico e il contesto culturale di una società non possono che degradarsi. Una volta oltrepassato il quantum critico di energia pro capite, è ineluttabile che le garanzie giuridiche dell'iniziativa personale e concreta vengano soppiantate dall'educazione agli astratti obiettivi di una burocrazia. Questo quantum segna il limite dell'ordine sociale.

Intendo qui sostenere che la tecnocrazia prevale necessariamente non appena il rapporto tra potenza meccanica ed energia metabolica oltrepassa una soglia precisa e riconoscibile. L'ordine di grandezza entro cui si trova questa soglia è in buona parte indipendente dal livello della tecnologia applicata; tuttavia, nei paesi ricchi e in quelli medio-ricchi, la sua stessa esistenza è finita nel punto cieco dell'immaginazione sociale. Tanto gli Stati Uniti quanto il Messico hanno superato questa linea di demarcazione; in entrambi i paesi, ad ogni nuova aggiunta di energia si aggravano l'ineguaglianza, l'inefficienza e l'impotenza delle persone. Benché un paese abbia un reddito pro capite di soli 500 dollari e l'altro di oltre 5000, gli enormi interessi costituiti dell’infrastruttura industriale spingono entrambi ad accrescere sempre più il consumo di energia. Una conseguenza è che sia gli ideologi statunitensi sia quelli messicani chiamano “ crisi energetica ” la loro frustrazione, ed entrambi i paesi non riescono a vedere che la minaccia di collasso sociale non deriva né da carenza di combustibile né dal modo dilapidatorio, inquinante e irrazionale con cui viene impiegata la potenza disponibile, bensì dal continuo sforzo dell'industria rivolto a ingozzare la società con quantitativi di energia che inevitabilmente degradano, depauperano e frustrano la maggioranza della gente.

Un popolo può essere altrettanto pericolosamente ipernutrito dalla potenza dei propri strumenti quanto dal contenuto calorico dei propri cibi, ma è assai più difficile riconoscere un debole nazionale per i watt che non per una dieta malsana. Il wattaggio pro capite che segna il punto critico per il benessere sociale sta entro un ordine di grandezza che è assai superiore alla quantità di cavalli-vapore nota ai quattro quinti dell'umanità e assai inferiore alla potenza controllata da chi guidi una Volkswagen. Non se ne rende conto né il sottoconsumatore né il sovraconsumatore. Né l'uno né l'altro è disposto a guardare in faccia la realtà Per quanto riguarda il primitivo, l'eliminazione della schiavitù e della fatica più ingrata dipende dall'introduzione di un'adeguata tecnologia moderna, mentre quanto al ricco l'evitare una degradazione ancor più spaventosa dipende dall'efficace riconoscimento di una soglia nel consumo energetico oltre la quale i processi tecnici cominciano a determinare le relazioni sociali. Sia dal punto di vista biologico sia da quello sociale, le calorie sono benefiche solo fin quando rimangono entro lo stretto margine che separa l'abbastanza dal troppo.

La cosiddetta crisi energetica è dunque un concetto politicamente ambiguo. L'interesse pubblico ai quanta di energia e alla distribuzione del controllo sul loro impiego può portare in due direzioni opposte. Da una parte si possono porre domande suscettibili di aprire la via a una ricostruzione politica sbloccando la ricerca di un'economia post-industriale ad alta intensità di lavoro, a basso contenuto di energia e ad alto grado di equità. Dall'altra parte l'isterico affanno per l'alimentazione delle macchine può dare un ulteriore impulso all'attuale sviluppo istituzionale a forte intensità di capitale e portarci al di là dell'ultima curva che ci separa da un Armageddon iperindustriale. La ricostruzione politica presuppone il riconoscimento del fatto che esistono dei quanta pro capite critici, superati i quali l'energia non è più controllabile per via politica. Dall'altro canto, le restrizioni ecologiche al consumo energetico globale imposte da pianificatori di mentalità industriale inclini a mantenere la produzione delle industrie a un ipotetico livello massimo non potrebbero che sfociare nell'imposizione d'una gigantesca camicia di forza all'intera società.

I paesi ricchi come gli Stati Uniti, il Giappone o la Francia potranno forse non arrivare mai al punto di soffocare tra i propri rifiuti, ma solo perché già prima queste società saranno sprofondate in un coma dell'energia socioculturale. Paesi come l'India, la Birmania e, almeno ancora per qualche tempo, la Cina hanno invece tuttora una potenza muscolare sufficiente a prevenire un infarto energetico; sarebbero in condizione di scegliere, adesso, di rimanere entro quei limiti ai quali i ricchi saranno costretti a tornare passando per la perdita completa delle loro libertà.

Scegliere un'economia a contenuto minimo di energia costringe il povero a rinunciare alle attese fantastiche e il ricco a riconoscere nei propri interessi costituiti una passività tremenda. Entrambi devono rifiutare l'immagine funesta dell'uomo come schiavista, attualmente promossa da una fame di maggiori risorse energetiche che è stimolata da motivi ideologici. Nei paesi giunti all'opulenza grazie allo sviluppo industriale, la crisi energetica serve da pretesto per aumentare il prelievo fiscale necessario per sostituire nuovi procedimenti industriali, più “ razionali ”e socialmente ancor più micidiali, a quelli resi obsoleti da una superespansione inefficiente. Per i dirigenti dei popoli non ancora dominati dal medesimo processo di industrializzazione, la crisi energetica rappresenta un imperativo storico che ordina di accentrare la produzione, l'inquinamento e il loro controllo, in un estremo tentativo di raggiungere le nazioni più potenti. Esportando la loro crisi e predicando il nuovo verbo del culto puritano dell'energia, i ricchi arrecano ai poveri ancora più danno di quanto ne arrecassero vendendogli i prodotti delle loro vecchie fabbriche. Nel momento in cui un paese povero sposa l'idea che una maggiore quantità di energia più attentamente gestita darà sempre come risultato un maggior volume di beni per più persone, quel paese si chiude nella gabbia dell'asservimento al massimo sviluppo del prodotto industriale. E’ inevitabile che i poveri perdano la possibilità di optare per una tecnologia razionale una volta deciso di modernizzare la loro povertà accrescendo la propria dipendenza dall'energia. Inevitabilmente i poveri si precludono qualunque tecnologia liberatrice e qualunque politica partecipativa allorché, insieme al massimo possibile di impieghi energetici, accettano e non possono non accettare il massimo possibile di controllo sociale.

La crisi energetica non si può superare con un sovrappiù di energia. Si può soltanto dissolverla, insieme con l'illusione che fa dipendere il benessere dal numero di schiavi energetici che un uomo ha sotto di sé. A questo scopo, è necessario identificare le soglie al di là delle quali l'energia produce guasti, e farlo attraverso un processo politico che impegni tutta la comunità nella ricerca di tali limiti. Poiché questo tipo di ricerca va in senso opposto a quella che viene svolta oggi dagli esperti e per conto delle istituzioni, io continuerò a chiamarla contro-ricerca. Essa si compone di tre fasi: in primo luogo bisogna riconoscere sul piano teorico come imperativo sociale la necessità di porre dei limiti al consumo di energia pro capite; quindi bisogna individuare la fascia entro la quale potrebbe trovarsi la grandezza critica; infine bisogna che ciascuna comunità metta in luce la somma di iniquità, di fastidio e di condizionamento che i suoi membri sono portati a tollerare per avere la soddisfazione di idolatrare potenti congegni e prender parte ai relativi riti diretti dai professionisti che ne regolano il funzionamento.

La necessità di una ricerca politica sui quanta di energia socialmente ottimali è illustrabile in maniera chiara e succinta esaminando il traffico moderno. Gli Stati Uniti investono nei veicoli tra il 25 e il 45 per cento (a seconda dei criteri di calcolo) di tutta l'energia di cui dispongono: per fabbricarli, per farli muovere e per assicurare loro un diritto di passaggio quando scorrono, quando volano e quando sono lasciati in sosta. La maggior parte di questa energia serve a spostare persone immobilizzate con delle cinghie. Al solo scopo di trasportare gente, 250 milioni di americani destinano più combustibile di quanto ne impiegano 1,3 miliardi di cinesi e di indiani per tutti i loro scopi. Quasi tutto questo combustibile viene bruciato per la danza della pioggia di un'accelerazione dissipatrice di tempo. I paesi poveri spendono meno energia pro capite, ma la percentuale dell'energia assorbita dal traffico in Messico o in Perù è probabilmente superiore a quella degli Stati Uniti, e ne beneficia una fetta più piccola della popolazione. Le dimensioni di questa faccenda permettono di dimostrare in maniera tanto facile quanto significativa, attraverso l'esempio della mobilità personale, come esistano dei quanta di energia socialmente critici.

