1. Nel ventennio della Convenzione dell’ONU sui diritti dei minori
(1989) si è verificata una profonda modifica nella storia della società
umana. La globalizzazione ha cambiato radicalmente la vita economica,
politica e sociale dei popoli e degli individui, senza che i diritti
umani, ma potrei più semplicemente dire il diritto, ne abbiano seguito
e disciplinato l’evolversi.
Delle “quattro libertà” che il Presidente Roosevelt, già nel suo messaggio
del 6 gennaio 1941 al Congresso americano, ripreso nella Carta atlantica,
indicava come obiettivi della futura politica: «libertà di opinione,
libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura», è
proprio quest’ultima che oggi è più che mai venuta a mancare. Nel
mondo globalizzato non è fiorita la libertà dalla paura, quanto piuttosto
è emersa strisciante la schiavitù nella paura. Strisciante perchè
indissolubilmente legata all’affabulazione che domina la società dell’informazione,
dei media e in generale di tutto il mondo politico e sociale. Jacques
Derrida nei suoi seminari su La Bestia e il Sovrano (Jaca Book,
2009, p.61) ha fatto un esempio illuminante, chiedendosi quale sarebbe
stata l’efficacia dello sventramento delle Torri Gemelle del World
Trade Center dell’11 settembre 2001, se l’immagine non fosse stata
registrata, filmata, indefinitamente riproducibile e compulsivamente
trasmessa in tutti i Paesi del mondo. Il ritorno a Hobbes, dove lo
Stato, il Leviatano, altro non è che una macchina per far paura e
la paura è l’unica cosa che motiva l’obbedienza alla legge, induce
a concludere che «siccome non c’è legge senza sovranità (…) [questa]
chiama, suppone, provoca la paura». Sarà poi il pericoloso filosofo
del diritto tedesco, Carl Schmitt, a precisare che «Protego ergo
obligo è il cogito ergo sum dello Stato». Ma lo Stato attuale
nella sua dimensione politicomediatica ha strumenti per la creazione
di paura e quindi di esigenze di protezione o addirittura di omologazione
con la Gewalt, cioè la violenza, ben maggiori di quanti se
ne potessero immaginare. La cronaca quotidiana, purtroppo, mi esime
da qualsivoglia esemplificazione.
È la protezione da parte dello Statonazione che ha finito dunque per
creare anch’essa la paura e che per proteggere il cittadino è stata
autorizzata a sospendere il diritto e a collocarsi al di sopra della
legge. È allora su una prospettiva contraria che bisogna affrontare
il problema. Più la società è impaurita, più i diritti, di qualsivoglia
natura siano, devono porsi sopra le eccezioni, e quindi anche sopra
le leggi, quando queste li infrangono. Le esigenze di sicurezza proposte
dal Leviatano non possono prevaricare i diritti fondamentali, e qui
intendo quelli genericamente considerati come diritti umani e/o diritti
costituzionali, laddove le Costituzioni, almeno quelle che derivano
dalla «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789,
li prevedano.
È a questo incrocio che l’orizzonte dei diritti si accomuna ai concetti
di libertà e di giustizia, sicché la loro difesa può e deve contrastare,
opporsi e persino negare le ragioni d’eccezione a loro contrarie,
poste dalla pretesa di sicurezza. La tutela del cittadino lo fa altrimenti
schiavo della paura e rinunciatario ai suoi fondamentali diritti.
L’antinomia si fa allora lotta fra la violenza dello Stato e i diritti,
lotta dalle conseguenze incerte, come dimostrò, fin dal 1921, Walter
Benjamin nell’inquietante testo Zur Kritik der Gewalt.
Non è certo un caso che la più sconcertante antinomia fra Stato e
diritti si sia storicamente evidenziata nel terrore rivoluzionario
francese, che è poi e non solo lessicalmente, il fondamento derivativo
del terrorismo attuale, cioè di quella Rivoluzione dalla quale sono
nate le più importanti dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo.
Paura, sicurezza, diritti si confondono allora in un incerto e inquietante
squilibrio, dove la prevaricazione diventa confusa mediazione politica,
giuridica e civile. È così che la paura diventa terrore, e il terrorismo,
senza né Stato né confine, giustifica guerre e violazioni di diritti
civili, quelli che Norberto Bobbio ebbe a definire storicamente di
prima generazione, e ai quali potremmo genericamente riferirci come
diritti individuali fondamentali di libertà. Così ancora di fronte
alla paura del terrorismo, l’orizzonte dei diritti si oscura, fino
a eclissarsi.
