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LA FORMAZIONE
IN PSICOLOGIA CLINICA:
UN PROGETTO INNOVATIVO
(2° parte)
SINTESI DELLA 1° PARTE
Nel
numero precedente L. Rispoli, sulla base di un documento elaborato dal Direttivo
Nazionale della Divisione di Psicologia clinica della SIPS e delle posizioni
espresse dall'OMS, traccia un quadro della situazione relativamente ai problemi
che riguardano la formazione in psicologia clinica.
In particolare Rispoli si sofferma
sulla impossibilità oggi di parlare di una psicologia univoca e sulle conseguenti
differenti aree teoriche di riferimento esistenti; un secondo aspetto riguarda
l'esistenza di una casistica articolata rispetto all'utenza, il che rende
necessaria una preparazione approfondita per essere congruente con le diverse
situazioni. Un altro punto delicato della situazione ed estremamente importante
che riguarda gli ambiti di competenze che la psicologia clinica può ricoprire
in situazione di tipo "pubblico" o "privato".
La predittività non
si riferisce naturalmente alla singola esperienza terapeutica, all'incontro
del tutto singolare tra due persone, due realtà, due storie ogni volta diverse
dalle altre. Quello di cui parliamo non è la narrazione storica di un singolo
trattamento psicoterapeutico (che varia di volta in volta), bensì la sua
narrazione scientifica, cioè quell'accadere di fasi, di processi, di andamenti
che sono comuni ad ogni vicenda terapeutica, e che il modello generale è
appunto in grado di ipotizzare, comprendere, rilevare e confermare.
I fenomeni che si "realizzano" nella relazione terapeutica,
pur essendo comuni al particolare paradigma teorico, affondano comunque
(come ad esempio nel caso dei fenomeni di transfert) nella storia passata
dei soggetti, attingendo ad una realtà ampiamente esterna al modello e
alla relazione stessi.
In tal senso la modellistica di aree teoriche è in grado di studiare le
particolari condizioni di contorno di ogni genere di relazione, possedendo
la conoscenza di elementi e processi che costituiscono le variabili in gioco
nella relazione stessa. La teoria generale può dunque affrontare, ancor
più profondamente, fra le altre, anche quelle particolari configurazioni
che si ritrovano in un servizio pubblico, o quelle che caratterizzano la
pratica privata, o le condizioni e le modalità specifiche con le quali,
nella concretezza delle varie realtà, il servizio pubblico o privato sono
realizzati. Da queste analisi è possibile ridiscendere alle specificità
operative, fornendo metodologie di intervento adeguate ed efficaci. Dunque
nessuna teoria clinica è autoreferente, nel senso di definire solo sulla
propria base la problematica trattata. Al contrario ogni teoria generale
ha la possibilità di trovare applicazioni operative ampie poiché può abbracciare
fenomenologie, problematiche, situazioni, sintomatologie presenti in ambiti,
in culture e in condizioni le più differenziate possibili. Naturalmente
la pratica nei diversi ambiti è al contempo conferma e fonte di nuovi inputs
per l'aggiornamento della teoria generale e dunque anche della teoria della
tecnica. Che cosa ha significato, allora, per il panorama scientifico generale,
l'esistere e l'insorgere di modelli teorici differenziati all'interno del
campo della psicologia clinica e della psicologia più in generale? La storia
di quanto è accaduto, se ben analizzata, ce lo chiarisce.
La psicoterapia nasce come intervento
operativo alternativo alla pratica psichiatrica (dei farmaci, dei sintomatici,
delle terapie di shock) fondato principalmente sulla relazione. Si sviluppa
in due grandi ambiti iniziali: da una parte lo studio "dinamico"
del profondo e dell'inconscio, presente soprattutto in Europa e negli sviluppi
della psicoanalisi (poco importa se sia stato ufficialmente usato il termine
"psicoterapia", dal momento che Freud stesso prende l'avvio dalle
esigenze di cura); dall'altra lo studio di tipo "sperimentale"
di fenomeni psicofisiologici e modificabili negli individui (in particolare
in Unione Sovietica e negli Stati Uniti d'America).
Con il tempo, dalla pratica clinica stessa dei terapeuti nascono nuovi modelli
teorici, a partire da modalità di intervento che sconfinano dalle ortodossie
e scoprono fenomeni e aspetti nuovi dei processi psicologici e relazionali.