Nella circolazione, l'energia impiegata in una determinata unità di tempo (potenza) si traduce in velocità. In questo caso, il quantum critico si configurerà come limite della velocità. Ovunque sia stato oltrepassato questo limite, è emerso il disegno essenziale della degradazione sociale dovuta a elevati quanta di energia. Ogni volta che un mezzo pubblico ha superato i 25 chilometri orari, è diminuita l'equità mentre aumentava la penuria sia di tempo che di spazio. Il trasporto a motore ha monopolizzato il traffico, bloccando il movimento alimentato dall'energia corporea (che chiamerò “ transito ”).In tutti i paesi occidentali, nel giro di cinquant'anni dall'inaugurazione della prima ferrovia, il numero dei chilometri/passeggero coperti con tutti i mezzi di trasporto si è moltiplicato per cento. Quando il rapporto tra le rispettive erogazioni di potenza ha oltrepassato un certo valore, i trasformatori meccanici di combustibili minerali hanno tolto alla gente la possibilità di usare la propria energia metabolica, costringendola a diventare consumatrice forzata di mezzi di trasporto. A questo effetto esercitato dalla velocità sull'autonomia degli individui, contribuiscono solo marginalmente le caratteristiche tecniche dei veicoli a motore oppure le persone o gli enti che di fronte alla legge risultano responsabili delle aviolinee, delle ferrovie, degli autobus o delle automobili: è l'alta velocità il fattore critico che rende socialmente distruttivo il trasporto. Una vera scelta tra indirizzi pratici e di relazioni sociali desiderabili è possibile solo laddove la velocità sia sottoposta a restrizioni. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta [1] .

L'industrializzazione del traffico

Prima di esaminare come l'energia viene impiegata per lo spostamento delle persone, occorre distinguere formalmente quelle che sono le due componenti del traffico: il transito e il trasporto. Intendo per traffico qualsiasi spostamento delle persone da un luogo all'altro quando sono fuori casa; per transito, come già accennato, intendo quegli spostamenti che fanno uso dell'energia metabolica umana, e per trasporto quelli che si avvalgono di altre fonti di energia. Per l'avvenire queste fonti saranno per lo più motori, dato che gli animali fanno ormai a gara con gli uomini nel morir di fame in un mondo sovrappopolato, a meno che, come l'asino e il cammello, non si nutrano di cardi.

Appena si arriva a dipendere dal trasporto, non solo per i viaggi che durano parecchi giorni ma per gli spostamenti quotidiani, diventano acutamente palesi le contraddizioni tra la giustizia sociale e la potenza motorizzata,. tra il movimento efficace e l'alta velocità, tra la libertà personale e l'itinerario preordinato. Là dipendenza forzata dalle macchine automobili nega allora a una collettività di persone semoventi proprio quei valori che i potenziati mezzi di trasporto dovrebbero in teoria garantire.

La gente si muove bene con le proprie gambe. Questo mezzo primitivo per spostarsi apparirà, a un’analisi appena attenta, assai efficace se si fa un confronto con la sorte di chi vive nelle città moderne o nelle campagne industrializzate. E riuscirà particolarmente suggestivo quando ci si renda conto che l’americano d’oggi, in media, percorre a piedi - per lo più in tunnel, corridoi, parcheggi e supermercati  tanti chilometri quanti ne percorrevano i suoi antenati. Coloro che vanno a piedi sono più o meno uguali. Chi dipende esclusivamente dalle proprie gambe, si sposta secondo lo stimolo del momento, a una velocità media di cinque o sei chilometri l'ora, in qualunque direzione e per andare in qualsiasi posto che non gli sia legalmente o materialmente precluso. Ci si aspetterebbe che ogni miglioramento di tale mobilità connaturata prodotto da una nuova tecnologia del trasporto salvaguardi quei valori e ne aggiunga degli altri, come un maggior raggio d'azione, risparmio di tempo, comodità, maggiori possibilità per i menomati. Sinora non è questo ciò che è accaduto. Anzi, lo sviluppo dell'industria del trasporto ha avuto dappertutto l'effetto opposto. Questa industria, da quando le sue macchine hanno potuto mettere dietro ogni passeggero più d'un certo numero di cavalli-vapore, ha diminuito l'eguaglianza tra gli uomini, ha vincolato la loro mobilità a una rete di percorsi disegnata con criteri industriali e ha creato una penuria di tempo d'una gravità senza precedenti. Appena la velocità dei loro veicoli varca una certa soglia, i cittadini diventano consumatori di trasporto nel giro dell'oca quotidiano che li riporta a casa, un circuito che gli uffici di statistica chiamano “ spostamento ” per distinguerlo dal vero “ viaggio ” che si ha quando il cittadino, uscendo di casa, si munisce d'uno spazzolino da denti.

Alimentare con più energia il sistema di trasporto vuol dire che ogni giorno un numero maggiore di persone si muove più velocemente su distanze superiori. Il raggio quotidiano di ognuno si estende a scapito della possibilità di imbattersi in un amico o di passare per il parco andando al lavoro. Si creano punte estreme di privilegio con l'asservimento generale. Una élite accumula distanze incalcolabili in tutta una vita di viaggi circondati da premure, mentre la maggioranza spende una fetta sempre maggiore della propria esistenza in spostamenti non voluti. Alcune poche persone viaggiano su tappeti magici fra punti remoti che la loro effimera presenza fa apparire rari e insieme allettanti, mentre tutti gli altri sono costretti a spostarsi sempre di più e sempre più in fretta sui medesimi tragitti e a perdere sempre più tempo per prepararsi a questi spostamenti e poi per riaversene.

Negli Stati Uniti i quattro quinti delle ore/persona passate sulle strade sono di gente che fa la spola tra casa, posto di lavoro e supermercato e che non sale quasi mai su un aereo; mentre i quattro quinti delle miglia percorse in volo per recarsi a congressi e in luoghi di villeggiatura sono coperti ogni anno da un costante 1,5 per cento della popolazione, di solito benestanti o gente che si tratta bene per condizionamento professionale. Quanto più veloce è il veicolo, tanto più consistente è il sussidio che riceve da una tassazione regressiva. Appena lo 0,2 per cento della popolazione degli Stati Uniti può decidere per proprio conto di viaggiare in aereo più di una volta all'anno, e pochi altri paesi possono permettersi un jet set così numeroso.

Sia lo schiavo degli spostamenti quotidiani sia il viaggiatore impenitente si trovano a dipendere dal trasporto: né l'uno né l'altro possono farne a meno. Un volo occasionale ad Acapulco o a un congresso di partito fa credere al passeggero ordinario di essere finalmente entrato nel mondo ristretto di coloro che si muovono ad alta velocità. La possibilità occasionale di trascorrere qualche ora legato con una cinghia al proprio sedile su un veicolo ultrapotente fa di lui un complice della distorsione dello spazio umano e lo induce ad accettare che la geografia del suo paese venga modellata in funzione dei veicoli anziché delle persone. L'uomo si è evoluto fisicamente e culturalmente insieme con la sua nicchia cosmica. Ciò che per gli animali non è che l'ambiente, egli ha imparato a trasformarlo in propria dimora. La sua autocoscienza richiede il complemento di uno spazio vitale e di un tempo di vita integrati dal ritmo col quale egli si muove. Se questo rapporto viene determinato dalla velocità dei veicoli anziché dal movimento delle persone, l'uomo-architetto si riduce al livello di un mero pendolare.

L'americano tipo dedica ogni anno alla propria auto più di 1600 ore: ci sta seduto, in marcia e in sosta; la parcheggia e va a prenderla; si guadagna i soldi occorrenti per l'anticipo sul prezzo d'acquisto e per le rate mensili; lavora per pagare la benzina, i pedaggi dell'autostrada, l'assicurazione, il bollo, le multe. Ogni giorno passa quattro delle sue sedici ore di veglia o per la strada o occupato a mettere insieme i mezzi che l'auto richiede. E questa cifra non comprende il tempo speso in altre occupazioni imposte dal trasporto: quello che si trascorre in ospedale, in tribunale e in garage; quello che si passa guardando alla televisione i caroselli sulle automobili, scorrendo pubblicazioni specializzate, partecipando a riunioni per l'educazione del consumatore in modo da saper fare un acquisto migliore alla prossima occasione. L'americano tipo investe queste 1600 ore per fare circa 12.000 chilometri: cioè appena sette chilometri e mezzo per ogni ora. Nei paesi dove non esiste un'industria del trasporto, la gente riesce a ottenere lo stesso risultato andando a piedi dovunque voglia, e il traffico assorbe dal 3 all'8 per cento del tempo sociale, anziché il 28 per cento. Ciò che distingue il traffico dei paesi ricchi da quello dei paesi poveri, per quanto riguarda i più, non è un maggior chilometraggio per ogni ora di vita, ma l'obbligo di consumare in forti dosi l'energia confezionata e disegualmente distribuita dall'industria del trasporto.

L'immaginazione intontita dalla velocità

Superata una certa soglia di consumo d'energia, l'industria del trasporto detta la configurazione dello spazio sociale. Le autostrade si espandono, ficcando cunei tra i vicini e spostando i campi oltre la distanza che un contadino può percorrere a piedi. Le ambulanze spingono le cliniche al di là dei pochi chilometri in cui è possibile portare in braccio un bambino malato. Il medico non viene più a casa perché i veicoli hanno fatto dell'ospedale il posto più giusto per stare malati. Basta che dei camion pesanti si arrampichino fino a un villaggio delle Ande perché sparisca una parte del mercato locale. Poi, quando nella plaza arriva la scuola media insieme con la strada asfaltata, sono sempre più numerosi i giovani che si trasferiscono in città, finché non rimane più una sola famiglia che non sogni di ricongiungersi con qualcuno, laggiù, a centinaia di chilometri, lungo la costa.

