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LA PAROLA A... GINO RIGOLDI

D.: Perché ti stai battendo contro l'attuale proposta di legge sulla droga? R.: Innanzi tutto per un motivo "culturale". La tossicodipendenza è un fenomeno che esprime disagio nel mondo giovanile: da anni noi stiamo chiedendo una politica per i giovani che abbia come nodi cruciali la formazione di tutti coloro che ne risultano gli educatori e cioè per esempio degli insegnanti, dei genitori, di coloro che gestiscono centri di aggregazione, e così via. È evidente che c'è un basso livello educativo in tutta la scuola e questo è evidenziato anche dall'altissimo livello di mortalità scolastica presente anche nelle superiori dove, a detta del Ministro Mattarella il 40% degli allievi "abbandonano" l'istituzione. Le nuove generazioni hanno bisogno di tutela e di rinforzi e non si può, dopo fiumi di parole dette e scritte per anni in questo senso né proporre una legge come quella attuale sulla droga, né tantomeno aderirvi. Inoltre la legge è strettamente punitiva e si basa sulla convinzione che esista una colpa che al massimo può ottenere una cura, solo per il "buon cuore" del legislatore. Ma un tale sistema non consente di instaurare un rapporto di tipo educativo con gli adolescenti ed i giovani che in qualche misura vi sono implicati perché vengono considerati dei delinquenti. In più non si può pensare che un tale rapporto possa nascere con gli interlocutori diretti del ragazzo tossicomane che avrà a che fare con funzionari della prefettura, giudici e carcerieri chissà di quale estrazione e con quale preparazione. C'è poi un motivo derivante dalla mia condizione di sacerdote e di cattolico in generale che, pur comprendendo posizioni di fermezza e durezza, non può rinunciare a dare al disagio anche una risposta di solidarietà. Uno stato che vuole dimostrarsi autorevole e garante della morale non può poi pensare di essere preso seriamente se propone strade oggettivamente impraticabili. Per fare un esempio: chi e come sarà stabilita la famosa "modica quantità" e come sarà possibile definirla nel modo più inequivocabile possibile senza lasciare al caso o al singolo di decidere con le conseguenze che sono immaginabili? O come si pensa di poter dare un colpo definitivo al commercio se le attenzioni della polizia sono rivolte ai piccoli spacciatori che sono virtualmente inesauribili grazie anche ai nuovi problemi degli immigrati di colore e non che continuano ad arrivare in Italia e che sono disposti a tutto pur di trovare una soluzione accettabile per consentirgli di sopravvivere. A me pare che una legge come quella attualmente in discussione al parlamento non consenta un processo di responsabilizzazione della società civile perché autorizza tutti a considerare i tossicodipendenti dei delinquenti. In più temo che un eventuale suo fallimento, del resto molto probabile, provochi un conseguente disinteresse per tutta la categoria com'è successo per i de-ospedalizzati della legge 180 e gli handicappati.

D.: Quali sono secondo te le reali possibilità di soluzione del problema, se esistono? R.: Secondo me ci sono due aspetti da considerare. Innanzi tutto per chi già è nella situazione problematica, cioè si droga, occorre disporre di una rete di servizi di vario genere, sul tipo di quelli proposti dalla Regione Lombardia per intenderci, con personale specializzato e preparato ad affrontare questo tipo di situazione. Dunque NOT, centri di accoglienza, comunità residenziali e così via. Purtroppo la situazione è tale per cui più ci dirigiamo al su della nostra penisola, più questi servizi sono carenti e del tutto inesistenti. C'è poi un discorso da are per tutti coloro che sono nella normalità. In queste situazioni occorre dare spazio a progetti di prevenzione: non ad interventi, ma a progetti specifici di un certo respiro che tendano in ultima istanza a riqualificare la normalità. Molto si potrebbe fare fin da ora se solo si organizzassero le scuole superiori, le parrocchie, le sedi dei partiti, gli enti e le associazioni culturali, gli amministratori. Fare qualcosa per i giovani è responsabilità di tutti: si dovrebbero perciò individuare obiettivi comuni per mobilitare e per animare la situazione giovanile. Non sempre è necessario ricorrere a grandi ingegnerie o a strategie raffinate: si può avviare un progetto anche sulla base di una sperimentazione, magari solo allo scopo di fare capire che il tossicomane è un adolescente in una situazione di grave disagio. Io credo si debba cominciare a pensare ad un movimento a cascata che porti ad una distribuzione delle responsabilità e dei compiti fra le diverse "parti" coinvolte.

D.: Come fondatore e presidente di Comunità Nuova che da anni gestisce comunità residenziali per minori e per tossicomani, puoi dirci su quali principi si fondano le vostre azioni pedagogiche? R.: Va sottolineato che innanzi tutto si lavora per aumentare la consapevolezza degli utenti su loro stessi avendo fiducia nel fatto che gli uomini sono ricchi di risorse e che dunque esse possono diventare il punto di forza su cui basare il processo educativo. Un secondo elemento di base è individuato nel riconoscimento dell'importanza della relazione con gli altri intesa come fenomeno positivo. Di qui deriva un lavoro fondamentalmente di gruppo in cui gli utenti con gli educatori si impegnano per progettare, cambiare e per trovare spazi di crescita congruenti con le diverse situazioni.

D.: Chi sono gli educatori che si utilizzano a Comunità Nuova? R:: Il personale è principalmente formato da persone che hanno frequentato le scuole regionali per educatori. Attualmente ci sono un paio di laureati (in psicologia e sociologia) che hanno frequentato un corso specifico di formazione per operatori di comunità. Noi in genere non abbiamo mai utilizzato, se non in due casi che consideriamo eccezionali, ex utenti. Anche in queste occasioni comunque abbiamo preferito in un primo momento "congedare" gli utenti e solo dopo una esperienza di lavoro esterna abbiamo accettato di riutilizzarli in comunità con compiti e funzioni da operatore.

D.: Che spazio ha la psicologia nelle tue comunità? R.: Direi che è estremamente importante nella formazione degli operatori che, per l'impostazione che noi abbiamo, devono avere una buona competenza nella gestione delle situazioni di gruppo che sono per noi il dispositivo educativo principale. Forse a questo proposito potrebbe essere utile una formazione anche sullo specifico delle comunità che sono realtà chiuse, una sorta di mondo autarchico, dove nascono fenomeni particolari che occorre essere in grado di analizzare e gestire. Un altro utilizzo della psicologia è in un'ottica più strettamente terapeutica: fino a qualche mese fa tutti i nostri utenti godevano di un servizio di terapia di gruppo a cui, in alcuni casi, si affiancava una terapia individuale.

D.: Secondo te sarebbe utile uno psicologo a tempo pieno in una comunità? R.: Fino a questo momento, anche se abbiamo fatto una breve esperienza in questo senso, non ci siamo posti il problema. Devo dire che organizzativamente noi abbiamo un responsabile di comunità ed un supervisore interni e dunque mi parrebbe che non sia necessario un professionista psicologo "interno".

A cura di M. Sberna