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LA PAROLA AL……. DISAGIO
IL GRUPPO SOCIALE E LE PERSONE DISABILI

DI Gaia Valmarin

Le problematiche dell'handicap investono  la parte più profonda e intima della psiche individuale e collettiva. Il "diverso" fa paura, è terrificante. Ciò è dimostrato storicamente. Confrontarsi con le proprie parti "cattive", deformi, negative, non estetiche, ci fa star male. Non riusciamo a riconoscerle come appartenenti a noi stessi. A questo punto le manovre difensive messe in atto potrebbero esprimersi così: "se non posso dimenticare le parti che sono estranee, non mi resta che allontanarmi da queste, posso emarginare, recingere l'altro che mi fa paura, mi terrorizza. Questi comportamenti di solito ci prendono senza che ce ne rendiamo conto. Agiscono per noi senza lasciarci il tempo di riflettere. Sono dinamiche che nascono dentro al singolo, ma impiegano poco tempo  a diventare fenomeni collettivi. Perfino in un contesto abbastanza semplice come la letteratura per ragazzi possiamo trovare l'elemento  della diversità. Prendiamo Pinocchio, che non era né bambino né burattino  ed era un diverso sia per gli uni che per gli altri; Biancaneve circondata dai nani; Pollicino con il suo "pollice" di altezza; per finire con il più classico degli esempi di diversità: il brutto anatroccolo. La diversità, al termine della storia, rimane sullo sfondo, rappresentando un ostacolo da combattere per raggiungere  il lieto fine. Anche nelle favole quindi è difficile trattare con la "diversità" e si finisce per negarla in qualche modo. Il rapporto con l'handicappato si presenta carico di un alto potenziale educativo e morale, di un'immensa ricchezza spirituale a cui sarebbe veramente disumano impedire di fruttificare distruggendola con l'egoismo. Promuovere il benessere sociale degli handicappati significa contribuire socialmente alla loro integrazione, rendendo possibile una loro partecipazione alla vita pubblica, economica e sociale del paese. L'emarginazione, come abbiamo visto, nasce dalla paura, dai pregiudizi e dalla scarsa conoscenza delle disabilità. Le prime forme di integrazione devono avvenire nella famiglia e nella scuola perché l'individuo si senta sorretto  ed amato, pronto ad intraprendere la propria vita con dignità. Nelle relazioni interpersonali l'approccio fisico  costituisce la prima forma di contatto, di accettazione o di rifiuto: per quanto riguarda l'handicappato la percezione della sua diversità  fisica anticipa il giudizio sulla sua intera personalità. Il disabile è preoccupato di come gli altri  possono valutare la sua minorazione: questa preoccupazione ostacola i sui rapporti sociali. E' indispensabile che egli riesca ad avere una accettabile opinione di sé. D'altra parte le persone sane, come abbiamo detto, per istinto sentono il bisogno di difendersi da tutto ciò che non rientra nella normalità o che si associa alla malattia, al dolore, all'impotenza. La coscienza non ammette sentimenti rifiuto. I comportamenti saranno quindi di tipo ambivalente: a livello esplicito si comunica interesse, partecipazione e voglia di socializzare; a livello inconscio si comunica spesso paura e rifiuto. Il disabile subisce dagli altri comportamenti conflittuali e confusi. Egli, non riuscendo a verificare il proprio valore presso chi lo circonda, sviluppa sentimenti di insicurezza e di diffidenza. Le persone sane tormentate dai sensi di colpa per i sentimenti di rifiuto, assumono atteggiamenti di pietismo che servono per nascondere i comportamenti "cattivi" e rassicurarsi sulla propria bontà. I comportamenti di questo tipo sono deleteri per l'handicappato, ne limitano l'iniziativa e l'autostima. Il pietismo nasce dalla paura dell'handicap. Essa si manifesta anche con il silenzio sulla minorazione e sulle condizioni di dipendenza. Gli amici e i coetanei raramente riescono a parlare per il timore di ferire. E' un tentativo razionale di giustificare il loro silenzio. Invece quando si esprime con semplicità e schiettezza ciò che turba, automaticamente lo si smitizza. Le relazioni migliorano quando si riesce a comprendere l'handicappato come persona, con gli stessi sentimenti, aspirazioni, sensazioni che vivono tutti. L'handicappato in prima persona deve aiutare chi lo circonda in questo cammino, accettando sé stesso e non solo in relazione alla propria minorazione. La consapevolezza delle proprie difficoltà ma anche del proprio valore come individuo degno, sono alla base del rapporto con gli altri. Esiste la convinzione generale che l'handicappato abbia  "qualcosa in meno", sia una persona che abbia poco da dare, che il suo mondo sia limitato e non possa convivere con quello di una persona sana. Quest'ultima pensa che i suoi problemi, i suoi dispiaceri, i suoi desideri, non possano essere compresi da chi è diverso da lei. Un'opinione comune è che una sofferenza totale  come quella di un disabile lo renda perfetto e puro, lontano dai problemi quotidiani, dalla meschinità, dai sentimenti come l'egoismo, la gelosia, l'invidia, considerandola quasi un modello di santità. In entrambi i casi, sia che l'handicappato venga considerato inferiore o superiore, la persona sana non riuscirà ad avere con lui un rapporto naturale. Le amicizie che, nonostante tutto il disabile si farà,  saranno spesso improntate ad una affettuosa assistenza con frase del tipo "due volte la settimana vado a far compagnia al mio amico  in carrozzella", "domenica porto il mio amico  a fare una passeggiata  o a vedere la partita". Difficilmente vi è l'interesse per la persona nella sua totalità, come se egli fosse un bambino  sprovvisto di volontà. Questa mentalità va combattuta in quanto provoca delle difficili  e grosse disparità da colmare.

