Indagine sulla qualità del lavoro in Italia:
preoccupazioni e sogni del lavoratore italiano

Alcuni dati tratti dalla seconda indagine su "La Qualità del lavoro in Italia" 2006 (Fonte)

In Italia il 64% degli occupati è "abbastanza soddisfatto" del proprio lavoro, ed il 24% "molto soddisfatto", solo meno del 3% si ritiene molto insoddisfatto".

Svolge un lavoro in linea con le proprie capacità l' 80% dei lavoratori, ma quasi il 71% ritiene ripetitive le proprie mansioni.

Per il 55% degli occupati la preoccupazione maggiore deriva dalla percezione di non avere prospettive di avanzamento e crescita professionale, più che dalla retribuzione (43%).

Alta la presenza delle donne occupate nella Pubblica Amministrazione (50%), con una discreta presenza anche ai livelli apicali.

"Tempi post-moderni": Cresce sensibilmente l'intensità del lavoro: è del 29% la quota di persone "sotto pressione" (nel 2002 era il 21%), ma non sono le macchine la causa dello stress.

Questi sono alcuni dati tratti dalla seconda indagine su "La Qualità del lavoro in Italia" 2006 (la prima è del 2002), realizzata su rilevazione campionaria rappresentativa di tutti gli occupati (sia dipendenti che autonomi, di ogni settore produttivo, sia pubblico che privato, ogni dimensione di impresa, sia lavoratori standard che atipici). Entriamo nel dettaglio.

Lavorare'più delizia che croce?
Se è vero che lavorare stanca, è tuttavia anche vero che il 64% degli occupati italiani è "abbastanza soddisfatto" del proprio lavoro, a questi si aggiunge un 24% di "molto soddisfatti". Solo meno del 3% si dicono, viceversa molto insoddisfatti.
Il 90% degli intervistati attribuisce un alto livello di soddisfazione al clima dei rapporti interni al posto di lavoro, ma dall'83% di essi viene apprezzata anche l'autonomia di cui si gode nello svolgimento dei propri compiti.
La soddisfazione scende al 76% facendo riferimento alla gestione degli orari e i carichi di lavoro, per calare ulteriormente riguardo alla stabilità del lavoro (1 lavoratore su 5 teme di perdere il proprio lavoro entro 12 mesi).

Variazioni sensibili si osservano tuttavia a seconda dei contesti lavorativi: maggior insoddisfazione nelle imprese di piccole dimensioni (fino a 15 addetti), tra gli autonomi più che tra i dipendenti, tra chi lavora nell'industria e soprattutto in agricoltura e tra quanti operano nel privato rispetto al pubblico. Sono invece più soddisfatte le donne rispetto agli uomini, i più istruiti e coloro che svolgono lavori di livello elevato rispetto agli altri.

Le "carriere ingessate"
Il fattore di maggiore insoddisfazione è rappresentato dalla percezione che hanno i lavoratori rispetto alle loro prospettive di avanzamento e crescita professionale , quasi il 55% ritiene queste scarse prospettive motivo di preoccupazione.
Si nota inoltre un ulteriore peggioramento rispetto alla rilevazione del 2002 quando gli insoddisfatti per le prospettive di sviluppo professionale erano il 42%.
Altre indagini, nel passato, avevano dimostrato come l'Italia sia uno dei paesi in cui la mobilità professionale è assai scarsa:
Dai dati dell'ISFOL emerge che: il 46% degli occupati ha cambiato almeno una volta mestiere o professione durante la propria vita lavorativa, ciò nonostante per oltre il 50% di essi non vi è stato nessun miglioramento in termini di affermazione e carriera professionale da quando ha iniziato a lavorare; oltre il 58% non percepisce miglioramenti nella retribuzione, un po' meglio il versante dell'autonomia e potere decisionale migliorato per il 54% dei soggetti (sempre nell'arco della loro vita lavorativa).

In sintesi, gli aspetti che suscitano maggiore preoccupazione sono, da un lato, le retribuzioni - delle quali è insoddisfatto più del 43% dei lavoratori ' e, dall'altro, ed ancor di più, le possibilità di fare carriera e progredire nel proprio lavoro. La maggiore "flessibilità" del mercato del lavoro non sembra dunque aver aumentato le probabilità di crescita professionale.
Si intensifica il lavoro
Cresce sensibilmente l'intensità del lavoro: la quota di persone "sotto pressione" è salita al 29%, contro il 21% del 2002. A dettare i tempi di lavoro è più la pressione dell'utenza o della clientela (nel 77% dei casi) che quella che proviene dall'uso delle macchine (che regolano i ritmi solo per un quarto degli occupati).
Appare però ancora elevato lo sforzo fisico richiesto agli occupati italiani (rilavante per il 42% degli intervistati) ma soprattutto pesa la pressione psicologica (per il 64% di loro).
Non stupisce dunque che 8 occupati su 100 siano colpiti da malattie professionali, quota che cresce sensibilmente laddove aumentano i ritmi di lavoro (fino all'11%), e dove le pressioni psicologiche, emotive e fisiche si intensificano (superando, come nel caso dei lavori fisicamente gravosi, il 17%).

