Carl Schmitt (1888-1985) è considerato uno dei maggiori giuristi e politologi del nostro secolo. Le opere pubblicate negli anni '20 e '30 hanno contribuito in maniera notevole all'ascesa del nazismo. Processato dopo il secondo conflitto mondiale per la sua collaborazione con il regime hitleriano, trascorse un anno in prigione. Rilasciato nel 1947 si rifugiò a Plettenberg, suo paese natio, dove trascorse l'ultima parte della sua vita nella "sicurezza del silenzio" pubblicando, a partire dagli anni '50, saggi e volumi di teoria costituzionale e politica, di storia e scienza politica e di varia umanità. Tra le sue opere in lingua italiana ricordiamo: Le categorie del politico, Bologna 1972; Amleto e Ecuba, Bologna 1983; Ex captivitate salus, Milano 1987.

SGUARDO SUL PERCORSO DEL DIALOGO

Inizio
1. Avvio: l'uomo non è un lupo / né un dio / ma un uomo
2. Un passo avanti: il consenso genera potere / il potere genera consenso
3. Un arresto momentaneo: l'anticamera del potere e il problema dell'accesso al vertice

INTERMEZZO: Bismark e il Marchese Posa

4. Una domanda semplice: il potere è per sé buono / cattivo / o neutro?
5. Un risultato chiaro: il potere è più forte del bene / o della malvagità / o della neutralità dell'uomo
Conclusione

Titolo originale: Geschpräch über die Macht und den Zugang zum Machtaber | Traduzione di José Scanu | Copyright © 1954, Gunther Neske, Pfullingen | Copyright © 1990, il melangolo s.r.l. Genova scarica .pdf da qui

Che cos'è il potere? Come si manifesta oggi nelle nostre società industriali e tecnologicamente avanzate,? Quale ruolo vi svolge l'uomo, che, in ogni caso, lo detenga o meno, vi si trova coinvolto in ogni aspetto della vita, pubblica e quotidiana? Che valore hanno le risposte che la nostra tradizione culturale ha indicato: della filosofia o della teologia, della scienza politica o del senso comune? Carl Schmitt ha costruito intorno a questa teoria di domande una sorta di dialogo filosofico, rifacendosi al modello socratico e giungendo alla fine a una conclusione necessariamente aporetica, critica e non dogmatica e perciò 'positiva' nello stile classico dei grandi e, sia ben chiaro, inimitabili dialoghi di Platone. Un testo chiaro, essenziale, antiretorico, scritto per chi cerca nella parola altrui un'occasione per pensare.

Siete voi fortunati? Noi siamo potenti!
Lord Byron

Personaggi del dialogo: G. Un giovane , C.S. Carl Schmitt. L'intermezzo può essere interpretato da un terzo personaggio.

G. Prima che Lei parli del potere, Le devo domandare qualcosa.

C.S. Prego, mio giovane amico.

G. Lei ritiene di avere potere o di non averne affatto?

C.S. E una domanda più che giusta. Chi parla di potere deve innanzitutto dire in quale situazione di potere si trova.

G. Bene! Allora, Lei ne ha oppure no?

C.S. Io non ho alcun potere. Appartengo alla schiera di coloro che non ne hanno.

G. Mi consenta di dubitarne.

C.S. Perché?

G. Perché probabilmente è prevenuto contro il potere. Rabbia, amarezza, risentimento sono fonti consuete di errori.

C.S. E se appartenessi alla schiera dei detentori del potere?

G. Allora sarebbe probabilmente conquistato dal potere. Anche l'interesse per il proprio potere e per la sua affermazione è naturalmente fonte di errori.

C.S. Ma chi allora ha il diritto di parlare del potere?

G. Dovrebbe dirmelo Lei!

C.S. Consideriamo le cose da un altro punto di vista: di chi contempla e descrive in modo disinteressato il potere.

G. È il punto di vista di un terzo o dell'intelletto astratto?

C.S. Che intelletto e intelletto. Non cominciamo per favore con questi preconcetti. Cerchiamo di osservare almeno una volta in modo corretto una manifestazione storica del potere che tutti viviamo e subiamo; e otterremo un risultato.

1.

G. Parliamo dunque del potere che uomini esercitano su altri uomini. Da dove deriva quel potere smisurato, che, per esempio uomini come Stalin o Roosvelt o chiunque altro lei voglia, hanno esercitato su milioni di altri uomini?

