Permesso d'autore - Percorsi per la creazione di cultura libera 1 - 2 - 3 +note

Antonella Beccaria


Il libro

Nel momento in cui appare chiaro che la produzione di cultura non è più solo campo d'azione di case editrici e intellettuali, è interessante iniziare un viaggio tra gruppi informali, associazioni e aziende che fanno della propria professionalità strumenti per veicolare informazioni. Il libro si articola dunque in capitoli-schede dedicati ad alcune di queste realtà sottolineando motivazioni di partenza, risultati raggiunti, consolidamento di network, strumenti software. E lo fa dando voce ai diretti protagonisti di questo genere di produzione culturale. Protagonisti accomunati dalla scelta delle licenze Creative Commons o della nota del copyleft letterario in modo che i contenuti siano quanto meno liberamente riproducibili. A presentarsi, nelle pagine di «Permesso d'Autore», sono Wu Ming, iQuindici, PeaceLink, il progetto F1rst, IlariaAlpi.it, Libera Cultura, Politica Online, Vita.it e l'Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica. Inoltre un bookmark finale traccia una linea di partenza per chi voglia intraprendere un viaggio autonomo nel mondo della libertà di cultura che parla italiano. Infine «Permesso d'Autore» non è un progetto cristallizzato nelle pagine di questo libro, ma intende rappresentare anche un cantiere in costruzione attraverso il sito permessodautore.it. Qui, infatti, altri produttori di cultura libera potranno proseguire ed estendere la linea tracciata dall'autrice.


L'autrice

Antonella Beccaria, giornalista e scrittrice, si occupa in particolare di tematiche legate a standard della Rete, licenze sul software, diritto d'autore e brevetti. Da 1999 cura i contenuti del sito Annozero.org e nel 2004 ha pubblicato con il gruppo NMI-Club.org il libro NoSCOpyright. Storie di malaffare nella società dell'informazione, edito da Stampa Alternativa, contribuendo inoltre ai volumi Software Libero. Pensiero Libero (Stampa Alternativa) e RevolutionOS (Apogeo). Nel 2005 ha pubblicato il libro di racconti Piccoli Delitti <http://books.lulu.com/content/148356>. Per contattarla, si può scrivere all'indirizzo antonella@beccaria.org.


Le aziende americane dell'entertainment dicono di combattere la pirateria, ma lo fanno punendo innocenti come se fossero colpevoli. Una proposta pan-europea per introdurre restrizioni sulla televisione digitale trasformerà gli studios da società che controllano la copia dei film in società che controllano la progettazione di ogni dispositivo per la TV digitale, impongono le dimensioni delle famiglie e si avocano ogni diritto in tema di copyright rivendendolo : e facendolo pagare caro : un pezzo alla volta. Questo non è un business plan, ma un'infezione alle vie urinarie. L'Europa sta andando verso un sistema di trasmissione che bandirà l'open source della televisione digitale, distruggerà gli apparecchi che campeggiano nel vostro soggiorno e vi farà prigionieri dell'audience.

Don't let Hollywood hijack your rights, Cory Doctoro
http://www.openrightsgroup.org/2006/01/29/second-org-networking-evening/

Indice

Introduzione: le idee come bene pubblico 7

Le realtà che diffondono 21

Bookmark 113

Ringraziamenti 139



Introduzione: le idee come bene pubblico


 

Dicembre 2003: una ragazzina statunitense, Brianna Lahara, si attira le ire dell'industria discografica per aver utilizzato le reti peer-to-peer, strumenti che consentono lo scambio diretto di file, attraverso cui scaricava musica. La Recording Industry Association Of America (Riaa), fondata nel 1952 per farsi portavoce delle major discografiche d'oltreoceano, ha deciso di punire lei per "educare" gli altri utenti a non prendere da Internet brani musicali pena, quando andava bene, il pagamento di sanzioni sensazionali. La vicenda si conclude con il versamento da parte dei genitori dell'adolescente di una sanzione di duemila dollari.

Anno 1776: l'allora quattordicenne Wolfang Amadeus Mozart è con il padre a Roma e assiste nella Cappella Sistina all'esecuzione del Miserere di Gregorio Allegri per volere del quale qualsiasi rappresentazione dell'opera è vietata al di fuori del luoghi di culto. «È talmente apprezzato» scrive il padre di Mozart alla moglie «che i musicisti dalla Cappella hanno il divieto, pena la scomunica, di mostrare una parte anche minima di questo brano, di copiarla o di comunicarla a chicchessia»1. Eppure suo figlio, genio della musica, è riuscito a riscriverne a memoria la partitura, ma sull'evento occorre mantenere il più stretto riserbo se si vuole evitare l'intervento punitivo della Chiesa Cattolica.