Tali fenomeni e processi, non essendo spiegabili con la teoria iniziale
di riferimento, producono ipotesi nuove, nuovi modelli, nuove teorie generali
e nuove teorie della tecnica. A volte queste "deviazioni" eterodosse
permettono di scoprire intere zone del funzionamento dell'individuo fino
a quel momento ignorate, e a poco a poco generano una nuova complessa ed
ampia area teorica. Altre volte gli aspetti presi in considerazione non
sono di vasta portata, e portano solo a innovazioni tecniche limitate e
nulla più. Storicamente il processo di nascita di nuovi modelli ha trovato
ostacolo nella generalizzata opposizione del mondo scientifico (e accademico
in particolare), arroccato sul modello medico o su posizioni di retroguardia,
verso la psicologi clinica (compresa la già affermata psicoanalisi o il
diffuso pragmatico comportamento americano).
Un secondo fattore di difficoltà è da ricercare nell'estrema diversità di
questi due filoni iniziali che si sono combattuti aspramente, forse anche
come atteggiamento reattivo al continuo sforzo di penetrare e conquistare
un posto nel mondo scientifico del tempo.
Una terza causa dell'eterogeneità e della frammentazione dei differenti
approcci è da ricercare nell'arroccamento dei modelli più affermati in strette
ortodossie, per cercare di impedire, con politiche di potere e di organizzazione,
il sorgere di altre teorie cliniche sia al loro interno che al loro esterno.
In particolare in Italia (e in altri paesi europei) la "sacralità"
dell'Istituzione Universitaria e dell'Istituzione Pubblica, unita in alcuni
casi ad un tipo di gestione clientelare e baronale che la assimila alle
deviazioni del mondo dei nostri politici, hanno fatto sì che anche l'Università
e di Servizi Pubblici fossero oggetto di mire e di occupazione (quando finalmente
sono riusciti a vincere le resistenze opposte da parte dei modelli di psicoterapia
più affermati, più diffusi, già strutturati in organizzazioni internazionali
di potere e che al potere avevano puntato). Diversamente da quei paesi dove
più facilmente veniva accettata la novità se interessante e valida, e immessa
subito nelle Università private, da noi si è venuta a creare una pesante
mancanza di spazio, di mezzi di ricerca e di modi di trasmissione per quelle
teorie che nascevano successivamente, o che non avevano sufficienti organizzazioni
di potere, o che erano così avanzate da essere strenuamente combattute per
arretrati pregiudizi.
Gran parte delle energie sono allora state spese soprattutto per la "sopravvivenza",
che in questo clima significava esistere nonostante gli altri, badare a
rafforzare la propria teoria, non pensare neppure a confrontarla e incrociarla
con le altre per non correre il rischio di sottoporla ad una critica che
la potesse, seppure in minima parte, indebolire. Se dunque in alcuni paesi
abbiamo assistito all'insorgere di un ecletismo esageratamente pragmatico
e "consumista", perché veniva considerato prioritario lo scopo
di poter offrire all'utenza prodotti multiformi capaci di raggiungere un
buon livello di successo, da noi abbiamo assistito di contro ad un frammentazione
e ad una chiusura che fino a poco tempo fa hanno ostacolato un lavoro di
raccordo e di integrazione delle teorie. Ma, al di là delle condizioni culturali,
sociali e politiche specifiche del paese, il processo di ricerca e di sviluppo
scientifico ha avuto ed ha lo stesso andamento e lo stesso senso: quello
di aver illuminato (nel giovane campo dello studio dei processi psichici
e psicofisici dell'uomo) man mano aspetti e fenomeni sconosciuti, zone della
struttura delle personalità che non erano state prese in considerazione
dagli altri modelli, o che non erano ancora sufficientemente studiate dalla
psicologia sperimentale o dalle ricerche sull'età evolutiva.
Cosicché, a guardare da un ampio
orizzonte l'andamento della storia della psicoterapia, si può immaginare
di vedere questa costellazione di luci che pian piano si accendono e contribuiscono
a rendere gradatamente più chiaro l'intero campo. È altrettanto evidente
che una nuova fase (anche se attraverso modalità differenti nelle diverse
nazioni) è già iniziata: quella della costruzione di un corpus teorico clinico
di base, comune (ma non nel senso di unico né monolitico), attraverso collegamenti
e interazioni tra le grandi aree teoriche. È un processo lento, che costringerà
a mettere da parte ipotesi e presunzioni che non risultassero congruenti
con l'intero campo, o con le ricerche in tutti i settori contigui che hanno
nel frattempo arricchito di nuovi dati le nostre conoscenze.