A velocità uguali corrispondono effetti ugualmente distorsivi sulla percezione dello spazio, del tempo e delle potenzialità personali, nei paesi ricchi come in quelli poveri, per differenti che possano essere le apparenze superficiali. Dappertutto l'industria del trasporto foggia un nuovo tipo d'uomo adatto alla nuova geografia e ai nuovi tempi che essa fabbrica. La differenza tra il Guatemala e il Kansas è che nell'America centrale alcune province non hanno ancora preso contatto con i veicoli e perciò non sono ancora degradate dall'asservimento a essi.

Il prodotto dell'industria del trasporto è il passeggero abituale. Costui è stato catapultato fuori del mondo in cui la gente continua a muoversi da sé, e ha perso la sensazione di stare al centro del proprio mondo. Il passeggero abituale è conscio dell'esasperante mancanza di tempo provocata dal quotidiano ricorso all'auto, al treno, all'autobus, alla metropolitana e all'ascensore, che lo costringono a percorrere in media trenta e più chilometri al giorno, spesso intersecando il proprio cammino, entro un raggio di otto chilometri. E’ stato sollevato per aria. Sia che vada in metropolitana o in jet, si sente sempre più lento e più povero di qualcun altro e pensa con rabbia ai pochi privilegiati che possono prendere delle scorciatoie riuscendo così a non subire la frustrazioni del traffico. Se è bloccato dagli orari del suo treno per pendolari, sogna un'automobile. Se è in automobile, sfinito dall'ora di punta, invidia il capitalista di velocità che corre contromano. Se deve pagarsi l'auto di tasca propria, non riesce a dimenticare che i comandanti delle flotte aziendali girano alla ditta le fatture della benzina e mettono sul conto spese le macchine prese a nolo. Il passeggero abituale è il più esasperato di tutti dalla crescente ineguaglianza, dalla penuria di tempo e dall'impotenza personale, ma non vede altra via d'uscita da questo pasticcio che non sia chiedere una dose maggiore della medesima droga: cioè più traffico con mezzi di trasporto. Aspetta la sua salvezza da innovazioni tecniche nella concezione dei veicoli e delle strade e da una diversa regolamentazione degli orari; oppure spera in una rivoluzione che crei un sistema di trasporto veloce di massa gestito dalla collettività. Né in un caso né nell'altro calcola quanto costi farsi portare in un futuro migliore. Dimentica che sarà sempre lui a pagare il conto, sotto forma di tasse o di tariffe. Trascura i costi occulti che comporta la sostituzione delle auto private con trasporti pubblici egualmente rapidi.

Il passeggero abituale non riesce ad afferrare la follia di un traffico basato in misura preponderante sul trasporto. Le sue percezioni ereditarie dello spazio, del tempo e del ritmo personale sono state deformate dall'industria. Ha perso la capacità di concepire se stesso in un ruolo che non sia quello del passeggero. Drogato dal trasporto, non ha più coscienza dei poteri fisici, psichici e sociali che i piedi di un uomo posseggono. E’ arrivato a prendere per un territorio quel paesaggio sfuggente attraverso il quale viene precipitato. Non è più capace di crearsi un proprio dominio, di dargli la propria impronta e di affermarvi la propria sovranità. Non ha più fiducia nel suo potere di ammettere altri alla propria presenza e di dividere consapevolmente con loro lo spazio. Non sa più affrontare da solo le distanze. Lasciato a se stesso, si sente immobile.

Per sentirsi sicuro in uno strano mondo in cui tanto le liaisons quanto la solitudine sono prodotti dei mezzi di trasporto, il passeggero abituale deve adottare una nuova serie di credenze e di aspettative. “Incontrarsi” significa per lui essere collegati dai veicoli. Giunge a credere che il potere politico discenda dalla portata di un sistema di trasporto o, in sua assenza, sia il risultato dell'accesso allo schermo televisivo. Ritiene che la libertà di movimento consista in un diritto alla propulsione. Crede che il livello della democrazia sia in correlazione con la potenza dei sistemi di trasporto e di comunicazione. Non ha più fede nel potere politico delle gambe e della lingua. Di conseguenza non vuol essere maggiormente libero come cittadino, ma essere meglio servito come cliente. Non tiene alla propria libertà di muoversi e di parlare alla gente, ma al suo diritto di essere caricato e di essere informato dai media. Vuole un prodotto migliore, non vuole liberarsi dall'asservimento ai prodotti. E’ dunque indispensabile ch'egli riesca a comprendere che l'accelerazione da lui ambita è frustrante e non può che portare a un ulteriore declino dell'equità, del tempo libero e dell'autonomia.

Trasferimento netto di vita

La velocità incontrollata è costosa, e sono sempre meno quelli che possono permettersela. Ad ogni incremento della velocità di un veicolo cresce il costo della propulsione e della rete stradale e - cosa più drammatica di tutte - aumenta lo spazio che il veicolo divora col suo movimento. Oltrepassata una certa soglia nel consumo di energia per i passeggeri più veloci, si crea una struttura di classe, su scala mondiale, di capitalisti di velocità. Il valore di scambio del tempo diviene dominante, rispecchiandosi anche nella lingua: il tempo si spende, si risparmia, s'investe, si spreca, s'impiega. Quando una società segna un prezzo sul tempo, tra l'equità e la velocità veicolare si stabilisce una correlazione inversa.

L'alta velocità capitalizza il tempo di poche persone a un tasso spropositato, ma paradossalmente lo fa deprezzando il tempo di tutti gli altri. A Bombay solo pochissime persone posseggono un'auto; esse possono raggiungere in una mattinata la capitale d'una provincia e fare questo tragitto una volta la settimana. Due generazioni addietro ci sarebbe voluta un'intera settimana per lo stesso viaggio, ch'era possibile solo una volta l'anno. Adesso spendono una quantità maggiore di tempo per un maggior numero di spostamenti. Ma quelle stesse poche persone, con le loro auto, scompigliano il flusso di traffico delle migliaia di biciclette e di taxi a pedali che circolano nel centro della città a una velocità effettiva tuttora superiore a quella possibile nel centro di Parigi, Londra o New York. La spesa complessiva di tempo assorbita dal trasporto in una società cresce assai più in fretta del risparmio di tempo conseguito da un'esigua minoranza nelle sue veloci escursioni. Il traffico aumenta all'infinito quando diventano disponibili mezzi di trasporto ad alta velocità. Al di là d'una soglia critica, l'output del complesso industriale costituitosi per spostare la gente costa alla società più tempo di quello che fa risparmiare. L'utilità marginale dell'aumento di velocità d'un piccolo numero di persone ha come prezzo la crescente disutilità marginale di questa accelerazione per la grande maggioranza.

Oltre una velocità critica, nessuno puòrisparmiare tempo senza costringere altri a perderlo. Colui che pretende un posto su un veicolo più rapido sostiene di fatto che il proprio tempo vale più di quello del passeggero di un veicolo più lento. Oltre una certa velocità, i passeggeri diventano consumatori del tempo altrui, e per mezzo dei veicoli più veloci si effettua un trasferimento netto di tempo di vita. L'entità di tale trasferimento si misura in quanta di velocità Questa corsa al tempo depreda coloro che rimangono indietro e, poiché questi sono la maggioranza, pone problemi etici d'ordine più generale della lotteria che distribuisce dialisi renali o trapianti di organi.

Oltre una certa velocità i veicoli a motore creano distanze che soltanto loro possono ridurre. Creano distanze per tutti, poi le riducono soltanto per pochi. Una nuova strada aperta nel deserto brasiliano mette la città a portata di vista, ma non di mano, della maggioranza dei contadini poveri. La nuova superstrada ingrandisce Chicago, ma risucchia chi è ben carrozzato lontano dal centro, che degenera in ghetto.

Contrariamente a quanto spesso si afferma, la velocità dell'uomo è rimasta invariata dall'età di Ciro fino a quella del vapore. Con qualunque mezzo venisse portato il messaggio, le notizie non potevano viaggiare a più di centosettanta chilometri al giorno. Né i corrieri inca, né le galee veneziane, né i cavalieri persiani, né i servizi di diligenza istituiti sotto Luigi XIV superarono mai questa barriera. I soldati, gli esploratori, i mercanti, i pellegrini percorrevano al massimo trenta chilometri al giorno. Per dirla con Valéry, Napoleone era ancora costretto al passo lento di Cesare: Napoléon va à la méme lenteur que César. L'imperatore sapeva che on mesure la prospérité publique aux comptes des diligences (“la prosperità pubblica si misura dagli incassi delle diligenze ”), ma poteva fare ben poco per sveltirle. Per andare da Parigi a Tolosa ci volevano ai tempi dei romani circa duecento ore; nel 1740, prima che si aprissero le nuove strade regie, la diligenza ce ne metteva ancora 158.Solo l'Ottocento accelerò l'uomo. Nel 1830 la durata del viaggio era scesa a 110 ore, ma con un nuovo costo: in quello stesso anno si ribaltarono in Francia 4150 diligenze, causando la morte di più di mille persone. Poi la ferrovia provocò un brusco mutamento. Nel 1855 Napoleone III sosteneva di aver toccato i 96 chilometri orari viaggiando in treno da Parigi a Marsiglia. Nel giro di una generazione la distanza media percorsa annualmente dai francesi aumentò di centotrenta volte, e la rete ferroviaria britannica raggiunse la sua massima espansione. I treni per passeggeri toccarono il costo ottimale, calcolato in termini di tempo dedicato al loro impiego e alla loro manutenzione.