Oltre due secoli separano queste vicende eppure sembra che il tentativo, da parte di chi detiene il controllo dell'informazione e dei contenuti, non sia poi così differente. Quella che, a partire dagli accordi Trips2, viene definita come proprietà intellettuale, corpus eterogeneo che comprende al suo interno ambiti differenti tra cui il diritto d'autore, i brevetti, disegni e modelli, topologia dei semiconduttori, riassume altresì almeno duecento anni in cui si è cercato di stabilire se le idee e la conoscenza facciano parte dei beni naturali o dei beni pubblici. Chi perora la prima ipotesi è anche chi sta sostenendo la necessità3 di catene e catenacci alla conoscenza. Senza arrivare agli estremi professati da Jack Valenti4, lobbysta hollywoodiano che ha guidato per un quarantennio la Motion Picture Association of America (Mpaa), secondo il quale le industrie culturali statunitensi stanno combattendo la loro «personale guerra al terrorismo», c'è anche qualcun altro che non ha fatto distinzioni tra utenti e malfattori. Un esempio tra i tanti. «Alcune organizzazioni criminali sembrano utilizzare i profitti realizzati con il commercio di prodotti contraffatti per favorire diverse attività, come il traffico d'armi, di droga e la pornografia» e questa cancrena sarebbe imputabile a «Internet [che] rende più facile rubare, produrre e distribuire merci come software, musica, film, libri e videogiochi»5.

Benvenuti nel mondo della lotta alla pirateria, che non fa distinzioni tra Brianna Lahara, i pensionati bretoni che nutrono la propria videoteca personale tramite Kazaa e i fan di Harry Potter, rei di aver realizzato fanzine e feste dedicate al maghetto occhialuto6. A questo mondo, però, se ne contrappone un altro, quello che nega la proprietà delle idee e la vede semmai come una "coproprietà"7, un bene che, una volta divulgato, diventa una "proprietà pubblica". C'è tutta una letteratura classica che si esprime in questo senso e che va da Pierre-Joseph Proudhon, il filosofo francese che nel XIX secolo teorizzò per primo il concetto di anarchia come organizzazione politica e sociale dei cittadini senza l'intermediazione dello stato, all'americano Benjamin R. Tucker per il quale «dalla giustizia e dalla necessità sociale della proprietà delle cose concrete abbiamo erroneamente desunto la giustizia e la necessità sociale della proprietà delle cose astratte : cioè la proprietà nelle idee : con il rischio di annullare in larga e deplorevole misura quella caratteristica fortunata delle cose in circostanze non ipotetiche ma reali : cioè la possibilità incommensurabilmente fruttuosa, per un numero qualsiasi di persone, di usare nello stesso tempo le cose astratte in un qualsiasi numero di luoghi diversi»8.

Il trionfo dell'anarchia e del comunismo dell'immateriale come vorrebbe una facile campagna denigratoria? Assolutamente no. Un secolo abbondante più tardi, infatti, Friedrich von Hayek, premio Nobel per l'economia nel 1976, sosterrà tesi tutt'altro che socialisteggianti. «Nella sfera intellettuale come in quella materiale la concorrenza è il mezzo più efficace per scoprire il modo migliore di raggiungere i fini umani»9 sostiene l'economista aggiungendo che «non può darsi libertà di stampa quando l'editoria sia soggetta a forme di controllo [...] così come libertà di movimento se i mezzi di trasporto sono soggetti a monopolio». Il concetto viene ripreso anche dal fondatore del progetto Creative Commons, Lawrence Lessig, repubblicano, quando nell'esporre la propria impostazione verso la proprietà delle idee riporta il pensiero di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti. «Chi riceve un'idea da me, riceve una conoscenza che non toglie nulla alla mia, così come chi accende la sua candela con la mia si fa luce senza per questo lasciarmi al buio. Che le idee circolino liberamente, una dopo l'altra, in tutto il mondo, perché gli uomini possano a vicenda trarne istruzione morale e miglioramento personale, senza negare un fatto voluto espressamente da una natura benevola, che le ha fatte come il fuoco, libere di diffondersi ovunque senza perdere in nessun punto la propria intensità [...]. Le invenzioni non possono dunque, per loro natura, essere soggette a un regime di proprietà»10.

Limitandosi per il momento puramente al discorso sulle idee indipendentemente dalla forma di tutela a esse applicate, esiste una serie di esempi che testimonia come la loro circolarità sia stata funzionale a evoluzioni successive. Si pensi per esempio all'allestimento della World's Columbian Exposition di Chicago che nel 1893 ha dato vita a un complesso architettonico dalla novità e dall'audacia sconosciute fino a quel momento. Per la sua realizzazione fondamentali sono stati i passi che hanno portato all'Exposition Universelle di Parigi nel 1889 e, in particolare, il progetto di Alexandre-Gustave Eiffel per l'omonima torre. Ben lungi all'assomigliare all'evento francese, la manifestazione americana, che doveva rappresentare potentemente la grandeur a stelle e strisce, ha potuto conquistarsi un proprio posto nella storia dell'architettura proprio partendo dall'esperienza precedente11. Una nota, poi, relativa all'evento di Chicago: Frank Haven Hall, ai tempi direttore dell'Illinois Institution for the Education of the Blind, presentò ufficialmente il suo dispositivo per l'incisione di lastre Braille attraverso cui stampare libri per ciechi. E l'inventore già prima si era reso famoso per aver messo a punto una macchina per scrivere per non vedenti, la Hall Braille Writer. Su entrambe non avanzò mai richiesta di brevetto perché non riteneva moralmente accettabile trarre profitto da strumenti che andavano a persone disabili e questa scelta gli valse, oltre una certa dose di rispetto tra gli inventori dell'epoca, anche la pubblica e calorosa manifestazione di ringraziamento da parte di una giovane visitatrice della World's Columbian Exposition. Helen Keller, infatti, affetta da una malattia congenita agli occhi, abbracciò e baciò Hall davanti alla platea accorsa alla sua conferenza perché, oltre ad aver inventato una macchina che le permetteva di leggere e scrivere, aveva dimostrato di non voler speculare sulle persone con problemi analoghi ai suoi.