Competenze all'altezza della situazione
Poco più dell' 1% degli occupati ritiene di non possedere capacità adeguate al lavoro che svolge, il 19% si ritiene sotto-utilizzato, il restante 80% ritiene di svolgere un lavoro in linea con le proprie capacità.
Il fatto che quasi il 71% ritenga ripetitive le proprie mansioni indica una certa probabile***** scarsa qualificazione di molti lavori.

"I sogni nel cassetto"
Il lavoro che svolge non corrisponde alle aspirazioni per oltre il 40% degli occupati e quasi il 56% vi ha definitivamente rinunciato.

Molto buoni i rapporti umani : E' "la fine dei Fantozzi"?
L'84% dei lavoratori dipendenti lavora in stretto contatto con i colleghi e con i superiori diretti, con i quali instaura rapporti soddisfacenti: oltre il 90% ha un buon rapporto con i colleghi, e oltre l'80% con i superiori. Oltre il 77% si sente sul lavoro a proprio agio "come a casa". Qualora dovesse subire una qualche discriminazione il 31% si rivolgerebbe al proprio superiore (il 26% ad un sindacato ed il 3,6% "lascerebbe perdere"). Solo il 9% ritiene critico il clima dei rapporti umani sul lavoro .

Discriminazioni e mobbing : pochi i casi o poca l'attenzione?
Le discriminazioni ed i soprusi negli ambienti di lavoro, sono in Italia meno frequenti che nella maggior parte degli altri paesi Europei. Dai confronti con gli altri paesi europei (inclusi quelli che entreranno tra breve a far parte della UE) l'Italia, insieme alla Bulgaria, è il paese in cui si verificano meno episodi di discriminazioni (mobbing).
Tuttavia chi lavora nel settore pubblico è più esposto a tali rischi che non chi lavora nelle imprese private. Per quanto riguarda i soprusi (ovvero la violazione dei diritti del soggetto in quanto lavoratore) l'indice di diffusione del fenomeno è pari a 21,4% nel settore pubblico rispetto al 10,6% nel privato.
Rari, in Italia, gli episodi di discriminazioni e violenze sessuali; anche in questo caso, tuttavia, si rileva una differenza tra settore pubblico e privato: le discriminazioni di genere sono pari al 6% nel settore privato ed al 10% nel pubblico, le violenze rispettivamente 2,4% e 4,8%.
La domanda che si pone è: sono effettivamente pochi i casi di violenze, soprusi e discriminazioni, o è bassa la soglia della percezione e consapevolezza del lavoratori rispetto a tali fenomeni?
Probabilmente sono valide tutte e due le ipotesi. Tuttavia la prima è maggiormente dimostrabile considerando, se non altro, la configurazione del sistema produttivo italiano : il 38% dei lavoratori dipendenti intervistati lavora in piccole imprese ( fino a 15 addetti). I dati dimostrano come le discriminazioni (si parla qui di quelle "percepite" non di quelle "denunciate") aumentino in stretta correlazione con la dimensione delle imprese. Le discriminazioni per età: 7,4% nelle piccole imprese (fino a 15 addetti) 11,2 nelle grandi (oltre 200 addetti); di genere 4,2 e 9,6; discriminazioni per idee politiche 2,8 e 8,5.

Pubblico e provato a confronto
Dall'indagine emerge che il lavoro in ambito pubblico, certamente non privo di zone d'ombra, consente tuttavia l'inserimento di soggetti altrimenti a rischio di esclusione o marginalità lavorativa e, in particolare, delle donne che qui rappresentano più del 50% degli occupati, contro il 34% rilevato in ambito privato. Ad esse la P.A. offre inoltre maggiori opportunità di collocamento o promozione ai livelli apicali dell'organizzazione (quasi il 27% degli intervistati che operano in enti pubblici dichiara infatti di lavorare sotto la direzione di una donna, mentre nel privato questa percentuale si riduce al 18%).
Tuttavia la Pubblica Amministrazione non offre ' certamente a causa del prolungato blocco delle assunzioni ' opportunità di accesso ai più giovani: mentre infatti l'età media degli occupati, in questo caso, è di 44 anni, nel privato scende a 39 e i soggetti di età compresa tra i 16 ed i 29 rappresentano qui il 20% del totale, mentre nel pubblico costituiscono appena l'11%.
I percorsi di carriera dei dipendenti pubblici sembrano, prevalentemente orizzontali, ma il 56% di essi ha partecipato a corsi di formazione, mentre la quota di occupati nel privato che ha usufruito di analoghe opportunità scende ad appena un quarto del totale.
Sul versante degli orari di lavoro i dipendenti pubblici sono invece privilegiati rispetto a chi lavora nelle aziende private, tra i primi l'insoddisfazione per gli orari è infatti dell'11% , tra i secondi 25%. Ma la situazione è inversa sul versante delle retribuzioni, in questo caso gli insoddisfatti sono il 56,7% degli occupati nel settore pubblico contro il 39,6% di chi lavora in imprese private.