Con l'ulteriore accelerazione, il trasporto cominciò a dettar legge al traffico mentre la velocità erigeva una gerarchia di destinazioni. A questo punto, ogni gruppo di destinazioni corrisponde a uno specifico livello di velocità e definisce una certa classe di passeggeri. Ogni circuito di punti terminali degrada quelli che vengono raggiunti a una media oraria inferiore. Coloro che devono spostarsi con forza propria si trovano riclassificati come emarginati e sottosviluppati. Dimmi a che velocità vai e ti dirò chi sei. Se puoi accaparrare per te le tasse che servono ad alimentare il Concorde, sei sicuramente al vertice.

Nelle ultime due generazioni, il veicolo è diventato simbolo della carriera fatta, come la scuola è diventata simbolo del vantaggio di partenza. Ad ogni nuovo livello, la concentrazione di potenza ha bisogno di trovare l'argomento che la razionalizzi. Così, per esempio, la ragione che di solito viene data a giustificazione del denaro pubblico che si spende per far percorrere a un uomo un maggiore chilometraggio annuo in minor tempo è l'ancor più grande investimento che si è già fatto per tenerlo a scuola un maggior numero di anni. Il suo valore presunto come strumento produttivo ad alto contenuto di capitale determina la tariffa alla quale viene trasportato. Oltre alla “ buona istruzione ”, anche altre etichette ideologiche possono aprire l'accesso a lussi pagati da altri. Se è vero che il Pensiero del Presidente Mao ha ora bisogno di aerei a reazione per diffondersi in Cina, questo può voler dire soltanto che per alimentare ciò che è diventata la sua rivoluzione sono necessarie due classi, una delle quali vive nella geografia delle masse, l'altra in quella dei quadri. La soppressione dei livelli di velocità intermedi ha certo reso più efficiente e razionale la concentrazione del potere nella Repubblica popolare, ma sottolinea anche che il tempo dell'uomo che si fa portare dal bufalo ha un valore diverso da quello dell'uomo che si fa trasportare in jet. Inevitabilmente, l'accelerazione concentra i cavalli-vapore sotto le natiche di alcuni pochi e aggrava la crescente penuria di tempo di cui soffre la massa degli altri aggiungendovi la sensazione di stare a rimorchio.

In generale, il fatto che la società industriale distribuisca in maniera ineguale i suoi privilegi viene difeso e dichiarato necessario con un ragionamento a due facce, la cui ipocrisia è messa apertamente in luce dall'esempio dell'accelerazione. Per un verso il privilegio viene accettato come presupposto indispensabile per determinare un miglioramento globale d'una popolazione in aumento, per un altro verso lo si esalta come strumento per elevare il tenore di vita di una minoranza indigente. Come si è visto, alla lunga l'accelerazione del trasporto non fa né l'una né l'altra cosa: genera soltanto una domanda universale di mezzi di trasporto motorizzati e crea distanze prima inimmaginabili tra i vari livelli di privilegio. Oltre un certo punto, più energia significa meno equità.

L'inefficacia dell'accelerazione

Non bisogna perdere di vista il fatto che le velocità di punta accessibili a pochi vengono pagate a un prezzo ben diverso da quello delle velocità elevate accessibili a tutti. La classificazione sociale basata sui livelli di velocità impone un trasferimento netto di potere: i poveri lavorano e pagano per restare indietro. Ma se le classi medie di una società velocistica possono anche far finta di non vedere questa discriminazione, non dovrebbero però ignorare le crescenti disutilità marginali del trasporto e la loro stessa perdita di tempo libero. Le grandi velocità per tutti comportano che ognuno abbia sempre meno tempo per sé man mano che l'intera società dedica allo spostamento della gente una quota sempre più grossa della propria disponibilità di tempo. I veicoli che corrono a una velocità superiore a quella critica non soltanto tendono a imporre ineguaglianza, ma inevitabilmente creano anche un'industria al servizio di se stessa, che nasconde un sistema di locomozione inefficiente sotto una maschera di raffinatezza tecnologica. Io intendo dimostrare che porre un limite alla velocità non è solo necessario per salvaguardare l'equità: è altresì una condizione per accrescere la distanza globale percorsa entro una società diminuendo contemporaneamente il tempo complessivo che il trasporto richiede.

Non si sa molto circa l'impatto dei veicoli sul monte-ore di cui dispongono quotidianamente gli individui e le società [2] . Da studi dedicati ai trasporti si ricavano dati statistici sul costo tempo/chilometro, ovvero sul valore del tempo espresso in dollari o in lunghezza dei tragitti. Ma statistiche di questo tipo non ci dicono niente riguardo ai costi occulti del trasporto: i frammenti di esistenza rosicchiati dal traffico, lo spazio divorato dai veicoli, la moltiplicazione di spostamenti resa necessaria dalla presenza dei veicoli, il tempo che va perso, direttamente o indirettamente, nel prepararsi alla locomozione. Manca inoltre una valutazione di certi costi ancor più reconditi, quali i fitti relativamente più alti che si pagano per risiedere in zone vicine alle correnti di traffico, o le spese in più che si sopportano per difendere queste zone dal rumore, dall'inquinamento e dai rischi per l'incolumità personale che hanno origine nei veicoli. La mancanza di una contabilità del tempo sociale non deve però farci credere che tale conto sia impossibile, e neanche deve impedirci di trarre conclusioni da quel poco che sappiamo.

Dalle limitate informazioni che abbiamo potuto mettere insieme risulta che in ogni parte del mondo, non appena la velocità di certi veicoli ha superato la barriera dei 25 chilometri orari, ha cominciato ad aggravarsi la penuria di tempo legata al traffico. Una volta che l'industria ha raggiunto questa soglia critica di produzione pro capite, il trasporto ha fatto dell'uomo il fantasma che conosciamo: un assente che giorno dopo giorno si sforza di raggiungere una destinazione che gli è inaccessibile con i soli suoi mezzi fisici. Oggi la gente dedica una parte cospicua della propria giornata lavorativa a guadagnarsi il denaro senza il quale non potrebbe neanche recarsi sul lavoro. Il tempo che una società spende per il trasporto aumenta in misura direttamente proporzionale alla velocità dei mezzi pubblici più rapidi. Il Giappone supera ormai gli Stati Uniti in tutti e due i campi. Il tempo di vita si riempie di attività generate dal traffico non appena i veicoli abbattono la barriera che protegge la gente dalla dislocazione e lo spazio dalla distorsione.

Che poi il veicolo che sfreccia sulla superstrada appartenga allo Stato o a un privato non fa grande differenza: comunque ogni ulteriore aumento di velocità significa un'altra frazione di tempo libero che va perduta e un sovrappiù di programmazione che si deve subire. Gli autobus consumano un terzo del carburante che le automobili bruciano per portare una sola persona per un dato tratto; le ferrovie suburbane sono fino a dieci volte più efficienti delle auto. Autobus e treni potrebbero diventare ancora più efficienti e meno inquinanti; là dove appartengono alla collettività e sono amministrati razionalmente, offrono in genere un servizio, quanto a orari e percorsi, che riduce considerevolmente le sperequazioni create dalla gestione privata o incompetente del trasporto. Ma fin quando un qualunque sistema di trasporto s'imporrà alla gente in forza di velocità di punta sottratte a ogni regolamentazione politica, alla collettività non resterà altra scelta fuorché spendere più tempo per pagare a più persone la possibilità d'essere portate da una stazione all'altra, o pagare meno tasse sicché ancor meno persone possano spostarsi in molto meno tempo su distanze molto maggiori di quanto non sia consentito alla maggioranza. L'ordine di grandezza della velocità di punta ammessa in un sistema di trasporto determina la quota del tempo sociale che l'intera collettività spende per il traffico.

Il monopolio radicale dell'industria

Per discutere fruttuosamente quale tetto sarebbe opportuno fissare alla velocità di spostamento, conviene ritornare sulla distinzione già fatta fra transito autoalimentato e trasporto motorizzato, e confrontare il contributo di ciascuno di questi componenti al totale della circolazione, che ho chiamato traffico.

Il termine “ trasporto ” sta a indicare il modo di circolazione basato su un impiego intensivo di capitale, “ transito ” quello fondato su un'alta intensità di lavoro.

Il trasporto è il prodotto di un'industria, i cui clienti sono i passeggeri. E’ una merce industriale, e quindi scarsa per definizione. Il miglioramento del trasporto avviene sempre in condizioni di scarsità, che si accentuano man mano che aumenta la velocità - e quindi il costo - del servizio. Il conflitto che nasce dall'insufficienza di trasporto tende a configurarsi come un gioco a somma zero, dove si vince solo ciò che un altro perde. Al più, tale conflitto ammette quella che è la soluzione ottimale nel “ dilemma del prigioniero ”: collaborando col carceriere, entrambi i prigionieri se la cavano con un minor tempo da passare in cella.