Cambiando totalmente l'ambito e passando alla letteratura gotica, un capolavoro come Dracula di Bram Stoker, uscito nel 1897, non sarebbe mai esistito se l'autore non avesse potuto attingere da un lato a una ricca tradizione orale dedicata ai miti vampirici dell'Europa Orientale e dall'altro alle biografie di Vlad Tepes, nobile romeno vissuto nel XV secolo e passato agli annali del brivido come il più sanguinario dei cristiani in lotta contro gli ottomani. Del resto, senza Dracula, sarebbero mancate anche opere di autori successivi come Anne Rice, Stephen King e Kim Newman e pellicole come quelle di Francis Ford Coppola o John Carpenter. Inoltre anche quando gli eredi di Stoker, appellandosi al diritto d'autore loro spettante dopo la morte dello scrittore, avrebbero voluto impedire la realizzazione del film Nosferatu : A Symphony of Horrors girato nel 1922 da F.W. Murnau, si trovò la scappatoia: si ridefinì il personaggio principale cambiando la posizione dei denti tipici del principe degli inferi : non più i canini ma gli incisivi : e l'aristocratico non morto, invece di Dracula, si chiamò come un'altra tipologia di aggressivi trapassati che infestano i Carpazi12, i Nosferatu appunto. A dimostrazione che, se si tenta di imbrigliare un'idea, c'è sempre un modo per tornare a liberarla.

Qualche altro esempio? In un'ottica sicuramente non ortodossa nel riutilizzo delle idee e della conoscenza, si può fare riferimento anche alle leggende metropolitane, storie dell'orrore totalmente inventate che, pur nella loro inverosimiglianza, rispecchiano con efficacia le paure più recondite della società contemporanea e che, con l'avvento di Internet e degli strumenti di comunicazione elettronica, hanno fatto il giro del mondo senza che nessuno ne rivendicasse la paternità. Adattandosi ai contesti geografici in cui andavano a finire13, fin dalla metà del XX secolo hanno ispirato alcune delle storie rappresentate per esempio dal telefilm cult Ai Confini della Realtà14. E sempre sulla stessa linea di ragionamento, si possono citare ancora Sir Arthur Conan Doyle e il suo Sherlock Holmes, padre spirituale degli investigatori che popolano la letteratura poliziesca del Vecchio Continente e, in particolare, francese e italiana. Va aggiunto che gli autori europei che volessero riprendere il più celebre dei detective lo possono fare senza alcuna conseguenza legale dal 31 dicembre 2000: a quella data, infatti, sono scaduti i settant'anni dalla morte di Conan Doyle, per cui le sue opere sono passate al pubblico dominio e diversi scrittori ne hanno approfittato15 per riportare in vita il più noto degli investigatori britannici. Negli Stati Uniti, invece, la situazione è differente16 a causa dell'approvazione nel 1997 del Sony Bono Copyright Extension Act che estende di altri vent'anni i diritti. Il provvedimento, passato per "accontentare" la Walt Disney che temeva di perdere il monopolio sul suo personaggio di Topolino17, ha finito per avere effetti di chiusura su molte altre opere dell'intelletto umano.

Ma ci sono casi in cui la tolleranza delle copie non autorizzate e il riutilizzo delle idee e delle opere creative sono un interessante business. Così interessante da passare sopra a leggi che vieterebbero i due fenomeni. È il caso degli doujinshi18, una variante dei fumetti manga, genere che spopola in Giappone e non solo. Ma una variante particolare perché questi albi attingono a piene mani da personaggi e storie manga originali per proporre versioni rielaborate sia narrativamente che stilisticamente. Va sottolineato che un doujinshi non è tale se risulta essere una copia pedissequa di un fumetto già uscito e la creatività riposta in questo settore è riconosciuta a tal punto da aver dato vita nel solo Giappone a 33 mila associazioni di autori e appassionati, a manifestazioni culturali che ogni anno attirano 450 mila partecipanti e a concorsi prestigiosi. Eppure nel Paese del Sol Levante, la copia non autorizzata è illegale e un fenomeno del genere, a rigor di legge, non dovrebbe esistere. Allora perché governo e forze di polizia consentono la proliferazione di un settore culturale e di mercato tanto vivace? «Alcuni ritengono che sia proprio il beneficio che ne deriva al mercato dei manga a spiegare questa permissività [...]. Il mercato dei manga accetta queste violazioni tecniche perché lo stimolerebbero a diventare più ricco e produttivo. Sarebbe peggio per tutti se i doujinshi venissero vietati, perciò la legge non li proibisce»19.

