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LA FORMAZIONE IN AZIENDA:
tutto ciò che avreste sempre voluto sapere
sulla formazione,
ma che nessuno ha mai osato dirvi

Mi chiamo Emanuela Lomuscio e per quattro anni ho avuto l'avventura di occuparmi di formazione presso una Compagnia di Assicurazioni. Credo sia corretto rendere immediatamente edotto il lettore sul significato del termine, nella sua più bieca accezione aziendale. La formazione, altrimenti detta "informazione", significa in realtà "turismo aziendale". Cioè gli utenti, ma soprattutto coloro che non sono convocati, ritengono che si tratti di fare una simpatica vacanza in albergo a 5 stelle situato in una località amena, con buona possibilità di socializzazione con i colleghi e tanto riposo. L'unico neo di questa situazione da favola è rappresentato dalla presenza in aula di un "corpo estraneo": il formatore, che tutti vedono come un collega di Tom Ponzi, inviato lì apposta per giudicare e sapere poi riferire " in alto"  l'elenco preciso dei "buoni" e dei "cattivi", per dirla come Bennato. Ora, è vero che la formazione in azienda è qualcosa di ignoto ai  più, ma ciò che desta preoccupazione, se non orrore, è che  il più delle volte esso rappresenta un enigma anche per agli stessi formatori. Il peggio però deve ancora arrivare: parafrasando l'introduzione di De Sade alla sua nota nonché raccapricciante opera, vi consiglio di andare avanti a leggere se non siete più che sicuri di ciò che state facendo. Il responsabile della formazione in azienda in cui opero, un giorno ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: "La teoria generale della formazione (chissà quale) consiste nell'inculcare nella testa degli utenti ciò che pensa il formatore. Tutto ciò che si discosta da questo non è formazione". Ed anche "Il T-Group fa impazzire la gente". Ed è così che con il suo candore ed un colpo di spugna è riuscito nel giro di pochi secondi a vanificare il lavoro di intere generazioni di illustri pensatori, che con santa pazienza e tanta buona volontà (bisogna ammetterlo), aveva  costruito, decennio dopo decennio, le loro brava ma a quanto pare inutili teorie. Probabilmente se avessero anche solo sospettato quale sarebbe stato il loro miserabile destino, Dewey e compagnia bella avrebbero senz'altro utilizzato meglio il loro tempo invece di sprecarlo con le loro fandonie sulla pedagogia attiva. Da un altro collega ho invece appreso che i nativi della  Germania si chiamano americani: Lewin infatti, pur essendo nato in Germania (allora Prussia) è per l'esimio collega un americano purosangue.
Ma allora perché in biblioteca a Berlino giacciono inedito alcune sue opere scritte fatalmente in tedesco? Come è possibile tutto ciò? Lewin ha forse voluto stupirci con i suoi effetti speciali? Bè, ci è proprio riuscito. Stavolta però è stato battuto dal mio collega, che ha fatto ulteriori fuochi d'artificio attribuendo a Lewin la teoria dei bisogni di Maslow!
Proseguendo in questa fiera dell'orrore mi ritrovo costretta ad aggiungere quanto segue: gli obiettivi di tutti i seminari erano sempre inesorabilmente centrati sul sepere e sapere fare, mentre il saper essere latitava, essendo il fatto considerato un tabù più inquietante di quello dell'incesto. Ciò ha spinto la sottoscritta ad abbruttirsi percorrendo ignobili chine come quella del contrabbando: i seminari aventi come obiettivo prioritario il saper essere dovevano avere limiti assolutamente fuorivianti, , e ciò per il quieto vivere di tutti. Non mi resta che concludere lasciando alla meditazione del lettore la famosa e sempre attuale frase del tubo: "La formazione, questa sconosciuta".

Emanuela Lomuscio