2. Sei settimane dopo l’11 settembre 2001, data della distruzione
delle Twin Towers, viene emanato il Patriot Act, il quale,
oltre al resto, dà poteri al governo americano di procedere ad investigazioni
segrete anche nelle case private di cittadini americani e persino
di chiedere i tabulati delle persone che hanno acquistato libri e
chiesto a prestito nelle pubbliche biblioteche libri che possono avere
qualche attinenza con ideologie riferibili al terrorismo.
Intanto, nella guerra al terrorismo, più di seicentocinquanta detenuti
nella base di Guantanamo (ma altri in Iraq, in Afganistan, nell’Isola
Diego Garcia nell’oceano indiano) vivono in condizioni definite «inumane»,
soggetti solo alle Corti marziali, senza diritto alla difesa e senza
alcuna possibilità di appello se non al Presidente degli Stati Uniti
o al Ministro della Difesa.
Il reclutamento dei presunti terroristi, privati di qualunque diritto
anche quello proprio dei prigionieri secondo la Convenzione di Ginevra,
viene giustificato qualificandoli enemy combatants e di conseguenza,
in quanto tali, privi di qualsivoglia diritto,anche quello di non
subire torture d’ogni genere. La magia delle parole ridicolizza a
volte il diritto.
Il principio è che la sicurezza è prioritaria, sicché ogni misura
iniqua o indegna, ancorché solo marginale o teorica è giustificata.
Fra le tanti voci contrarie che si levano vi è quella particolarmente
autorevole di uno dei maggiori filosofi viventi, Ronald Dworkin, che
in un lungo saggio del 6 novembre 2003 dal titolo Terror and the
Attack on Civil Liberties (sulla «New York Review of Books»),
denuncia il Governo Americano per la violazione dei diritti civili.
Né il diritto penale né il diritto di guerra ammettono che ragioni
di sicurezza siano al primo posto e legittimino l’applicazione del
principio di eccezione, di derivazione Schmittiana, per calpestare
i diritti.
3. Ho voluto citare il Patriot Act e Guantanamo perché sono
forse fra gli esempi più clamorosi della sconfitta del diritto di
fronte alla paura. Ma il tema travalica i confini del giurista per
entrare in un ancor più allargato circuito di cultura e di civiltà.
Che l’esigenza di sicurezza possa contrastare con i più elementari
principi di giustizia è argomento, infatti, più volte affrontato dalla
letteratura. Basterà ricordare il capolavoro di Herman Melville: Billy
Budd, già studiato insieme ai Fratelli Karamazov di Fëdor
Dostoevskij, oltre che da Roland Posner, da Daniel J. Solove. La storia
è nota: il bel giovane Billy Budd, balbuziente, si imbarca sulla nave
Bellipotent, dove Claggart, il capo responsabile del mantenimento
dell’ordine, lo prende a malvolere, e giunge ad odiarlo fino a denunciarlo
di tentato ammutinamento di fronte al capitano Vere. Billy Budd, incapace
di difendersi a parole, con un involontario manrovescio colpisce Claggart
che cade, batte la testa e muore. Viene allora organizzata una approssimativa
e segreta Corte marziale sulla nave e Billy Budd viene condannato
a morte. La difesa di Vere è parzialmente veritiera, descrittiva sì,
ma fortemente incompleta a sfavore di Billy Budd, il cui stato d’animo,
la confusione mentale e la grave balbuzie vengono completamente trascurati.
Ma la ragione vera del comportamento del Comandante Vere sta soprattutto
nella considerazione che, essendoci stati su altre navi casi recenti
di ammutinamento, l’uccisione di un comandante non seguita dalla pena
di morte del colpevole avrebbe reso l’equipaggio più insicuro e più
incline ad ammutinarsi. Non è un caso che l’articolo di Solove sulla
«Cardoso Law Review» del 2005 (n. 2442), si intitoli Melville’s
Billy Budd and Security in Times of Crisis. Molti fatti sono nascosti,
le apparenze senza motivazioni ingannano.
La verità è spesso manipolata in nome della sicurezza. È così che
la categoria degli «enemy combatants» ha tolto a costoro, dopo
l’11 settembre, ogni diritto a un giusto processo, ad una normale
istruttoria, all’assistenza di un avvocato, ad un regolare dibattimento.