Il transito non è invece il prodotto di un'industria, ma l'azione indipendente dei transienti. Ha per definizione un valore d'uso, ma non necessariamente un valore di scambio. E’ una capacità innata nell'uomo e distribuita in misura più o meno uguale fra tutte le persone sane della stessa età. L'esercizio di tale capacità può subire restrizioni quando si privano certe categorie di persone della facoltà di prendere una strada diretta, o anche perché una popolazione manca di scarpe o di selciati. Il conflitto che nasce in presenza di condizioni di transito insoddisfacenti tende perciò a configurarsi come un gioco a somma non zero, alla fine del quale tutti guadagnano: non solo quelli che ottengono il diritto di attraversare una proprietà precedentemente cintata, ma anche quelli che abitano lungo la strada.

L'insieme del traffico è la somma di due modi di produzione profondamente diversi. Questi si possono rafforzare l'un l'altro armoniosamente solo nella misura in cui gli apporti autonomi vengano protetti dal prevaricare del prodotto industriale.

I danni causati dal traffico odierno sono dovuti al monopolio del trasporto. Il fascino della velocità ha ingannevolmente persuaso il passeggero ad accettare le promesse di un'industria che produce traffico ad alta intensità di capitale. Il passeggero è convinto che siano stati i veicoli ad alta velocità a farlo progredire oltre la limitata autonomia di cui godeva quando si spostava utilizzando la forza propria; ha quindi lasciato che il trasporto programmato prevalesse sull'altro modo di circolazione, il transito ad alta intensità di lavoro. Tra le conseguenze di questa concessione, la distruzione dell'ambiente fisico è quella meno deleteria; i risultati di gran lunga più amari sono le frustrazioni psichiche che si moltiplicano, le disutilità crescenti generate dall'incessante produzione, e l'iniquo trasferimento di potere che si deve subire: fenomeni che manifestano tutti una relazione distorta tra tempo e spazio. Il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali non può più decidere né la forma né la lunghezza.

Ogni società che imponga l'obbligo della velocità schiaccia il transito a vantaggio del trasporto. Ovunque si precludano non solo i privilegi ma anche le necessità elementari a chi non usi mezzi di trasporto ad alta velocità, si determina un accelerazione involontaria dei ritmi personali. L'industria diventa padrona del traffico quando la vita quotidiana viene a dipendere da spostamenti motorizzati.

Questo profondo dominio esercitato dall'industria del trasporto sulla mobilità naturale è una forma di monopolio assai più pesante sia del monopolio commerciale che una Fiat possa instaurare sul mercato dell'automobile, sia del monopolio politico che l'industria automobilistica possa assicurarsi a scapito delle ferrovie e delle autolinee. Considerando la sua natura occulta, il suo profondo radicamento e il suo potere di strutturare la società, io lo definisco un monopolio radicale. Un'industria esercita questo tipo di monopolio quando diventa il mezzo dominante per soddisfare bisogni che in precedenza davano luogo a una risposta personale. Il consumo obbligato di un bene di scambio ad alta potenza (il trasporto motorizzato) riduce la possibilità di godimento di un valore d'uso abbondante (l'innata capacità di transito). Il traffico offre qui l'esempio di una legge economica generale: qualunque prodotto industriale venga consumato in quantitativi pro capite eccedenti una data intensità, esercita una monopolio radicale sulla soddisfazione di un bisogno. Oltre un certo punto, la scolarizzazione obbligatoria distrugge l'ambiente adatto all'apprendimento, i sistemi di assistenza medica inaridiscono le fonti di salute non terapeutiche, il trasporto strozza il traffico.

Si comincia a istituire un monopolio radicale riordinando la società nell'interesse di coloro che consumano i quantitativi maggiori; quindi lo si impone costringendo tutti a consumare almeno la dose minima in cui il bene in questione viene prodotto. Il consumo obbligatorio assumerà un aspetto nei settori industriali dove domina l'informazione, quali l'istruzione o la medicina; e un aspetto diverso in quei settori dove i quantitativi si possono misurare in unità termiche, come la costruzione degli alloggi, l'abbigliamento o il trasporto. La confezione industriale dei valori raggiungerà un'intensità critica in punti diversi a seconda delle diverse produzioni, ma per ogni grande classe di prodotti la soglia sta in un ordine di grandezza che è identificabile per via teorica. Il fatto che sia possibile determinare teoricamente l'arco di velocità entro cui il trasporto instaura un monopolio radicale sul traffico, non significa che si possa determinare per via teorica fino a che punto questo monopolio sia sopportabile da una data società. Il fatto che sia possibile identificare un livello d'istruzione obbligatoria arrivati al quale declina la capacità d'apprendere vedendo e facendo, non permette al teorico di identificare gli specifici limiti pedagogici alla divisione del lavoro sopportabili da una cultura. Solo attraverso il processo giuridico e, soprattutto, politico si potrà pervenire a misure specifiche, anche se provvisorie, con cui la velocità o l'istruzione obbligatoria saranno concretamente sottoposte a limiti in una data società. L'ordine di grandezza dei limiti volontari è una questione politica; l'usurpazione del monopolio radicale può essere messa in evidenza dall'analisi sociale.

Un'industria non impone un monopolio radicale a tutta una società per la semplice scarsità dei beni che produce o perché elimina dal mercato la concorrenza, bensì grazie alla capacità che possiede di creare e plasmare un bisogno che essa soltanto è in grado di soddisfare.

In tutta l'America Latina le scarpe sono rare, e molti non le portano mai: camminano a piedi nudi o calzano il più vasto assortimento di ottimi sandali che esista al mondo, forniti da una varietà di artigiani, e la mancanza di scarpe non ha mai limitato in alcun modo i loro spostamenti. Ma in alcuni paesi latinoamericani la gente è stata costretta a portarle da quando chi va a piedi nudi non è ammesso a scuola, al lavoro e nei servizi pubblici: per gli insegnanti e per i funzionari di partito, non portare scarpe equivale a mostrare indifferenza per il “ progresso ”. Senza che ci sia stato alcun accordo intenzionale tra i promotori dello sviluppo nazionale e l'industria calzaturiera, in questi paesi gli scalzi sono ora esclusi da qualunque posto pubblico.

Come le scarpe, le scuole sono state rare in ogni tempo. Ma non è mai stata l'esigua minoranza privilegiata degli scolari a fare della scuola un impedimento all'acquisto del sapere. Solo quando delle leggi hanno reso le scuole obbligatorie non meno che gratuite, l'educatore ha conquistato il potere di negare possibilità d'istruzione sul lavoro al sottoconsumatore di terapie scolastiche. Solo quando la frequenza scolastica è diventata obbligatoria si è potuto imporre a tutti un ambiente artificiale sempre più complesso che non lascia posto a chi non sia scolarizzato e inserito in un programma.

Gli elementi che contengono in potenza un monopolio radicale appaiono chiarissimi nel caso del traffico. Immaginiamo che cosa accadrebbe se l'industria del trasporto potesse in qualche modo distribuire più adeguatamente il suo prodotto: un utopico sistema di trasporto rapido e gratuito per tutti porterebbe inevitabilmente a un'ulteriore espansione del dominio del traffico sulla vita umana. Come si configurerebbe questa utopia? Il traffico sarebbe organizzato esclusivamente in funzione dei mezzi di trasporto pubblici; verrebbe finanziato mediante un'imposta progressiva, calcolata in base al reddito e in base alla distanza del domicilio del contribuente dalla fermata più vicina e dal posto di lavoro; sarebbe concepito in modo da permettere a chiunque di occupare qualunque posto, secondo il principio che chi prima arriva viene servito prima: nessun diritto di precedenza verrebbe riconosciuto al turista, al medico o all'autorità. In un simile paradiso degli sciocchi tutti i passeggeri sarebbero uguali, ma anche tutti in egual misura consumatori coatti di trasporto. Ogni cittadino di questa Utopia motorizzata sarebbe egualmente privato dell'uso delle gambe ed egualmente impegnato a far proliferare le reti di trasporto.

Certi aspiranti stregoni travestiti da architetti propongono una speciosa soluzione per uscire dal paradosso della velocità. A sentir loro, l'accelerazione impone iniquità, perdite di tempo e programmazioni d'imperio solo perché la gente non abita ancora nei volumi e nelle orbite più confacenti ai veicoli. Secondo questi architetti futuristi bisognerebbe che alloggi e luoghi di lavoro fossero concentrati in grandi torri autosufficienti, collegate tra loro da rotaie per capsule superveloci. Soleri, Doxiadis, Fuller risolverebbero il problema creato dal trasporto ad alta velocità rovesciando il problema stesso sull'intero habitat umano: anziché chiedersi come preservare per gli uomini la superficie della terra, si domandano come creare le riserve indispensabili per la sopravvivenza umana su una terra che è stata ridisegnata in funzione dei prodotti industriali.

La soglia sfuggente

Paradossalmente, l'idea di una velocità massima dei trasporti ottimale per il traffico sembra bizzarra o fanatica al passeggero incallito, mentre al mulattiere appare qualcosa di simile al volo d'un uccello. Una velocità quattro o sei volte superiore a quella di un uomo a piedi è una soglia troppo bassa perché il passeggero abituale possa ritenerla degna di considerazione, e troppo alta per trasmettere il senso di un limite a quei tre quarti dell'umanità che si spostano ancora con forza propria.