Tornando invece nell'ambito della circolarità della conoscenza tutelata attraverso esplicite note di copyright, come nel caso delle opere rilasciate sotto Creative Commons, ci sono produzioni culturali nate proprio perché possano essere copiate e diffuse senza le limitazioni imposte dalla dicitura "tutti i diritti riservati". Un esempio sono i brani musicali di Roger McGuinn, leader della band The Byrds, che su questa scia è dal 1995 e che ora adotta ufficialmente le licenze Creative Commons perché il suo scopo è quello di «continuare la tradizione del folk, che consiste nel raccontare storie e nel riprodurre canzoni trasmesse oralmente da generazioni e generazioni»20. Oppure, per citare un italiano che scrive brani in inglese, si pensi al disco Back To Basics21 di Marcello Cosenza, chitarrista che ha riunito in quest'album dieci pezzi scritti durante gli ultimi anni di permanenza a Los Angeles.

Il dibattito sull'applicabilità delle licenze Creative Commons non contiene solo riferimenti a musica, cinematografia e pubblicazioni accademiche, ma si espande : e non da oggi : al mondo della narrativa e in particolare alla fantascienza e al fantasy)22. Si scopre così l'intraprendenza di una nuova leva di autori di fantascienza che, accanto alla pubblicazione di romanzi per le tradizionali vie dell'editoria cartacea, rilasciano anche copie dei propri lavori con licenze Creative Commons. Ad aver avviato questa tendenza è stato il giornalista e scrittore canadese Cory Doctorow, autore dei non (ancora?) tradotti in italiano Down And Out In The Magic Kingdom, Eastern Standard Tribe e Someone Comes To Town, Someone Leaves Town. Altro esempio è Charles Stross, scrittore di Edimburgo che ha firmato lavori come Accelerando. In giro per la rete, inoltre, ci si imbatte in diversi altri scrittori che si muovono in questa scia: Peter Watts (Starfish and Maelstrom, Behemoth, Rifters Trilogy) o Kelly Link (Stranger Things Happen) il cui talento le è valso il paragone con Neil Gaiman. E chi si intende di fantascienza sa quanto questo paragone sia importante. Sul fronte degli scrittori italiani, va detto che si predilige la forma di rilascio "copyleft" che, concepita diversamente rispetto all'omonimo obbligo di mantenimento della licenza inventato da Richard Stallman della Free Software Foundation, consente la libera riproduzione dei libri per scopi non commerciali e impone l'obbligo dell'attribuzione all'autore originario. WuMing è il collettivo di scrittori che più di ogni altro ha lavorato in questo senso, ma non mancano altri autori di valore come Saverio Fattori (Alienazioni padane), Girolamo di Michele (Tre Uomini Paradossali, Scirocco), Valeria Brignani (Casseur), Giulia Fazi (Ferita di Guerra), Guglielmo Pispisa (Città Perfetta) o Gianbattista Schieppati (Spaperopoli).

Restando sempre in Italia, le licenze Creative Commons caratterizzano iniziative editoriali personali come il blog di Beppe Grillo23, che a livello di accessi e quantità di commenti (una media di un migliaio a inserimento) farebbe gola ai grandi portali di informazione e che trova probabilmente un paragone con il più longevo Slashdot24, raccoglitore internazionale di notizie di carattere informatico. Alla fine del 2005, inoltre, il sito di Radio Radicale, storica emittente che ha avvicinato cittadini ed ascoltatori alle attività istituzionali e ai grandi dibattiti della Repubblica italiana, ha annunciato l'adozione della licenza Creative Commons Attribuzione 2.025. Rispetto poi alle produzioni e alle autoproduzioni rilasciate in modo analogo, va segnalato il progressivo aumento di archivi di opere. Tra questi, Common Content26, catalogo di contenuti liberi suddiviso per immagini, film, audio, testi e siti web. O ancora The Assayer27 e Textbook Revolution28 e, per quanto riguarda il materiale scientifico, Public Library of Science (Plos)29.

In conclusione, occorre dire che per quanti nomi e riferimenti siano contenuti in questa introduzione, ne esiste un numero esponenzialmente più ampio su Internet. È altrettanto innegabile che la vivacità di iniziative del genere dimostra, attraverso la loro nascita e proliferazione in rete, quanto l'irrigidimento sulle norme del diritto d'autore non possa fermare invece la tendenza al permesso d'autore che, pur mantenendo la tutela a chi ha lavorato per creare un'opera, apre nuove strade ai fruitori dell'informazione. Le pagine che seguono si concentrano su alcuni casi italiani che lo hanno cavalcato, il permesso d'autore, dimostrando come un'iniziativa editoriale possa non solo sopravvivere, ma anche prosperare riunendo attorno a sé utenti, contenuti di qualità e talvolta anche interessi economici. Parlare di casi concreti, più che di ideali di base, ha lo scopo di presentare un modo non certo nuovo, ma alternativo al trend attuale, di fare produzione culturale. E il bookmark finale vuole offrire uno spunto per iniziare a visitare molti altri siti di questo stampo concentrati sui più eterogenei argomenti: arte, letteratura, scienza, informatica.