Purtroppo neppure la Corte suprema, altre volte ben più attenta, nel
caso Hamdi v. Rumsfeld (124, S.Ct. 2633 [2004]), non è riuscita
a garantire quei diritti a chi viene definito enemy combatant,
anche se si trattava di un cittadino americano: il tutto in nome della
sicurezza. Queste le conclusioni dei più autorevoli giuristi americani,
che hanno preso spunto da Billy Budd. Sempre identica è la conclusione:
la violenza del Leviatano per proteggerti dalla paura (questa volta
dei terroristi) colpisce sempre i più deboli.
4. Né è possibile sottacere che l’impero della violenza, e quindi
quello omonimo della paura, è diventato planetario e trascende la
Gestalt del Leviatano. La letteratura apocalittica è ormai
immensa. Mi limiterò qui a citare solamente tre testi recenti che
ne danno un quadro complessivo, abbastanza preciso, ancorché forse
non completo.
Il primo è l’ultima opera di René Girard (Portando Clausewitz all’estremo,
Milano 2008) il quale dimostra come la violenza e le guerre nel mondo
siano portate all’estremo e come l’accelerazione della storia crei
nel genere umano una inconscia, angosciante corsa verso l’apocalisse.
Precisa Girard in conclusione che «il riscaldamento climatico del
pianeta e l’aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente
legati (…) e questa confusione di naturale e artificiale rappresenta
forse il messaggio più forte contenuto nei testi apocalittici». E
ovviamente la globalizzazione ha reso la sorte dei minori più precaria,
poiché – ripeto – la violenza si scarica sempre sui più deboli. Ha
scritto al riguardo Antonio Cassese (Il sogno dei diritti umani,
Milano, 2008) una pagina illuminante: «La disgregazione del tessuto
familiare e sociale e il crescente individualismo lasciano i minori
senza un’importante rete di protezione. Le tensioni etniche e religiose
e i conflitti sociali si sono moltiplicati. Le guerre sono diventate
endemiche, e i primi a soffrirne sono i bambini, o come vittime (ne
sono morti due milioni nell’ultimo decennio e sei milioni sono rimasti
feriti) o come protagonistivittime (negli ultimi anni sono stati arruolati
circa tremila “bambini soldato”)».
Martin Ree, nel suo saggio Our Final Century (London, 2003),
lascia poche speranze di sopravvivenza oltre la fine di questo secolo,
non solo per il pericolo delle armi atomiche, al quale siamo fortunosamente
scampati nel secolo scorso, ma per gli altrettanto gravi pericoli
ai quali ci sottopongono ora le biotecnologie, piuttosto che gli errori,
sempre più frequenti, negli esperimenti scientifici e nelle tecnologie
di vario tipo. E ciò indipendentemente dalle ulteriori osservazioni
di Roland Posner (Catastrophe, Oxford, 2004) sui rischi catastrofici
delle malattie pandemiche, piuttosto che sulle possibili collisioni
astrali e via discorrendo. Con una popolazione mondiale che, secondo
i calcoli di LevyStrauss, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di
individui, difficilmente sfamabili, ma soggetti a rischi di carestia.
La sottovalutazione della portata di questi rischi non riduce certo
la loro costante riproposizione nei media e il conseguente
aumento collettivo dello stato di paura e di angoscia nel mondo.
A questi rischi apocalittici si è ora aggiunta una grave crisi economica
mondiale che nelle sue ricadute sull’economia reale e in particolare
sulla disoccupazione aumenta in tutti i Paesi la sensazione di instabilità
e di minaccia alla sopravvivenza. La crisi ha dimostrato i limiti
di un’ideologia basata sulla ricerca individualistica della ricchezza,
il cui esito è l’autodistruzione del sistema, in una recessione economica
mondiale che colpisce soprattutto i Paesi più poveri. Per di più,
in un sistema nel quale vige la forza, chi è destinato a perdere è
sempre il minore, sprovvisto di forza contrattuale, l’unica alla quale
un’ostinata volgare ideologia continua ad attribuire valore anche
agli effetti risolutivi della crisi.
Senza contare che lo stesso sviluppo economico orientato sempre più
verso il consumismo ha provocato un fenomeno brillantemente descritto
di recente da Robert Reich (Supercapitalismo, 2009). La spinta
all’estremo della concorrenza fra le imprese, al fine di ridurre sempre
più i prezzi dei prodotti per conquistare i consumatori, ha favorito
la riduzione dei costi laddove era più facile e cioè, come sempre,
a svantaggio dei più deboli, vale a dire i lavoratori. Questi si sono
visti via via sottrarre i diritti che avevano faticosamente conquistato:
il diritto al posto di lavoro, la protezione dal lavoro minorile,
dal lavoro nero o dal “lavoro forzato”, le tutele sindacali, le misure
di sicurezza, il diritto alla pensione. Insomma, l’interesse del consumatore
ha avuto la meglio sui diritti del cittadino, e così la concorrenza
ha sconfitto la democrazia e la sicurezza; quella sicurezza che il
termine latino derivava nella securitas dalla contrazione sine
cura, cioè quell’assenza d’inquietudine e di paura, corrispondente
all’ataraxia greca e che faceva scrivere a Seneca «Securitas
autem proprium bonum sapientis est» (De constantia sapientis,
XIII, 5): la sicurezza è propria del saggio!