C.S. Nei tempi antichi si sarebbe risposto così: il potere deriva o dalla natura o da dio.

G. Temo che ai nostri giorni il potere non ci appaia più come qualcosa di naturale.

C.S. Lo temo anch'io. Rispetto alla natura ci sentiamo oggi molto superiori. Non la temiamo più e anche se ci aggredisce con malattie e catastrofi, nutriamo la speranza di sconfiggerla in breve tempo. L'uomo, un essere vivente reso debole dalla natura, si è prepotentemente distaccato dal proprio ambiente con l'aiuto della tecnica. Si è fatto signore della natura e di tutti gli esseri che vivono sulla terra. Le barriere tangibili che nel passato la natura gli aveva opposto, come il freddo e il caldo, la fame e la carestia, gli animali selvatici e i pericoli di ogni sorta, queste barriere naturali hanno perso molta della loro forza.

G. È vero. Non abbiamo più motivo di temere gli animali selvatici.

C.S. Oggi le gesta di Ercole ci sembrano imprese molto modeste; e quando un leone o un lupo piomba in una grande città, al massimo crea ostacoli al traffico o intimidisce i bambini. Di fronte alla natura l'uomo si sente così superiore da permettersi il lusso di istituire parchi naturali.

G. E che ne è di dio?

C.S. Per ciò che riguarda dio, l'uomo moderno - e mi riferisco a chi abita nelle grandi città - ha l'impressione che dio sia indietreggiato o che persino lo abbia abbandonato. Quando sente il nome di dio, l'uomo di media cultura cita automaticamente la sentenza di Nietzsche: dio è morto. Altri, non meglio informati, citano un motto del socialista francese Proudhon, che ha precorso Nietzsche di circa 40 anni affermando: Chi parla di dio, bara.

G. Se il potere non deriva né dalla natura né da dio, allora da dove proviene?

C.S. Non ci resta che una soluzione: il potere, che viene esercitato da un uomo su un altro uomo, deriva dall'uomo stesso.

G. Questa è buona. Ma tutti siamo uomini. Lo erano anche Stalin e Roosvelt o chiunque altro si voglia citare in proposito.

C.S. Una soluzione tranquillizzante. Se il potere, che un uomo esercita su un altro, deriva dalla natura, allora o è il potere del genitore sulla sua prole oppure è solo la superiorità dei denti, delle corna, delle zampe, degli artigli, delle ghiandole velenose e di altre armi naturali. Lasciamo pure cadere il discorso sul potere dei genitori. Resta il potere del lupo sull'agnello. Un uomo che ha potere, di fronte ad un uomo che non ne ha, si sente un lupo. Chi non ne ha si sente un agnello, finché non riesce a raggiungere il potere e ad assumere il ruolo del lupo. Ricorda il detto latino: Homo homini lupus.

G. Spaventoso! E quando il potere deriva da dio?

C.S. Allora, colui che lo esercita deve possedere una qualità divina; interpreta il proprio potere come qualcosa di divino e pretende che si veneri se non la sua persona, quanto meno il potere divino che si manifesta in lui. Ricorda il detto latino: Homo homini Deus.

G. Questo supera ogni limite!

C.S. Ma se il potere non deriva né dalla natura né da dio, allora tutto ciò che riguarda il potere e la sua prassi si svolge tra uomini. I detentori del potere di fronte a coloro che non lo hanno, i potenti di fronte agli impotenti sono più semplicemente uomini di fronte a uomini.

G. E proprio così: l'uomo è per l'uomo un uomo.

C.S. Ancora una volta Le ricordo un detto latino: Homo hominis homo.

2.

G. Chiaro: l'uomo è per l'uomo un uomo. Solo in quanto esistono uomini che obbediscono ad un altro uomo, un uomo ottiene il potere. Nel momento in cui non gli obbediscono più, il potere cessa di essere.

C.S. Molto giusto. Ma perché obbediscono? L'obbedienza non è volontaria ma in qualche modo motivata. Perché gli uomini approvano il potere? In alcuni casi per fiducia, in altri per timore, talvolta per speranza o per disperazione. Comunque cercano sempre protezione e si aspettano questa protezione dal potere. Per gli uomini come li abbiamo fin qui considerati il legame tra protezione e obbedienza resta l'unica spiegazione del potere. Chi non ha il potere di proteggere qualcuno, non ha neanche il diritto di pretendere da lui l'obbedienza. E al contrario: chi cerca protezione e l'accetta, non ha il diritto di negare l'obbedienza.