Le realtà che diffondono


Wu Ming Foundation

Indirizzo: http://www.wumingfoundation.com/ Licenza: Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 1.0


Ci sono alcune leggende in rete che nascono, si diffondono e acquistano così tanto fiato da diventare voci in grado di zittire giornalisti, politici e tromboni vari. È il caso, a partire dal 1994, del Luther Blissett Project, personalità senza persona, pseudonimo collettivo adottato da menti effervescenti, hacker, intellettuali sui generis, sbeffeggiatori che agivano sotto l'identità di un giocatore di calcio britannico con ascendenze asiatiche.

E proprio alcune di quelle menti, quelle che vivevano in Italia e dalle quali, oltre a Wu Ming, sono scaturiti gruppi come 0100101110101101.org, Rekombinant, Guerrigliamarketing.it per citarne solo alcuni, hanno firmato burle da consacrarle alla storia della dissacrazione. Come quella volta in cui il viterbese pullulò di satanisti disseminando il territorio dei resti dei loro riti. O quando la stampa lacrimò cerimoniosamente per la morte del grande artista balcanico Darko Maver, ovviamente mai esistito. E questi sono solo due dei numerosi scherzi tirati alla cultura ufficiale che, con quell'ingenuità un po' idiota figlia della sicumera che caratterizza l'establishment intellettuale, è puntualmente caduta nei tranelli orditi da tale Luther Blissett. Ma questo Signor Nessuno ha firmato anche altro e con tutt'altro tono. Basti ricordare il pamphlet Lasciate che i bimbi : Pedofilia. Un pretesto per la caccia alle streghe in cui, facendo dettagliati riferimenti a lapidazioni mediatiche e invocazioni al taglione chimico o chirurgico, faceva : coraggiosamente, perché nel 1997 non c'erano verità giudiziare, ma solo il buon senso a cui affidarsi : per primo il punto sulla montatura ordita contro la setta bolognese dei Bambini di Satana e contro il suo leader, Marco Dimitri.

E venne poi il 1999 e con esso Q, storia ambientata nel sedicesimo secolo tra principi, straccioni, cavalieri ed emissari papali. Un'opera monumentale, storicamente accurata, accolta dalla critica in termini celebrativi e ancora oggi presente in bella vista sugli scaffali delle librerie malgrado non rientri più da un pezzo nelle novità editoriali. Ma il merito di Q non va solo alla sua valenza letteraria. Il libro rompe un tabù che sembrava inviolabile: quello di "tutti i diritti riservati". Perché è stato il primo romanzo a uscire con una nota di copyright che ha fatto impallidire, valutata dal volgo che nutre le fila dell'editoria italiana come l'ennesima bizzarria di un gruppo di intellettuali fuori dalle righe, degli originali che occultano nomi e volti ma non rinunciano a quelle stranezze tipiche di chi abbraccia atteggiamenti scandalosetti agli occhi delle cariatidi della cultura. Eppure...

Eppure Q, oltre a vendere ancora oggi, anni dopo la sua uscita, ha aperto un varco, ha fatto da pioniere anche sulla carta stampata di una tendenza che oggi che si sta rinforzando: quella del copyleft letterario. Una delle realtà a cui Luther Blissett in seguito ha passato il testimone è Wu Ming, un gruppo a cinque teste (quattro delle quali passate da un nome collettivo all'altro e una quinta che si è aggiunta sotto la nuova egida) che ha preso a rappresentarlo un'espressione derivante dal Mandarino e che significa "anonimo". Ma sono sempre quelle le teste, sempre quella l'anima del nome collettivo. E sempre quella è la nota di copyright: «è consentita la riproduzione, parziale o totale dell'opera e la sia diffusione per via telematica ad uso personale dei lettori, purché non a scopo commerciale». Agganciando anche la battaglia ecologista in nome della quale si utilizza per stampare carta ecosostenibile prodotta con fibre riciclate e sbiancate senza uso di cloro30. Con queste modalità sono usciti i libri successivi: 54, Asce di guerra, Guerra agli umani, New thing e tutti gli altri. Per il sito, invece, la licenza adottata è stata la Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 1.0.

Un sito ricchissimo, da perdercisi, localizzato in una dozzina abbondante di lingue, che raccoglie presentazione del gruppo, scritti non usciti in libreria (ma anche quelli che nutrono i cataloghi di editori come Einaudi e Fanucci), materiale del più vario e gli archivi della newsletter Giap. Le risposte all'intervista che segue sono a più voci: è Wu Ming che parla, non uno dei suoi componenti, e traccia la storia del gruppo, il percorso intrapreso per arrivare all'affermazione delle proprie convinzioni e dei propri principi.


Prima Luther Blissettt e poi Wu Ming. Per entrambe le esperienze, la possibilità che i contenuti circolassero, anche quando a pubblicarli erano editori delle dimensioni di Einaudi, è stata voluta e preservata. Siete stati tra i pochi autori ad avercela fatta. Da dove trae origine la vostra scelta nel rilascio del testi? Quando vi siete avvicinati a questo mondo e per quali vie?