Al lavoro pubblico sembra più spesso associata una maggiore richiesta di impegno mentale e un più elevato stress psicologico che tuttavia sembrano compensati da condizioni di lavoro più stimolanti (per l'84% dei pubblici dipendenti contro poco più del 78% degli occupati in ambito privato) e da maggiori sicurezze occupazionali. Mentre, nel complesso, il lavoro in ambito privato si caratterizza come particolarmente oneroso sul versante dell'impegno orario (con una media di 40 ore di lavoro settimanale contro le 32 del pubblico impiego) e livelli più elevati di fatica fisica, a fronte di un riconoscimento economico e professionale che appare, agli intervistati, più soddisfacente ma anche da migliori relazioni sia con i colleghi che con i superiori.
Non sorprende dunque come, nell'ambito del pubblico, sia più elevato il livello generale di soddisfazione per il lavoro, con particolare riferimento all'articolazione e alla durata degli orari, ai carichi di lavoro, ai compiti affidati e alla stabilità dell'impiego, mentre gli occupati nelle imprese private esprimono livelli più alti di soddisfazione rispetto alle retribuzioni, ai livelli di autonomia concessi, alle opportunità di carriera e al clima dei rapporti sociali.

Meno rosea la situazione dei precari
In relazione alla tipologia di occupazione cambia la percezione della qualità e le caratteristiche del lavoro: tra i lavoratori "a termine" (interinali, a tempo determinato, collaboratori, e così via), ad esempio, prevalgono le considerazioni critiche - gli insoddisfatti costituiscono qui più del 20% - riferite soprattutto al grado di autonomia concesso e ai compiti svolti, ai livelli retributivi e all'attenzione delle imprese per la sicurezza e la salute sul lavoro. Il timore più diffuso è, comprensibilmente, quello di perdere l'impiego: se infatti solo il 10% dei dipendenti stabili e degli autonomi prevede di perdere il lavoro nel arco di 1 anno, questa percentuale sale al 60% tra i lavoratori a termine.
L'instabilità occupazionale rende, inoltre, più difficile la socializzazione e la valorizzazione dei lavoratori: la quota di precari che non si sente apprezzata sul lavoro è quasi doppia rispetto a quella dei dipendenti stabili e più che triplicata rispetto agli autonomi, così come è più elevata la percentuale di occupati a termine che al lavoro "non si sente a proprio agio".
Ulteriore fattore di sofferenza per i precari ' espresso quasi dal 60% di loro - è la mancata coincidenza tra il lavoro svolto e quello desiderato (contro il 42% dei dipendenti stabili e solo un quarto degli autonomi che manifesta identico disagio), ma la maggior parte di loro non rinuncia a realizzare le proprie aspirazioni: gli "scoraggiati" rappresentano infatti solo un quarto dei lavoratori a termine insoddisfatti, contro più del 60% degli altri occupati.

Per quanto riguarda gli aspetti retributivi, sono le effettive disparità di trattamento a determinare l'insoddisfazione espressa dai lavoratori a termine: quasi il 47% dei precari guadagna meno di 900 euro al mese (contro il 15% dei dipendenti stabili con analoga retribuzione e una percentuale di poco superiore di autonomi) mentre il 70% dei dipendenti stabili si attesta su livelli retributivi intermedi ' ossia compresi tra i 900 e i 1.750 euro ' e più del 28% di autonomi guadagna cifre più elevate.
A questo si aggiunge che più del 63% di precari svolge lavori fisicamente pesanti (contro il 59% di dipendenti stabili e il 50% di autonomi), è soggetto a stress psicologico nel 43% dei casi (questa percentuale scende al 38% tra gli indipendenti e al 30% tra i lavoratori dipendenti) e quasi un precario su due è impegnato in compiti che richiedono anche un rilevante impegno mentale (contro il 38% di autonomi e il 30% di dipendenti con analoga condizione).
Il disagio cui sono soggetti i lavoratori a termine è, in parte, compensato dalla possibilità di conciliare il lavoro con altre attività extra-professionali.: quasi l'80% dei precari è soddisfatto della conciliabilità tra lavoro e non lavoro, contro poco più del 77% di dipendenti stabili e il 70% di autonomi.