Sta ora a noi divenire consapevoli di queste linee di tendenza e favorirle
anziché ostacolarle, leggere nel tessuto e nella ricchezza che ogni modello
ha apportato, evitare di dover perdere quei risultati che una determinata
teoria è riuscita a conseguire, cercare di aiutare il moltiplicarsi esponenziale
delle conoscenze che una collaborazione pluralista può produrre. Certo è
che le scoperte (e gli interrogativi che ne derivano) realizzate dai vari
approcci clinici riguardano l'intero campo e non soltanto il singolo approccio:
sono patrimonio di tutti, richiedono la risistemazione di tutte le conoscenze
e di tutti i singoli quadri teorici, perché l'oggetto di studio e di intervento
è il medesimo.
Non possiamo ignorare quanto emerge nelle varie pratiche psicoterapeutiche
né d'altro lato ha senso collezionare e agglomerare meccanicamente varie
tecniche, se non se ne integrano i relativi sistemi teorici di riferimento.
Una risposta positiva al problema viene dal Documento della Divisione Clinica
della SIPs, poiché gli obiettivi che ci sono posti sono espliciti e precisi,
e vanno nel senso di favorire la pluralità degli approcci clinici salvaguardando
i contributi positivi di tutti e mettendo fine alla lotta per la "sopravvivenza".
Il progetto prevede strutture di formazione di ampio respiro a livello nazionale,
suddivise per aree teoriche e formate da tutte le scuole scientificamente
valide operanti in ciascuna area. Questo sistema costringerà inevitabilmente
i singoli istituti ad iniziare un processo di confronto a integrazione a
partire dalla propria area, realizzando l'obiettivo di utilizzare i contributi
validi anche delle scuole meno forti (organizzativamente, politicamente
e numericamente) o meno collegale al sistema universitario.
In questo modo si può inoltre evitare un altro rischio che sembra aleggiare
sulla formazione in psicologia clinica: quello di spezzare trasversalmente
il senso globale del processo di formazione (che è sempre anche ricerca)
in un troncone più teorico appannaggio dell'Università, e in uno limitato
alla terapia personale lasciato alle scuole private, con l'aggiunta magari
di un terzo livello (anch'esso scisso) della pratica e dei tirocini affidato
ai Servizi territoriali.
Avere scuole di formazione a respiro nazionale per aree, permetterebbe invece
di integrare al loro interno tutti e 3 i poli fondamentali dell'attività
(ricerca e pratica) della psicologia clinica. Gli atti e i passi operativi
indispensabili sarebbero facilmente realizzabili:
1) Individuazione di criteri minimi scientifici per il riconoscimento delle Scuole di Formazione (compito della Commissione Ministeriale per l'art.3) sia in termini quantitativi che qualitativi: ricerche effettuate, pubblicazioni, durata dei corsi, metodologie miste seminariali e di attraversamenti terapeutici personali, tirocini, fondamenti teorici solidi, produzione scientifica, supervisioni, docenti e trainers, connessioni nazionali ed internazionali, anzianità della Scuola, ecc.
2) Riconoscimento da parte del Ministero delle Scuole che hanno tali requisiti
3) Nomina da parte del Ministero di un Comitato Scientifico per ogni area teorica, composto dai rappresentanti delle Scuole riconosciute, dell'Università e dei Servizi territoriali
4) Presentazione da parte di ogni Comitato di un progetto di formazione per area con l'indicazione delle sedi da attivare, di corsi, dei docenti, dei tirocini, delle ricerche, ecc. Il corso potrebbe essere costituito d un biennio di base integrato ed unico, e da bienni più specifici relativi alle varie correnti e specializzazioni presenti nell'area, con il coinvolgimento anche degli Istituti più piccoli e meno organizzati utilizzandone docenti, proposizioni scientifiche valide, linee di ricerca tecniche, ecc.
Solo
a partire da un processo al contempo così unitario e ramificato, semplice
e corretto nella sua applicazione, sarà possibile uscire dalle vecchie
logiche che in Italia hanno già afflitto altri campi professionali e scientifici
e che affliggono ancor più pesantemente la psicologia.
Con un tale progetto formativo
si rivoluzionerebbero per la prima volta i rapporti fra pubblico e privato
e si aprirebbe una nuova pagina di collaborazione costruttiva, di dialogo
e confronto per tutta la psicologia clinica.
In questo quadro, le Scuole universitarie di specializzazione in psicologia
clinica e psicoterapia potrebbero ricoprire un compito scientifico (anziché
costruire un percorso parallelo a quello privato): potrebbe essere proprio
il laboratorio dove si studiano, a partire dalle aree teoriche esistenti,
le possibilità di costruire gradatamente un corpus teorico psicologico comune
, integrato più che eclettico, dal momento che nell'Università si ritrovano
mentalità, mezzi e disposizioni adatti ad un discorso scientifico generale,
complessivo ed equidistante dai grandi modelli teorici.
Luciano Rispoli