Nella seconda metà degli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta, in Occidente e soprattutto in Italia, c'è molto interesse per il concetto di "no copyright". Con quel titolo, la ShaKe di Milano pubblica anche un'antologia di materiali sull'argomento, a cura di Raf Valvola. È un sottobosco dalle mille radici: la cultura "do it yourself" del punk-rock (su tutte le copertine dei dischi hardcore-punk italiani c'è lo slogan "Fuck SIAE"); il mondo delle autoproduzioni e delle fanzine (di fotocopia in fotocopia, sono le fanzine a diffondere il celebre détournement del logo dei discografici inglesi, la musicassetta-teschio con lo slogan: "Home Taping is Killing Music, and It's Illegal" che diventa: "Home Taping is Killing Business, and It's Easy"); il networking dell'arte underground, della xerox art, della mail art, del "neoismo" (nel 1988-89 Stewart Home e Florian Cramer organizzano i cosiddetti "festival del plagiarismo"); il mondo del cut'n'mix che dal dub e dal primo hip-hop arriva alla "house music" in senso lato, musica fatta-in-casa, con campionatori e altre tecnologie finalmente disponibili per il mercato di massa. Il Luther Blissettt Project nasce nel 1994 all'incrocio di tutte queste influenze e con suggestioni che risalgono più indietro (il proto-surrealista Lautréamont disse che "il plagio è necessario, il progresso lo implica"), e ancora più indietro, addirittura alla cultura popolare d'epoca feudale, e prima ancora alla classicità e all'antichità, insomma, a prima che esistessero gli istituti della proprietà intellettuale.


Come avete messo "internamente" a punto la vostra strategia di rilascio? Quali sono stati gli argomenti si cui vi siete confrontati? E come siete riusciti a imporre la vostra visione agli editori?

Il rilascio delle nostre produzioni è una scelta naturale, scontata. Al momento di iniziare l'attività, è un punto sul quale non vi è alcuna discussione, si farà così e basta. Due anni dopo firmiamo il contratto per Q con la neonata collana Einaudi Stile Libero. Paolo Repetti e Severino Cesari ci contattano tramite la nostra amica Loredana Lipperini, attirati dalla celebrità di Luther Blissettt come molteplice eroe popolare. In quel momento, la collana non è ancora partita, nessun titolo è ancora arrivato in libreria. Vogliono un libro di Luther. Già da qualche mese noi abbiamo messo in cantiere un romanzo che si svolge nel Cinquecento. Facciamo subito presente che qualunque opera firmata "Luther Blissettt" dev'essere liberamente riproducibile. Loro sono d'accordo, l'ufficio legale Einaudi è un po' perplesso, c'è un po' di tira e molla e alla fine troviamo insieme la dicitura adatta. Mutatis mutandis, nonché ante litteram, si tratta della licenza Creative Commons "Attribution-NonCommercial-ShareAlike". All'epoca Creative Commons non esisteva ancora, forse lo stesso Lessig si occupava ancora d'altro.


Sul sito Wumingfoundation.com c'è una sottosezione della vostra bibliografia che riporta i dati di vendita dei vostri libri. Sembra che la possibilità di riprodurre i testi per scopi non commerciali non abbia intaccato, almeno più di tanto, l'acquisto dei volumi. Da parte degli editori, ci sono stati commenti in proposito? Avete mai ricevuto richieste perché la vostra impostazione cambiasse?

La nostra conclusione, a sette anni dall'uscita di Q, è che senza la possibilità di scaricarli i nostri libri venderebbero meno. Più li si scarica, più li si conosce. Più li si conosce, più li si regala. Noi siamo in contatto stretto con un gran numero di lettori, coi quali discutiamo di molte questioni. Molti di loro hanno comprato/regalato i nostri libri dopo averne scaricato i testi. L'atto di acquistarli può essere visto come un "equo compenso" per averli resi disponibili gratis (una specie di shareware, insomma) o come una scelta di comodità (quello cartaceo resta il miglior supporto su cui leggere narrativa) o di possesso feticistico/collezionistico o un po' tutte queste cose. Fatto sta che funziona così. A tutt'oggi, però, siamo tra i pochissimi a renderci conto di questo. La stragrande maggioranza degli editori continua a ritenerla una bizzarria. Capita addirittura che editori, parlando di noi, liquidino sbrigativamente il copyleft definendolo "marketing" o "una furbata". Ma certo che è anche marketing, che discorsi. Noi con le royalty ci campiamo. La contraddizione, infatti, non è questa, bensì il fatto che un editore, il quale in teoria sarebbe un imprenditore, di fronte a un esempio di marketing che non soltanto ha successo ma crea comunità, lo disprezzi con toni "puristici" (!) anziché prendere esempio. Quanto all'essere furbi: ma perché, è meglio essere stupidi? Boh.