DROP-OUT: UN'SPERIENZA DI RECUPERO

Di Alberto Raviola

Il fenomeno degli abbandoni e dell'espulsione dei ragazzi dai circuiti  formativi dell'obbligo e post-obbligo sta assumendo in Italia, negli ultimi anni, dimensioni sempre più macroscopiche e preoccupanti. A fronte di un continuo aumento del tasso  di passaggio degli studenti dalla scuola dell'obbligo alla scuola superiore (negli ultimi 10 anni si è passati dall'80 all87%), nel nostro paese ogni anno 300.000 giovani escono dalla scuola e si immettono nel mercato del lavoro  senza fruire di alcun tipo di formazione professionale  e/o scolastica  post-obbligo. Gli abbandoni, le ripetenze e gli insuccessi  contribuiscono alla formazione di una fetta di popolazione giovanile (quantificabile ogni anno in circa 150/170 mila giovani) che ha in sé un desiderio in bilico tra il ritorno e il non ritorno a scuola e che sarebbe propensa a riprendere gli studi  solo in vista del conseguimento di una  qualifica professionale. I Centri di Formazione Professionale  si trovano a fronteggiare un fenomeno - quello degli abbandoni e delle richieste di reinserimento -  che assume una connotazione di emergenza non solo scolastica e formativa ma soprattutto sociale. Infatti le caratteristiche dei ragazzi drop-out, espulsi dai C.F.P. assumono fisionomia peculiare  in quanto l'utenza di tali Centri  è il risultato di una particolare selezione a livello di scuola dell'obbligo  (i C.F.P.  vengono solitamente consigliati  agli studenti con scarso succeso scolastico); spesso il C.F.P. viene offerto come proposta formativa a ciclo  breve per coloro che sono stati espulsi  dai circuiti scolastici a ciclo lungo. Il ragazzo espulso dal C.F.P.  verrebbe quindi escluso dalla formazione professionale  dopo aver subito una precedente estromissione  dai circuiti scolastici più qualificati: in questo senso si può parlare di un "doppio drop-out" per evidenziare la particolarità del fenomeno. Ci troviamo di fronte ad un ragazzo che è stato orientato più sulla base delle sue carenze e difficoltà che  rispetto ad una valutazione delle sue capacità  ed attitudini (orientamento  al negativo); che ha subito un percorso scolastico disagiato, generalmente introiettato come inadeguatezza  personale; che proviene, nella maggior parte dei casi, da un contesto - seppur non di bassa estrazione sociale ed economica -  privo di aspirazioni in merito  ad una formazione culturale e scolastica elevata. La combinazione di questi elementi non può che dare  come effetto una scarsa motivazione al successo scolastico e, cosa ancor più grave, alla riuscita personale. la mancanza di significato per l'impegno scolastico si accompagna spesso ad un cattivo rapporto con  gli insegnanti  e con i compagni, ad un non sempre positivo  orientamento delle energie  in altri ambiti, non per ultimo ad una sostanziale incapacità a gestire un personale progetto di vita. Sulla base dell'analisi sopra delineata, il Centro di Formazione Professionale "A.Provolo"  ha intrapreso nell'anno formativo 1990-91 un intervento sperimentale di recupero  di ragazzi espulsi  dai C.F.P. della città do Verona. L'intervento, attuato in collaborazione con l'Assessorato al Progetto Giovani del Comune di Verona, ha coinvolto 18 ragazzi che avevano  un percorso scolastico pregresso sostanzialmente fallimentare e che, nell'anno formativo 1989-90  erano stati bocciati nel primo corso della Formazione professionale. Gli elementi qualificanti del Progetto, che ha assunto la denominazione "Da drop-out a drop-in" sono stati identificati nel recupero e nell'orientamento positivo della sfera  motivazionale del ragazzo drop-out  da un lato, e nella strutturazione di percorsi individualizzati di transizione al mondo del lavoro dall'altro. La metodologia di intervento, coerentemente con il profilo psicologico dei ragazzi coinvolti, si è strutturata intorno a tre opzioni pedagogiche fondamentali: l'approccio psico-sociale che intende realizzare la riattivazione della sfera motivazionale dei ragazzi  attraverso un lavoro centrato  sul gruppo e sui  processi  che in esso si sviluppano; l'attenzione alla globalità della persona, alla sfera affettivo-relazionale e a quella cognitiva come strettamente connesse  e reciprocamente influenzantesi; il carattere sperimentale  del progetto e, quindi, la ricerca continua - in itinere e fuori da una logica deteministica - di risposte alternative alle tradizionali, allo scopo anche di garantire  la valenza di un "percorso conoscitivo" del problema dell'intero intervento. L'iniziativa ha coinvolto 3 formatori d'area (psico-sociale, scientifica, tecnico-operativa) che nelle 1000 ore di attività sono intervenuti in aula, anche in compresenza, sviluppando un percorso attraverso  un'approccio esperienziale volto all'integrazione di abilità  personali e competenze scientifiche. L'équipe dei formatori è stata inoltre completata  da un coordinatore che ha curato, in particolare, i rapporti con l'organizzazione scolastica ospitante  e con le aziende del territorio,  dove alcuni ragazzi hanno trovato  collocamento, e da uno psicologo che ha supervisionato l'équipe ed ha lavorato con il gruppo delle famiglie. Il progetto, iniziato nel mese di ottobre, si è concluso nel giugno seguente con l'inserimento lavorativo, attraverso il contratto di apprendistato, di 8 ragazzi e con il passaggio al 2° corso  di altri 8; per 2 ragazzi l'intervento è proseguito in forma che si può definire "tirocinio lavorativo prolungato".

Alberto Raviola