G. Ma se colui che ha il potere impartisse un ordine contrario alla legge? Saremmo allora autorizzati a negargli l'obbedienza?

C.S. Ovviamente sì, ma io non parlo di singoli ordini illegali, bensi di una situazione nella quale sono riuniti in una comunità politica sia i detentori che i sudditi del potere. In sostanza colui che ha il potere può addurre comunque e sempre ragioni assolutamente efficaci per ottenere l'obbedienza ancorché immorali: può rivendicare la concessione di protezione o di una esistenza assicurata, l'educazione o la solidarietà contro altri. In breve: il consenso causa il potere, questo è vero, ma il potere procura anche il consenso e non in tutti i casi tale consenso è insensato o immorale.

G. Che cosa intende dire con ciò?

C.S. Intendo dire che il potere anche là dove viene esercitato con il pieno assenso da parte di tutti, ha un proprio significato, qualcosa di molto simile a un plusvalore; e ciò in quanto vale più della somma di tutti i consensi ottenuti e anche più dei risultati che consegue. Pensi per un momento a come l'uomo nella società attuale fondata sulla divisione del lavoro sia assolutamente prigioniero del contesto sociale! Poco fa abbiamo visto come il potere della natura sia indietreggiato di fronte all'uomo; come ad esso sia subentrato il potere sociale, tanto più forte e prossimo all'uomo. Ciò ha rafforzato i motivi che spingono al consenso e all'obbedienza verso il potere. Un potente moderno ha infinitamente più mezzi per acquisire consenso di quanti ne avessero per esempio Carlo Magno o Barbarossa.

3.

G. Vuol dire forse, che un potente oggi può fare ciò che vuole?

C.S. Al contrario. Voglio solo dire, che il potere è una grandezza indipendente, anche di fronte al consenso che lo ha creato e vorrei ora mostrarle che non sempre è a vantaggio di chi lo detiene. Il potere è una grandezza oggettiva ed autonoma rispetto a qualsivoglia individuo umano, che, di volta in volta, lo detenga nelle proprie mani.

G. Che cosa significa grandezza oggettiva e autonoma?

C.S. Significa qualcosa di molto concreto. Si renda conto che anche il più terribile dei potenti rimane legato ai limiti della natura umana, all'insufficienza della comprensione umana e alla debolezza dell'anima umana. Anche l'uomo più potente deve mangiare e bere, si ammala e invecchia come tutti noi.

G. La scienza moderna offre però mezzi incredibili per superare i limiti della natura umana.

C.S. Senz'altro. Il potente può chiamare i medici più famosi e tutti i premi Nobel; può farsi somministrare più medicinali di chiunque altro. Tuttavia dopo qualche ora di lavoro o di vizi si stanca e si addormenta. Il terribile Caracalla, il violento Gengis Khan giace allora come un bambino e magari russa.

G. Questa è una immagine che ogni potente dovrebbe avere sempre davanti agli occhi.

C.S. Sissignore e così lo hanno volentieri immaginato filosofi e moralisti, pedagoghi e retori. Ma non dilunghiamoci troppo. Basti citare colui che è universalmente considerato il più moderno di tutti i filosofi del puro potere umano, l'inglese Thomas Hobbes, che da questa comune debolezza di ogni essere umano prende le mosse per costruire la sua teoria. Così procede Hobbes: dalla debolezza scaturisce il pericolo, dal pericolo la paura, dalla paura il bisogno di sicurezza e quindi la necessità di un apparato protettivo con una organizzazione più o meno complicata. Ma nonostante tutte le misure di difesa - dice Hobbes - un uomo può ucciderne un altro al momento opportuno. Un uomo debole può trovarsi nella situazione di uccidere un uomo più forte e più potente. In ciò gli uomini sono perfettamente uguali, quando cioè sono minacciati e in pericolo.