Oltre a opere firmate da voi collettivamente o singolarmente, tra i vostri lavori disponibili online compaiono anche le firme di personaggi celebri della cultura italiana, come Valerio Evangelisti, Carlo Lucarelli, Enrico Brizzi, Tommaso De Lorenzis o Vitaliano Ravagli. Come applicate l'ottica di apertura e condivisione nelle opere che riguardano o comprendono altri autori? E incontrate difficoltà nel collaborare sotto i termini del permesso d'autore? Quali sono le reazioni di chi viene coinvolto?

Chi intraprende un progetto di scrittura insieme a noi, soprattutto se avviato da noi, sa già che il risultato sarà sotto copyleft. Nessuno ha mai posto problemi, è vista come una cosa naturale, ovvia. Se entri in una sauna, prima ti togli i vestiti.


Avete invece statistiche relative allo scaricamento dei libri e dei racconti dal sito? Riuscite a stimare il numero di lettori che ha una versione elettronica dei vostri lavori? Che tipo di feedback ricevete dai lettori? Sono più concentrati su trama, contenuti e personaggi o c'è chi anche si esprime in merito alle politiche di rilascio?

Dal gennaio 2000 a oggi Q (edizione italiana) è stato scaricato da oltre ventimila visitatori unici. La media è di oltre quattromila all'anno. Più o meno la stessa media per quanto riguarda 54 e Asce di guerra. Eppure sono libri che continuano a vendere e a essere ristampati. Quanto al feedback, si discute di tutto, dal contenuto allo stile alle politiche di rilascio alla politica nazionale e internazionale, fino a questioni teologiche e cosmogoniche! :-)


Giap e il suo numero di iscritti (più di ottomila al momento), 250 incontri e presentazioni in sei anni, i progetti di scrittura collaborativa. La Wu Ming Foundation si configura come la più attiva e la più frequentata tra le iniziative su web. Quali sono i canali che utilizzate per mantenere e alimentare la comunità che si è creata intorno al vostro progetto? Quanto le comunicazioni virtuali vanno a integrarsi con quelle reali? E quanto invece le superano?

Il livello di interazione tra comunicazioni virtuali e face-to-face varia da periodo a periodo, da progetto a progetto, da soggetti a soggetti, però non viene mai a mancare. Abbiamo bisogno di stringere mani, abbracciare le persone, mettere in movimento il corpo, esperire la comunità. Senza corporeità, senza confronto diretto : de visu : coi lettori, il nostro progetto non è, non può essere completo. Per questo giriamo il Paese in lungo e in largo e facciamo tutte quelle presentazioni. Detto questo, il mezzo di scambio più impiegato è senz'altro ancora l'e-mail, poi ci sono i vari forum tematici su web (quello sul film Lavorare con lentezza, quello sul romanzo New Thing).


La ballata del Corazza 1.3.0, WM2 + Giapsters, è definito racconto open source. In che modo lo è? Quante mani ci hanno lavorato? E siete a conoscenza di opere che, partendo da un vostro lavoro, hanno preso il largo diventando un progetto autonomo?

La Ballata del Corazza era "open source" nel senso che il "codice-sorgente" del racconto era aperto e modificabile. Per "codice-sorgente" del racconto intendiamo il pretesto, la location, i personaggi, l'antefatto e un certo stile country & western apocalittico. Ci ha messo le mani una ventina di persone. Questo per quanto riguarda il testo, ma il progetto comprendeva anche una colonna sonora orchestrale composta dall'ensemble Quadrivium (altrettanto open-source: lo spartito era scaricabile e modificabile), una lettura scenica dal vivo e infine un fumetto, uscito da poco, con disegni di Onofrio Catacchio. Non è l'unico caso in cui da un nostro lavoro sono nati altri progetti, del tutto autonomi. Da 54 sono nati l'omonimo CD degli Yo Yo Mundi e uno spettacolo teatrale. Da Q un altro spettacolo teatrale. Dai nostri progetti di scrittura collaborativa (noi la definiamo "comunitaria") sono addirittura nati altri collettivi di scrittura, come Kai Zen.


Qual è la vostra opinione sulle organizzazioni che, per professione, lavorano sulla condivisione dei contenuti? Nello specifico la Free Software Foundation per le opere funzionali come il software e Creative Commons per le opere espressive. Quanto della vostra impostazione, al di là delle licenze, si richiama a queste esperienze?

Le seguiamo con rispetto e attenzione. Certo Richard Stallman e il movimento per il software libero ci hanno regalato la parolina magica, "copyleft", e Creative Commons ci ha permesso di definire in modo più preciso e rigoroso una prassi che già adottavamo. Tuttavia, il nostro percorso è diverso, è quello che : tagliando con la scure : abbiamo descritto nella prima risposta.


I libri che si trovano in libreria vengono stampati su carta ecosostenibile e che non ha subito processi di sbiancatura a base di cloro. Altra scelta singolare che, al momento, viene perorata da una minoranza di chi pubblica. Come la sensibilità ecologica si coniuga con una sensibilità verso la libera veicolazione dei contenuti? C'è una matrice comune tra le due caratteristiche della vostra produzione?