Tutti coloro che progettano, finanziano o organizzano l'alloggio, il trasporto o l'istruzione altrui, appartengono alla classe dei passeggeri. La capacità ch'essi rivendicano discende dal valore che i loro committenti attribuiscono all'accelerazione. I sociologi sono capaci di spiegare in termini di informatica gli ingorghi del traffico di Calcutta e di Santiago, e gli ingegneri sono in grado di progettare ragnatele di monorotaie ispirate ad astratte nozioni di flusso del traffico. Questi programmatori credono veramente nella possibilità di risolvere i problemi con criteri industriali, sicché la soluzione reale della congestione del traffico resta fuori della loro capacità di comprensione. La fede nell'efficacia della potenza impedisce loro di scorgere l'efficacia straordinariamente maggiore che si può ottenere astenendosi dall'usarla. Gli ingegneri dei traffico debbono ancora mettere d'accordo in un unico modello simulato la mobilità della gente con quella dei veicoli.

L'ingegnere del trasporto non è in grado neanche di concepire la rinuncia alla velocità e un rallentamento inteso a permettere un flusso di traffico ottimale quanto al rapporto tempo/destinazione. Mai penserebbe di programmare il suo computer ponendo come postulato che in città un veicolo a motore non debba mai superare la velocità d'una bicicletta. L'esperto in sviluppo che dall'alto della sua Land-Rover guarda con compassione il contadino indio che porta al mercato il suo branco di maiali, non è disposto a riconoscere i vantaggi relativi dell'andare a piedi. Tende a ignorare, l'esperto, che quell'uomo ha evitato ad altri dieci abitanti del villaggio di perdere tempo per la strada, mentre l'ingegnere e tutti gli altri membri della sua famiglia, l'uno separatamente dall'altro, dedicano al trasporto una parte rilevante d'ogni loro giornata. Per chi è portato a concepire la mobilità umana in termini di progresso indefinito, non può esistere un tasso di traffico ottimale, ma solo un transitorio consenso su una determinata possibilità tecnica del trasporto.

La maggior parte dei messicani, per non parlare degli indiani e dei cinesi, si trova in una situazione opposta a quella del passeggero incallito. La soglia critica di velocità si situa completamente al di là di ciò che conoscono o si aspettano. Essi appartengono ancora alla categoria degli uomini che si spostano con forza propria. Qualcuno conserva il duraturo ricordo di un'avventura motorizzata, ma i più non sanno cosa sia viaggiare a una velocità vicina o addirittura superiore a quella critica. In due Stati messicani tipici, il Guerrero e il Chiapas, nel 1970 neppure l'uno per cento della popolazione ha percorso, anche una sola volta, più di sedici chilometri in meno di un'ora. I veicoli nei quali si stipano a volte gli abitanti di queste regioni rendono lo spostamento senza dubbio più conveniente, ma non molto più rapido che se si andasse in bicicletta. L'autobus di terza classe non separa il contadino dal suo maiale e li porta entrambi al mercato senza fargli perdere peso, ma questa esperienza di “comfort” motorizzato non dà come risultato una dipendenza da velocità distruttive.

L'ordine di grandezza in cui si colloca la soglia critica di velocità è troppo basso per essere preso sul serio dal passeggero e troppo alto per interessare il contadino. E’ perciò ovvio che non si riesca a vederlo facilmente. La proposta di fissare un limite alla velocità entro quest'ordine di grandezza si scontra con una caparbia opposizione: da un lato infatti porta allo scoperto l'intossicazione degli uomini industrializzati, schiavi di dosi d'energia sempre più forti, dall'altro chiede a chi è ancora sobrio di astenersi da qualcosa che non ha mai neanche assaggiato.

Proporre una controricerca non è solo uno scandalo, ma anche una minaccia. La semplicità mette in pericolo lo specialista, che si ritiene sia il solo a capire perché il treno dei pendolari parta proprio alle 8,15 e alle 8,41 e perché convenga usare una benzina provvista di certi additivi. Che attraverso un processo politico si possa trovare una dimensione naturale, ineludibile e che segni un limite, é un idea che non rientra nel mondo delle verità del passeggero. In lui il rispetto per specialisti che neanche conosce si è tramutato in cieca sottomissione. Se si potesse trovare una soluzione politica per i problemi creati dagli esperti nel campo del traffico, allora si potrebbe forse applicare lo stesso metodo ai problemi dell'istruzione, della medicina, dell'assetto del territorio. Se dei profani attivamente impegnati in un processo politico potessero determinare l'ordine di grandezza delle velocità veicolari ottimali per il traffico, sarebbero allora scosse le fondamenta sulle quali poggia la struttura di ogni società industriale. Proporre questa ricerca è politicamente sovversivo; mette in discussione quel sovrano consenso sulla necessità d'uno sviluppo del trasporto che permette ora ai campioni della proprietà pubblica di definirsi avversari politici dei sostenitori dell'impresa privata.

I gradi della mobilità autoalimentata

Un secolo fa venne inventato il cuscinetto a sfere. Grazie a esso, il coefficiente d'attrito si riduceva a un millesimo. Applicando un cuscinetto a sfere ben calibrato tra due pietre da macina dell'età neolitica, un uomo poteva macinare in un giorno quanto ai suoi antenati richiedeva una settimana di lavoro. Il cuscinetto a sfere rese anche possibile la bicicletta, facendo sì che la ruota - forse l'ultima delle grandi invenzioni del Neolitico - fosse finalmente utilizzabile per la mobilità autoalimentata.

L'uomo, senza l'aiuto di alcuno strumento, è capace di spostarsi con piena efficienza. Per trasportare un grammo del proprio peso per un chilometro in dieci minuti, consuma 0,75 calorie. L'uomo a piedi è una macchina termodinamica più efficiente di qualunque veicolo a motore e della maggioranza degli animali; in rapporto al suo peso, nella locomozione presta più lavoro del topo o del bue, meno lavoro del cavallo o dello storione. Con questo tasso di efficienza l'uomo si è insediato nel mondo e ne ha fatto la storia. Procedendo di questo passo le società contadine e quelle nomadi spendono rispettivamente meno del 5 e dell'8 per cento del loro tempo sociale fuori di casa o dell'accampamento.

L'uomo in bicicletta può andare tre o quattro volte più svelto del pedone, consumando però un quinto dell'energia: per portare un grammo del proprio peso per un chilometro di strada piana brucia soltanto 0,15 calorie. La bicicletta è il perfetto traduttore per accordare l'energia metabolica dell'uomo all'impedenza della locomozione. Munito di questo strumento, l'uomo supera in efficienza non solo qualunque macchina, ma anche tutti gli altri animali. Le invenzioni del cuscinetto a sfere, della ruota a raggi tangenti e del pneumatico, messe assieme, si possono paragonare solo a tre altri eventi della storia del trasporto. L'invenzione della ruota, all'alba della civiltà, tolse i pesi dalle spalle dell'uomo e li depose sulla carriola. L'invenzione, e la contemporanea applicazione, durante il Medioevo europeo, della staffa, della bardatura e del ferro di cavallo aumentò sino a cinque volte l'efficienza termodinamica del cavallo e rivoluzionò l'economia dell'Europa medievale: rese possibili arature frequenti, e quindi la rotazione delle colture agricole; mise a portata di mano del contadino campi più lontani, permettendo così ai proprietari di trasferirsi dai casali di sei famiglie ai villaggi di cento, dove potevano vivere intorno alla chiesa, alla piazza, alla prigione e, più tardi, alla scuola; favorì la coltivazione delle terre settentrionali, spostando il centro del potere nei paesi a clima freddo. La costruzione, a opera dei portoghesi del Quattrocento, delle prime navi alturiere, sotto l'egida del nascente capitalismo europeo, gettò le solide basi di una cultura e di un mercato estesi a tutto il globo.

L'invenzione del cuscinetto a sfere avviò una quarta rivoluzione. Questa differiva sia dalla rivoluzione, sostenuta dalla staffa, che aveva messo il cavaliere in groppa al proprio cavallo, sia da quella, sostenuta dal galeone, che aveva ampliato l'orizzonte dei marinai del re. Il cuscinetto a sfere aprì una vera crisi, un'autentica scelta politica: creò la possibilità di optare tra una maggiore libertà nell'equità e una maggiore velocità. Esso è infatti un ingrediente parimenti fondamentale di due nuovi tipi di locomozione, rispettivamente simboleggiati dalla bicicletta e dall'automobile. La bicicletta elevò l'automobilità dell'uomo a un nuovo ordine, oltre il quale è teoricamente impossibile progredire; al contrario, la capsula individuale di accelerazione fece sì che le società si dedicassero a un rituale di velocità progressivamente paralizzante.

L'impiego esclusivamente rituale di un congegno potenzialmente dotato di utilità non è certo un fatto nuovo. Migliaia di anni fa la ruota liberò dal suo fardello lo schiavo portatore, ma solo sul continente euroasiatico; in Messico la ruota si conosceva, ma non veniva mai adibita al trasporto: serviva esclusivamente alla costruzione di carrozze per delle divinità-giocattolo. Il tabù per le carriole vigente nell'America anteriore a Cortés non è più strano del tabù per le biciclette nel traffico d'oggi.

