La nascita del terzo stato digitale
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Per adesso, noi non riusciamo ancora a capire del tutto come si vive nel ciberspazio: la nostra strada la stiamo facendo a tentoni, incespicando e, in questo, non c’è nulla di sorprendente. Anche le nostre vite nel mondo fisico, il mondo “reale”, sono ben lontane dall’essere perfette, nonostante che in questo caso possiamo disporre di parecchia pratica in più. Le vite umane, le vite reali, sono imperfette per loro natura e anche gli abitanti del ciberspazio sono esseri umani. Il modo in cui viviamo laggiù è un riflesso deformato del modo in cui viviamo nel nostro mondo: noi ci portiamo sempre dietro sia i nostri talenti sia i nostri difetti.

Bruce Sterling, Giro di vite contro gli hacker, Shake, Milano, 1993, p. 12

Tesi centrale di questo saggio è che l’avvento dell’“information age”, delle reti informatiche di Personal Computer, ha favorito la nascita di un nuovo soggetto sociale che abbiamo chiamato borghesia digitale, un terzo stato digitale, trasversalmente diffuso sul pianeta sempre più disgiunto dalla realtà socio-economica in cui opera, anche a causa dei processi di globalizzazione, cui abbiamo fatto riferimento nel precedente capitolo; con Kroker e Weinstein potremmo dire, con altre parole, che questa nuova classe s’identifica in uno “... strato sociale nel contemporaneo pan-capitalismo che ha interessi materiali ed ideologici nel velocizzare ed intensificare il processo di virtualizzazione e innalzare il desiderio di virtualità”.

Riteniamo questo un fenomeno nuovo con notevoli ricadute dal punto di vista sociale, culturale, economico e politico, che richiede un “ripensamento complessivo” dei rapporti di forza all’interno della public sphere3, specie se, come tutto lascia prevedere, la sua crescita sarà inarrestabile, nonostante i rischi che già adesso s’intravedono sul suo cammino.
Il ciberspazio è stato spesso rappresentato come un enorme “cervello collettivo”, eternamente pulsante nella sua insonnia non priva di daydreams, che, senza sosta, immette in circolo una sovrabbondante quantità d’informazione, postmodernamente
disomogenea dal punto di vista della qualità, altrettanto postmodernamente
incommensurabile dal punto di vista quantitativo. Come il cervello umano, esso può essere rappresentato metaforicamente come una metropoli di antica storia, in cui strati-
ficazioni successive convivono, topograficamente e ontologicamente, in un’alternanza di quartieri diversissimi e purtuttavia interconnessi da vie di accesso e di fuga, che finiscono per renderli un corpo unico inestricabile; come nella metropoli, così nel ciberspazio convivono differenti linguaggi ed etnie, regole ed etiche a volte dissonanti, vi è spazio per enclave dove sopravvivono o prosperano usi e costumi antichi e diversi; come la metropoli, così il ciberspazio è luogo di ibridazione culturale, in cui lo speaking the vernacular di Jameson si mischia, si contamina, si rinnova nella continua rimappatura dei confini non solo formali della discorsività.
Il “borghese digitale” è cittadino di questi luoghi virtuali ma al tempo stesso è membro della comunità “reale” cui appartiene, in un inestricabile movimento di vai e vieni tra “mondi” sempre più interconnessi tra loro in una “natura” che non può più prescindere
dalla logica dei database ma che è augurabile continui ad offrirci la commozione di un tramonto o di un bimbo che cresce.
Come tutti i nuovi soggetti sociali è consciamente o inconsciamente “figlio” anche del suo passato, dei soggetti sociali che lo hanno preceduto e che spesso, specie in fasi di passaggio come quella che stiamo vivendo, condividono con lui spazi e percorsi, spesso aspirazioni e sogni verso potenzialità espresse, sognate, abortite e fallaci insite o immanenti al tempo sincopato della postmodernità.

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