G. Una ben misera consolazione.

C.S. Non volevo né consolarla né spaventarla, ma soltanto dare un quadro obiettivo del potere umano. La minaccia fisica è solo il peggio e ciò non accade tutti i giorni. Un altro aspetto dei limiti costitutivi di ogni essere umano emerge quando si considera l'obiettiva autonomia di ogni potere di fronte al potente stesso e l'inesorabile e intrinseca dialettica di potere e di debolezza, nella quale ogni potente incorre.

G. Non cominciamo con la dialettica!

C.S. Ma guardiamo le cose come sono. L'individuo umano, nelle cui mani stanno per un momento le grandi decisioni politiche, può decidere in realtà solo a determinate condizioni e coi mezzi che gli sono dati. Anche il più assoluto fra i monarchi è vincolato a rapporti e informazioni e dipende dai suoi consiglieri. Una quantità di fatti e di notizie, di proposte e di congetture lo assilla giorno dopo giorno, ora dopo ora. Da questo mare fluttuante e infinito di verità e menzogne, di realtà e possibilità anche l'uomo più saggio e potente può attingere al massimo soltanto una goccia.

G. Splendore e miseria del monarca assoluto.

CS. Vediamo innanzitutto l'intrinseca dialettica del potere umano. Chi conferisce con il potente e lo informa, partecipa già al potere, sia come ministro responsabile sia che abbia accesso in modo indiretto all'orecchio del potente. È sufficiente che fornisca impressioni e motivi a chi in quel momento deve decidere. Così ogni potere diretto è sottoposto immediatamente a influenze indirette. Ci sono stati potenti che hanno avvertito questa dipendenza e perciò si sono incattiviti e infuriati. Hanno successivamente cercato di informarsi altrimenti servendosi di consiglieri diversi per ogni situazione.

G. Giustamente di fronte alla corruzione dominante nelle corti.

C.S. Già, ma in tal modo caddero in nuove e spesso grottesche forme di dipendenza. Il califfo Harun al Raschid, travestito da uomo del popolo, andò di notte nelle cantine di Bagdad per cogliere dalla viva voce dei suoi sudditi la verità. Non so che cosa abbia trovato e bevuto da questa dubbia fonte. Federico il Grande divenne in vecchiaia così diffidente da parlare apertamente solo con il suo servitore Fredersdorf. Quest'ultimo divenne così un uomo influente, pur rimanendo fidato e onesto.

G. Altri potenti si affidano ai loro autisti o alle loro amanti.

C.S. In altre parole: davanti ad ogni stanza del potere diretto si forma una sorta di anticamera di influssi indiretti e di controlli, un ingresso verso l'orecchio del potente, un corridoio verso la sua anima. Non esiste nessun potere senza questa anticamera e senza questo corridoio.

G. Ma si possono impedire molti abusi o instaurando vie di accesso al potere razionalmente fondate o ricorrendo a leggi costituzionali.

C.S. Lo si può e lo si deve fare. Ma nessuna istituzione razionalmente fondata, nessuna organizzazione sapientemente articolata può annientare totalmente l'anticamera; nessun impeto d'ira contro la Camarilla o l'anticamera la può rimuovere interamente. Non si può evitare, eludere l'anticamera stessa.

G. Mi sembra che lei parli piuttosto di una scala di servizio.

C.S. Anticamera, scala di servizio, spazio superiore, spazio inferiore: la cosa è chiara e rimane sempre la stessa per la dialettica del potere umano. In ogni caso in questa anticamera del potere ha vissuto e prosperato nel corso della storia umana una società composita e proteiforme. Vi si riuniscono coloro che fruiscono indirettamente del potere. Incontriamo ministri ed ambasciatori in alta uniforme, ma anche confessori e medici personali, aiutanti e segretarie, servitori e mantenute, il vecchio Fredersdorf, consigliere personale di Federico il Grande, accanto alla nobile imperatrice Augusta, Rasputin accanto al cardinale Richelieu, un'eminenza grigia accanto a una Messalina. Talvolta si tratta di uomini abili e saggi, talaltra di manager fantastici o onesti amministratori, talaltra ancora di carrieristi e di imbroglioni. In alcuni casi l'anticamera è la stanza ufficiale di Stato, nella quale si riuniscono per conferire uomini degni, fino a che non sono ricevuti. Spesso è solo un gabinetto privato.

G. Oppure persino una camera di degenza, nella quale alcuni amici siedono al letto di un uomo paralizzato e governano il mondo.