Non è affatto inevitabile che l'invenzione del cuscinetto a sfere continui a servire per accrescere il consumo energetico, e quindi a produrre penuria di tempo, distruzione di spazio e privilegio di classe. Se il nuovo ordine della mobilità autoalimentata reso accessibile dalla bicicletta venisse protetto dalla svalutazione, dalla paralisi e dai rischi per gli arti del ciclista, sarebbe possibile assicurare a tutti una pari mobilità ottimale e metter fine all'imposizione del massimo di privilegio e di sfruttamento. Sarebbe anche possibile controllare le strutture dell'urbanizzazione una volta che l'organizzazione dello spazio avesse come limite il potere che ha l'uomo di spostarsi in esso.

Le biciclette non sono soltanto termodinamicamente efficienti, costano anche poco. Avendo un salario assai inferiore, il cinese per comprarsi un bicicletta che gli durerà a lungo spende una frazione delle ore di lavoro che un americano dedica all'acquisto di un'auto destinata a invecchiare rapidamente. Il rapporto tra il costo dei servizi pubblici richiesti dal traffico ciclistico e il prezzo di un’infrastruttura adatta alle alte velocità, è proporzionalmente ancora minore della differenza di prezzo tra i veicoli usati nei due sistemi. Nel sistema basato sulla bicicletta, occorrono strade apposite solo in certi punti di traffico denso, e le persone che vivono lontano dalle superfici in piano non sono per questo automaticamente isolate come lo sarebbero se dipendessero dagli automezzi o dai treni. La bicicletta ha ampliato il raggio d'azione dell'uomo senza smistarlo su strade non percorribili a piedi. Dove egli non può inforcare la sua bici, può di solito spingerla.

Inoltre la bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un'auto, se ne possono spostare trenta nello spazio divorato da un'unica vettura. Per portare 40.000 persone al di là di un ponte in un'ora, ci vogliono tre corsie di una determinata larghezza se si usano treni automatizzati, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili, e solo due corsie se le 40.000 persone vanno da un capo all'altro pedalando in bicicletta. Di tutti questi veicoli, soltanto la bicicletta permette realmente alla gente di andare da porta a porta senza camminare. Il ciclista può raggiungere nuove destinazioni di propria scelta senza che il suo strumento crei nuovi posti a lui preclusi.

Le biciclette permettono di spostarsi più velocemente senza assorbire quantità significative di spazio, energia o tempo scarseggianti. Si può impiegare meno tempo a chilometro e tuttavia percorrere più chilometri ogni anno. Si possono godere i vantaggi delle conquiste tecnologiche senza porre indebite ipoteche sopra gli orari, l'energia e lo spazio altrui. Si diventa padroni dei propri movimenti senza impedire quelli dei propri simili. Si tratta d'uno strumento che crea soltanto domande che è in grado di soddisfare. Ogni incremento di velocità dei veicoli a motore determina nuove esigenze di spazio e di tempo: l'uso della bicicletta ha invece in sé i propri limiti. Essa permette alla gente di creare un nuovo rapporto tra il proprio spazio e il proprio tempo, tra il proprio territorio e le pulsazioni del proprio essere, senza distruggere l'equilibrio ereditario. I vantaggi del traffico moderno autoalimentato sono evidenti, e tuttavia vengono ignorati. Che il traffico migliore sia quello più veloce lo si afferma, ma non lo si è mai dimostrato. Prima di chiedere alla gente di pagare, i fautori dell'accelerazione dovrebbero cercare di esibire le prove a sostegno di quanto pretendono.

Sta ormai per concludersi un orrendo combattimento tra biciclette e motori. Nel Vietnam un esercito superindustrializzato ha cercato di domare, senza riuscire a batterlo, un popolo che si muoveva alla velocità della bicicletta. La lezione dovrebbe esser chiara. Gli eserciti ad alto contenuto di energia possono annientare popolazioni - sia quelle che difendono sia quelle contro cui vengono scatenati - ma non servono granché a un popolo che difende se stesso. Resta da vedere se i vietnamiti applicheranno all'economia di pace ciò che hanno imparato in guerra, se vorranno proteggere quei valori che hanno reso possibile la loro vittoria. E’ ahimè probabile che, in nome ,del progresso e di un maggiore impiego di energia, i vincitori finiscano per sconfiggere se stessi distruggendo quella struttura equa, razionale e autonoma cui i bombardieri americani li avevano costretti privandoli di combustibili, di motori e di strade.

Motori dominanti e motori ausiliari

Gli uomini nascono dotati di una mobilità pressappoco uguale. Questa capacità naturale di spostarsi parla a favore di un'uguale libertà per ognuno di andare dovunque voglia. I cittadini di una società fondata sul concetto di equità chiederanno che questo diritto venga tutelato contro qualunque restrizione. Per loro non dovrebbe fare alcuna differenza il mezzo con cui venga impedito l'esercizio della mobilità personale: sia tale mezzo l'incarcerazione, il vincolo a una terra, la revoca di un passaporto, oppure la relegazione in un ambiente che usurpa l'innata capacità di muoversi dell'individuo allo scopo di farne un consumat6re di trasporto. Questo diritto inalienabile alla libertà di movimento non decade sol perché la maggioranza dei nostri contemporanei si è lasciata immobilizzare da cinture di sicurezza ideologiche. La naturale capacità umana di transito è anche l'unico metro per misurare il contributo che il trasporto può dare al traffico: si ha solo tanto trasporto quanto è compatibile col transito. Resta da evidenziare come possiamo distinguere quelle forme di trasporto che menomano la capacità di muoversi da quelle che la potenziano.

Il trasporto può ridurre la circolazione in tre modi: spezzandone il flusso, creando gruppi di destinazioni isolati, e aumentando la perdita di tempo connessa al traffico. Abbiamo già visto che il fattore chiave nella relazione fra trasporto e traffico è la velocità dei veicoli. Abbiamo anche visto come, oltrepassata una certa soglia di velocità, il trasporto arriva a ostruire il traffico nei tre modi che si è detto: blocca la mobilità saturando l’ambiente di veicoli e di strade; trasforma il territorio in una piramide di circuiti reciprocamente inaccessibili, secondo i livelli di accelerazione; espropria il tempo in nome della velocità.

Se al di là di una certa soglia il trasporto ostruisce il traffico, è vero anche il contrario: al di sotto d'un certo livello di velocità, i veicoli a motore possono integrare o migliorare il traffico permettendo di fare cose che non sarebbero possibili a piedi o in bicicletta. Un sistema di trasporto ben organizzato, con velocità di punta non superiori a 40 chilometri orari, avrebbe permesso a Fix di correre dietro a Phileas Fogg intorno al mondo in meno della metà di ottanta giorni. Gli automezzi possono servire a trasportare i malati, gli zoppi, i vecchi e anche' i semplici pigri. Le teleferiche possono portare gente da una parte all'altra delle colline, senza inconvenienti purché non scaccino lo scalatore dalla sua pista. I treni possono ampliare l'ambito dei viaggi, senza ingiustizie purché ognuno abbia non soltanto una eguale possibilità di trasporto ma un eguale tempo libero per avvicinare altri. Il tempo del viaggio deve essere, per quanto possibile, quello del viaggiatore: un sistema di trasporto ottimale per il traffico si può realizzare solo nella misura in cui il trasporto motorizzato sia vincolato a delle velocità che lo facciano restare ausiliario rispetto al transito autonomo.

Porre un limite alla potenza e quindi alla velocità dei motori non basta di per sé a tutelare i più deboli dallo sfruttamento dei ricchi e dei potenti, i quali possono trovare la maniera per vivere e lavorare in posti meglio situati, viaggiare con un seguito su carrozze di lusso, riservare corsie speciali ai medici e ai membri del comitato centrale. Ma in un regime di velocità massima sufficientemente limitata, questo tipo d'ingiustizia si può contenere o persino eliminare con mezzi politici: mediante un controllo popolare sulle tasse, le strade, i veicoli e. la loro regolamentazione all'interno della comunità. In un regime che non ponga limiti alla velocità massima non c'è proprietà pubblica dei mezzi di trasporto né perfezionamento tecnico del loro controllo che basti a eliminare un crescente e disuguale sfruttamento. L'industria del trasporto è essenziale alla produzione ottimale di traffico, ma purché non eserciti il proprio monopolio radicale su quella mobilità personale che è, intrinsecamente e principalmente, un valore che si crea nell'uso.

Sottoattrezzatura, sovrasviluppo e tecnologia matura

Quelle combinazione di trasporto e transito che costituisce il traffico ci ha fornito un esempio di potenza pro capite socialmente ottimale, e della necessità di sottoporre tale potenza a limiti stabiliti per via politica. Ma il traffico sì può anche considerare come uno dei vari modelli della convergenza degli obiettivi di sviluppo su scala mondiale, e come un criterio per distinguere i paesi minoratamente sottoattrezzati da quelli distruttivamente sovraindustrializzati.