Quella sicurezza è diventata oggetto di inquietanti antinomie: si
calpestano i diritti per garantire la sicurezza, ma con quelle violazioni
si creano paure e così in un circolo vizioso torna la violenza del
Leviatano.
5. Di fronte alle società impaurite dai pericoli, gli Stati sovrani
aumentano la loro protezione nei confronti delle comunità in generale,
obbligando a volte i singoli a seguire imposizioni che spesso neppure
il più blando paternalismo giuridico potrebbe sopportare o giustificare,
sottraendo loro altre volte i più elementari diritti, quale quello
certamente più conculcato, cioè il diritto alla privacy, o
altre volte imponendo sanzioni o scatenando punizioni ingiuste e palesemente
inique. È questo, dunque, così inquietante e negativo l’orizzonte
dei diritti nell’era moderna?
La risposta è no. La dottrina dei diritti umani, apparsa dal 1945,
in modo dirompente sulla scena internazionale ha soffocato le ambizioni
di distruzione e di violenza del Leviatano, imponendo spesso alla
comunità mondiale l’affermazione di principi di democratizzazione
degli Stati e la condivisione di diritti umani che sopravanzano la
sovranità dei singoli Stati. La Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dalle Nazioni Unite ne è un
compendio, cui sono poi seguite Convenzioni a livello universale,
fra le quali quella, che compie vent’anni, sui diritti dei minori
(1989).
È pur vero che come ci hanno insegnato sia Norberto Bobbio, sia
Michael Ignatieff, i diritti umani, pur nella loro pretesa di universalità,
sono assolutamente storici e neppure assoluti. Alla loro base, tuttavia,
nella diversità delle culture, esiste un minimum senza il quale
le società non potrebbero sopravvivere. È in quel minimum che
si sconfigge il loro supposto relativismo ed è in quel minimum
che oggi Gian Battista Vico riconoscerebbe il senso comune insito
nella facoltà dell’ingenium, propria a tutto il genere umano,
e alla sua naturale propensione alla giustizia. A quella giustizia
alla quale il filosofo napoletano riconduceva altresì la “sapienza
volgare” dei popoli primitivi.
6. Se il sistema dei diritti umani è il primo pilastro che deve
interrompere la violenza del Leviatano, il secondo, altrettanto importante,
e che pure ha una straordinaria valenza storica, è quello dell’applicazione
dei principi giuridici laddove la norma positiva sia inadeguata. Il
problema dei principi e della loro validità negli ordinamenti giuridici
è stato da tempo indagato soprattutto nell’ambito della filosofia
del diritto ed è andato di pari passo con quella straordinaria categoria
giuridica che va sotto il nome di «Rule of Law». Principi e
norme, paritetici fondamenti dei diritti, la cui applicazione deve
essere rispettosa della realtà per evitare che il mondo del diritto
diventi iniquo e ingiusto.
Uno dei maggiori esponenti di questa corrente di pensiero è, attualmente,
Ronald Dworkin, le cui elaborazioni partono da un’antica decisione
della Corte d’Appello di New York del 1889 (22 N.E. 188) relativa
al caso famoso Riggs v. Palmer, nel quale si doveva decidere
se un nipote nominato erede universale dal nonno, che aveva assassinato,
poteva ricevere l’eredità, mancando ogni norma sull’indegnità a succedere.
La Corte negò il diritto all’erede in base a una delle «general,
fundamental maxims of the common law», cioè che nessuno può trarre
profitto da un suo illecito, o acquistare proprietà di un bene attraverso
un crimine.
Si tratta dunque di massime generali, di standard, pur difformi
dalle norme positive, il cui contenuto si ritrova nei principi soprattutto
costituzionali e poi anche morali di comune accettazione, rappresentati
da quel minimum di cui ho sopra parlato. Ed è questo il momento
dell’incontro fra diritto ed etica, a fini di giustizia e lontano
invece dalle equivoche e fuorvianti formule di codici etici o della
responsabilità sociale, o peggio ancora morale, delle imprese.