C.S. Quanto più il potere si concentra in un luogo preciso, nelle mani di un singolo o, come si suol dire, di un vertice, tanto più si fa acuto il problema del corridoio e dell'accesso al potere. Tanto più violenta, accanita e muta diviene allora la lotta tra coloro che occupano l'anticamera e controllano il corridoio. Questa lotta nella nebbia degli influssi indiretti è altrettanto inevitabile, come lo è la lotta per il potere vero e proprio. In essa si compie l'intera dialettica del potere.

G. Ma con questo non allude alle distorsioni e alle degenerazioni di un regime personale?

C.S. No, il corridoio del quale stiamo parlando è presente in ogni minima, infinitesimale attività della vita quotidiana, nelle cose grandi come in quelle piccole, dovunque uomini esercitino potere su altri uomini. Laddove si coagula uno spazio di potere, si organizza immediatamente e nella stessa misura anche un'anticamera per questo potere. Ogni aumento del potere diretto inspessisce e concentra anche l'atmosfera degli influssi indiretti.

G. Questo può essere persino un bene se chi detiene il potere non è un uomo giusto. Ma non vedo ancora che cosa sia meglio in questo caso, se il potere diretto o quello indiretto.

C.S. Giudico il potere indiretto come uno stadio necessario nell'inevitabile sviluppo dialettico del potere umano. Lo stesso detentore del potere viene tanto più isolato, quanto più il potere diretto si concentra nella sua persona. Il corridoio lo stacca dal suolo e lo eleva in una sorta di stratosfera in cui può essere raggiunto solo da coloro che lo dominano indirettamente, mentre lui stesso non raggiunge più tutti gli altri uomini, sui quali esercita il potere, ed anch'essi non lo raggiungono più. Nei casi estremi la cosa è evidente in maniera grottesca; ma è anche la conseguenza estrema dell'isolamento in cui viene a trovarsi il potente grazie all'apparato di potere che inevitabilmente lo circonda. La stessa logica interna governa innumerevoli aspetti della vita quotidiana, in un continuo capovolgimento tra potere diretto ed influsso indiretto. Nessun potere umano sfugge a questa dialettica dell'autoaffermazione e dell'autoestraniamento.

INTERMEZZO: BISMARCK E IL MARCHESE POSA

La battaglia per il corridoio, per l'accesso al vertice del potere, è una battaglia particolarmente intensa, attraverso la quale si compie la dialettica interna del potere e dell 'impotenza umani. Dobbiamo avere sempre davanti agli occhi questo stato di cose senza retorica e sentimentalismo, ma anche senza cinismo o nichilismo. Perciò desidero illustrare il problema con due esempi.

Il primo esempio è un documento di storia delle istituzioni: le dimissioni di Bismarck del marzo 1890, che egli riferisce in modo dettagliato nel terzo volume di Pensieri e ricordi. Tutto sommato, nella sua impostazione, nella successione delle idee e nel tono, in ciò che è detto come in ciò che è taciuto, si tratta dell'opera ben ponderata di un grande maestro dell'arte di governo. Fu l'ultimo atto ufficiale di Bismarck e venne delineato e stilizzato con la massima riflessione come un documento redatto per i posteri. Il vecchio ed esperto Cancelliere del Reich, il creatore dell'Impero, si confronta con l'inesperto erede, il giovane Re e Imperatore Guglielmo II. Tra i due esistevano molti contrasti concreti e molte divergenze di opinione su questioni di politica interna ed estera. Ma il nocciolo delle dimissioni, il punto saliente, fu una questione di forma: come può informarsi il cancelliere e come deve informarsi il re e imperatore. Bismarck pretendeva piena libertà, in relazione alle persone con cui
si intratteneva e che riceveva come ospiti in casa sua. Al re e imperatore negava però il diritto di ascoltare il rapporto di un ministro, se egli, Bismarck, Presidente del Consiglio dei Ministri, non era presente. Così il problema di un rapporto diretto al re diviene il motivo centrale delle dimissioni di Bismarck. Con quest'evento inizia la tragedia del Secondo Reich. Il problema del rapporto al re è il punto centrale di ogni monarchia, soprattutto perché è il problema dell'accesso al vertice. Anche il barone von Stein si esaurì nella lotta contro i consigli segreti di gabinetto. Anche un Bismarck dovette naufragare nel vecchio ed eterno problema dell'accesso al vertice.

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