Un paese si può definire sottoattrezzato quando non è in grado di dotare ogni cittadino d'una bicicletta o di fornire come supplemento un cambio a cinque velocità a chi voglia trasportare gente pedalando. E’ sottoattrezzato se non può offrire buone strade ciclabili oppure un servizio pubblico gratuito di trasporto motorizzato (ma alla velocità delle biciclette!) per chi intende viaggiare per più di poche ore consecutive. Non esiste alcuna ragione tecnica, economica o ecologica perché in qualsiasi luogo si debba oggi tollerare una simile arretratezza. Sarebbe scandaloso se la mobilità naturale di un popolo fosse costretta suo malgrado a stagnare a un livello pre-bicicletta.

Un paese si può considerare sovraindustrializzato quando la sua vita sociale è dominata dall'industria del trasporto, che determina i privilegi di classe, accentua la penuria di tempo e lega sempre più strettamente la popolazione ai binari ch'essa le traccia.

AI di là della sottoattrezzatura e della sovraindustrializzazione, c'è posto per il mondo dell'efficacia post-industriale, dove il modo di produzione industriale è complementare ad altre forme autonome di produzione. C'è posto, in altre parole, per un mondo di maturità tecnologica. Per quanto riguarda il traffico, è il mondo di coloro che hanno triplicato le dimensioni del loro orizzonte quotidiano salendo su una bicicletta. E anche il mondo caratterizzato da una varietà di motori ausiliari disponibili per i casi in cui la bicicletta non basta più e una spinta suppletiva non limita né l'equità né la libertà. Ed è, ancora, il mondo dei lunghi viaggi: un mondo dove ogni luogo è accessibile a ogni persona, secondo il suo talento e la sua velocità, senza fretta e senza paura, per mezzo di veicoli che coprono le distanze senza far violenza alla terra che l'uomo ha calcato per centinaia di migliaia d'anni.

La sottoattrezzatura tiene la gente in uno stato di frustrazione per l'inefficienza del suo lavoro e incoraggia l'asservimento dell'uomo all'uomo. La sovraindustrializzazione asservisce le persone agli strumenti divenuti oggetto di culto, ingrassa di bit e di watt i gerarchi delle professioni e porta a tradurre l'ineguaglianza di potere in enormi divari di reddito. Impone ai rapporti di produzione di ogni società i medesimi trasferimenti netti di potere, qualunque sia la fede professata dai dirigenti e qualunque danza della pioggia o rito penitenziale essi guidino. La maturità tecnologica permette a una società di seguire una rotta libera da ambedue le forme di asservimento; attenzione però, quella rotta non è segnata sulle carte. La maturità tecnologica permette una varietà di scelte politiche e di culture. Tale varietà diminuisce, ovviamente, quando una comunità lascia che l'industria si sviluppi a scapito della produzione autonoma. Il raziocinio da solo non offre una precisa unità di misura per stabilire il livello di efficacia post-industriale e di maturità tecnologica confacente a questa o a quella società; può solo suggerire in termini dimensionali l'arco entro il quale queste caratteristiche tecnologiche devono essere comprese. Bisogna lasciare alla comunità storica impegnata nei propri processi politici il compito di decidere quando la programmazione, l'alterazione dello spazio, la penuria di tempo e l'ineguaglianza non hanno più alcun senso. Il ragionamento può cogliere nella velocità il fattore critico del traffico; combinato con la sperimentazione, può identificare l'ordine di grandezza entro il quale la velocità veicolare diventa un determinante sociopolitico. Ma non esiste genio, né esperto, né club elitario che possa fissare alla produzione industriale un limite che risulti politicamente attuabile. La necessità di questo limite come alternativa al disastro è il più forte argomento a favore della tecnologia radicale.

Il limite di velocità dei veicoli può diventare operativo solo quando rispecchia l'interesse illuminato della comunità politica. Ma ovviamente tale interesse non può neanche esprimersi in una società dove un 'unica classe monopolizza non soltanto il trasporto, ma le comunicazioni, la medicina, l'istruzione, le armi. Che questo potere lo detengano dei privati proprietari oppure i potenti managers di un industria che giuridicamente appartiene ai lavoratori, non fa differenza. Questo potere deve essere ricuperato e sottoposto all'equilibrato giudizio dell'uomo comune. La riconquista del potere inizia quando ci si rende conto che il supponente burocrate, proprio per la sua cultura da esperto, non è in grado di vedere il modo più ovvio per superare la crisi energetica, come non è stato capace di vedere la soluzione più ovvia della guerra nel Vietnam.

Dal punto in cui ci troviamo, due sono le strade per arrivare alla maturità tecnologica: una passa per la liberazione dall'opulenza, l'altra per la liberazione dalla carenza. Entrambe hanno la stessa meta, cioè una ristrutturazione sociale dello spazio che faccia continuamente sentire a ognuno che il centro del mondo è proprio lì dove egli sta, cammina e vive.

La liberazione dall'opulenza comincia nelle isole pedonali dove ora i ricchi s'incontrano tra loro. Nelle società opulente coloro che fruiscono di alte velocità sono sballottati da un'isola all'altra senz'altra compagnia fuorché quella di altri passeggeri diretti da qualche altra parte. Questa solitudine dell'abbondanza potrebbe cominciare a rompersi se a poco a poco le isole pedonali si. espandessero e la gente riprendesse a usare l'innata facoltà di muoversi intorno al luogo in cui vive. L'ambiente impoverito dell'isola pedonale potrebbe così incarnare l'inizio della ricostruzione sociale, e le persone che oggi si dicono ricche potrebbero sottrarsi alla servitù del trasporto superpotente il giorno in cui arrivassero ad amare l'orizzonte delle loro isole pedonali, ormai giunte al pieno sviluppo, e ad aver paura di allontanarsi troppo spesso dalla propria dimora.

La liberazione dalla carenza inizia dal punto opposto. Spezza le costruzioni del villaggio e della vallata e fa cessare la noia derivante dalla ristrettezza d'orizzonti e dalla soffocante oppressività di un mondo chiuso in se stesso. Estendere il raggio d'azione della vita quotidiana al di là della cerchia delle tradizioni senza disperdersi tra i venti dell'accelerazione, è un obiettivo che qualunque paese povero potrebbe raggiungere nel giro di pochi anni, ma al quale perverranno soltanto quelli che sapranno rifiutare l'offerta di uno sviluppo industriale incontrollato, suffragata dall'ideologia del consumo energetico illimitato.

La liberazione dal monopolio radicale dell'industria del trasporto è possibile solo istituendo un processo politico che demistifichi e detronizzi la velocità e che limiti la spesa pubblica di denaro, tempo e spazio per il traffico al solo perseguimento di un eguale accesso reciproco. Tale processo equivale alla sorveglianza pubblica su un mezzo di produzione, volta a impedire che esso divenga un feticcio per la maggioranza e un fine per i pochi. Il processo politico, d'altro canto, non avrà mai il sostegno d'una vasta maggioranza se non fisserà i propri obiettivi prendendo a riferimento un criterio che sia verificabile pubblicamente e operativamente. Si ottiene un criterio del genere quando si riconosce una soglia socialmente critica della quantità di energia incorporata in una merce. Una società che tolleri la trasgressione di questa soglia storna inevitabilmente le proprie risorse dalla produzione di mezzi che possano essere condivisi equamente e le trasforma in combustibile per una fiamma sacrificale che immola la maggioranza. Una società che invece limiti la velocità massima dei propri veicoli in conformità con tale soglia adempie una condizione necessaria - benché non certo sufficiente - per il perseguimento politico dell'equità.

La liberazione, a buon mercato per i poveri, costerà caro ai ricchi, ma essi ne pagheranno il prezzo allorché l'accelerazione dei loro sistemi di trasporto avrà definitivamente bloccato il traffico. Un'analisi concreta del traffico svela la realtà che soggiace alla crisi energetica: l'impatto sull'ambiente sociale dei quanta di energia confezionati dall'industria tende a provocare degradazione, logorio e asservimento, e questi effetti entrano in gioco prima ancora di quelli che minacciano di inquinare l'ambiente fisico e di estinguere la specie. Il punto cruciale nel quale si possono invertire questi effetti non è, però, oggetto di deduzione ma di decisione.



[1] Parlo del traffico al fine di illustrare il più generale tema dell’impiego socialmente ottimale dell’energia, e mi limito alla locomozione delle persone, comprendendo i loro bagagli personali e il combustibile, i materiali e le attrezzature occorrenti per il veicolo e per la strada. Mi astengo volutamente dal considerare altri due tipi di traffico: quello delle merci e quello dei messaggi. Per entrambi si potrebbe fare un discorso analogo, che però esigerebbe un’argomentazione diversa, sicché la lascio da parte per un’altra occasione. (Questa nota figurava nella prima edizione del presente saggio: In quel periodo stavo preparando due studi che dovevano integrarlo: uno sulla storia del servizio postale, l’altro su equipaggi e carichi nella storia. Rinunciai a tutti e due i progetti per scrivere Nemesi medica.)

[2] Dall'epoca della pubblicazione di questo scritto (1973), sono state fatte e pubblicate molte ricerche sull'argomento; per una bibliografia ragionata si veda J.P. Dupuy e I. Robert, Les chronophages, cit.

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