Il contenuto di questi principi, di questi standard è estremamente
vario e complesso. La letteratura e altre discipline e la scienza
possono aiutare ad elaborare nuovi principi di civiltà. Le recenti
teorie della Law and Litterature possono al riguardo essere
di valido aiuto, come ho sopra indicato con la citazione di Melville.
Il richiamo più rilevante è alla realtà delle fattispecie che esigono
comprensione al di là di astrazioni ideologiche.
Quel che non può stupire è che l’applicazione del principio costituzionale
di solidarietà abbia condotto alla elaborazione da parte di Gustavo
Zagrebelsky del “diritto mite” e della revisione dello stesso concetto
di sovranità, cioè della Gestalt del Leviatano.
Le interpretazioni del caso Serena, riprese nel bellissimo libro
di Franco Occhiogrosso, Manifesto per una giustizia minorile mite,
costituiscono la più efficace elaborazione per ricordare il ventennale
della Convenzione sui diritti dei minori e il notevole passo in avanti
fatto dalla magistratura minorile in Italia.
Non posso, tuttavia, chiudere il mio intervento senza presentare un
ulteriore arricchimento a queste tendenze che servono soprattutto,
ma non solo, a decidere gli hard cases, cioè i casi difficili
dove la norma manca o è lacunosa, senza citare una straordinaria sentenza
della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Roper v. Simmons
del 1° marzo 2005. Si trattava di giudicare sulla pena di morte sentenziata
a carico di Christopher Simmons per un assassinio da lui commesso
quando aveva 17 anni. È noto che l’art. 37 della Convenzione del 1989
stabilisce, tra l’altro, che: «Né la pena capitale né l’imprigionamento
a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretati per reati
commessi da persone di età inferiore ai 18 anni». Ma è altrettanto
noto che gli Stati Uniti e la Somalia sono gli unici due Paesi al
mondo che non hanno sottoscritto la Convenzione. Ebbene, la Corte
Suprema, nella sua magistrale sentenza, concluse che: «E’ corretto
che noi si consideri il peso determinante dell’opinione internazionale
contro la pena di morte nei confronti dei minori, consistente in larga
misura sull’instabilità e labilità emozionale dei minori che può essere
spesso fattore del crimine». E ancora «comunque la nostra costituzione
contiene ampi principi che assicurano la libertà individuale preservando
la dignità umana». E così la pena di morte non fu applicata, perché,
secondo l’estensore, il Giudice Anthony Kennedy, sarebbe stata, tra
l’altro, contro gli «evolving standards of decensy». La decenza
dunque come principio fondamentale del diritto! Il riferimento all’opinione
internazionale nell’interpretare la Costituzione americana è stata
poi oggetto di ampie discussioni, che alla fine hanno confermato il
principio statuito dalla Corte Suprema.
La conclusione è che i diritti umani e i principi di un Rule
of Law (globalizzato), che non manca certo di tradizione nei maggiori
nostri pensatori, a partire da Gian Battista Vico, sono il più civile
orizzonte dei diritti che, invano, il Leviatano per fugare la paura
tende sempre più a conculcare.
In presenza di alluvioni normative e amministrative scoordinate e
sovente contraddittorie da parte dei poteri legislativi ed esecutivi
non solo italiani od europei, ma di tutto il mondo, l’orizzonte del
diritto si può aprire soltanto se i giudici sia interni, sia internazionali,
di qualunque categoria, in tutti i Paesi democratici, continueranno
impegnando la loro dignità e indipendenza, a rivendicare con vigore
i principi delle libertà democratiche e della giustizia, sia con valutazioni
corrette della realtà, sia con riferimento, quando necessario, agli
standard di civiltà per bloccare la violenza e le iniquità
del Leviatano.
Mi piace allora terminare con l’ultima frase scritta da Ronald Dworkin
ne L’impero del diritto (Milano, 1989): «L’atteggiamento del
diritto è costruttivo: il suo scopo, nello spirito interpretativo,
è quello di far prevalere il principio sulla prassi per indicare la
strada migliore verso un futuro migliore, mantenendo una corretta
fedeltà nei confronti del passato. Infine, esso rappresenta un atteggiamento
fraterno, un’espressione del modo in cui pur divisi nei nostri progetti,
interessi e convinzioni le nostre esistenze sono unite in una comunità.
Questo è comunque ciò che è diritto per noi: per gli individui che
vogliamo essere e la comunità in cui vogliamo vivere».
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