È esattamente la stessa battaglia, quella contro un principio proprietario divenuto pretesa paranoide ed esteso al mondo intero, alle storie, alle culture, agli ecosistemi. Al pari delle idee, il pianeta, la sua atmosfera, il suo "volto" (la crosta terrestre) e le forme di vita che lo popolano non sono né dovrebbero essere possedimento esclusivo di nessuno. Noi siamo gli usufruttuari della terra, dell'acqua, dell'aria, ma non ne siamo i proprietari. Qualunque idea del genere è un'empia illusione. Non ricordiamo chi lo ha detto, ma in realtà... la proprietà non esiste: quando muori non ti porti dietro niente, rimane tutto qui. Appunto, la terra rimane qui, l'acqua rimane qui, noi abbiamo ricevuto il pianeta in prestito dai posteri, ai quali dovremmo restituirlo nelle migliori condizioni possibili. Se io ti presto qualcosa e tu me lo restituisci distrutto, ho il diritto di incazzarmi o no? Al momento, tutto fa credere che i posteri ci malediranno. Oltre a ciò, in tempi di brevetti sul DNA di flora, fauna e consorzio umano, non è possibile disgiungere la lotta per il dis-inquinamento da quella per la riforma della proprietà intellettuale.


Tecnicamente, come è stato creato e come viene mantenuto il vostro sito? Utilizzate un sistema di aggiornamento dei contenuti? Oppure le pagine vengono create manualmente? Quanto le licenze con cui sono rilasciati gli strumenti tecnici che utilizzate incide sulla loro scelta?

Alcune sezioni del sito, come quella dedicata a New Thing, sono realizzate in e107, sistema di gestione dei contenuti scritto in PHP e funzionante con database MySQL, tutto open source. Il resto del sito è produzione d'artigianato, creato manualmente da noi stessi (compresi fotomontaggi eccetera) e continuamente ritoccato. All'inizio inizio faceva schifo, poi siam diventati più bravi, oggi ci sembra decente. Per mailing list e newsletter usiamo Mailman. Il server che ci ospitava in passato girava su Apache mentre quello attuale, messo a disposizione da Link.it, è installato con Petra, una distribuzione di GNU/Linux creata da Link.it stessa. Insomma, il ricorso al software proprietario tradizionale è limitato al minimo essenziale. Certo, i libri sono ancora scaricabili in formati proprietari (RTF, PDF), per cause di forza maggiore: gran parte delle persone che visitano il sito usano Windows, Office e compagnia bella. A questi stiamo affiancando il formato SXW della suite OpenOffice.org.

iQuindici : La repubblica democratica dei lettori

Indirizzo: www.iquindici.org / Licenza sui contenuti elettronici: copyleft


Correva l'anno 2002 e, per gli amanti della precisione, era il 18 agosto, quando Wu Ming chiese agli aspiranti di scrittori di interrompere l'invio di manoscritti. Non c'era tempo per leggerli. Quindi l'invio risultava inutile. Una richiesta che fece discutere i Giapsters, che altri non sono che gli iscritti alla newsletter Giap della Wu Ming Foundation. Un drappello di loro decise di rimboccarsi le maniche, raccogliere l'eredità di talent-scounting che i cinque anonimi della letteratura non riuscivano più a seguire e farsi gruppo a parte focalizzato sugli scrittori emergenti. Ecco così che nacquero iQuindici (scritto proprio in questo modo, senza spazi, la i iniziale miniscola e la Q maiuscola) e divennero "lettori residenti", prendendo a prestito l'espressione coniata dallo scrittore svizzero Peter Bichel, autore di Storie per bambini e La doppia vita di Cherubin Hammer.

Il legame con Wu Ming non si è mai spezzato, continua a esistere pur mantenendo l'invidualità dei due progetti. E il lavoro che iQuindici portano avanti non è quello della scuola di scrittura creativa né tanto meno quello dell'agenzia letteraria tutta impegnata a piazzare nuovi cavalli presso le scuderie dell'editoria italiana. È tutt'altro. Negli obiettivi e nella pratica, è un'opportunità offerta a chi vuole scrivere e l'opportunità è quella di misurarsi con una serie di lettori "estranei" tanto quanto degli estranei sono coloro che entrano in libreria e ne escono con un volume in mano. I nomi degli autori sono sconosciuti così come quello di chi prende in carico un manoscritto. Dunque l'opinione formulata al termine della lettura non è influenzata da conoscenza, rapporti di amicizia e legami di un qualche genere. Un vantaggio non da poco.

L'atteggiamento dei lettori residenti non è poi quello del critico letterario, ma quello di chi si imbatte in una storia che può piacere o meno. E così, tramite una serie di forum interni con cui iQuindici si coordinano e la posta elettronica, si instaura un rapporto con l'autore che si vede recapitare un'impressione sul proprio lavoro. L'impressione di un lettore che, come tale, può vederci giusto o meno, risente di preferenze e gusti e può essere fallace stroncando magari un lavoro che invece di carte da giocarsi ne potrebbe avere. Ma il valore di questo lavoro : peraltro condotto su base volontaria : sta altrove e si torna all'opportunità di cui sopra.

C'è da aggiungere subito che così fallace, risultati alla mano, il lavoro de iQuindici non lo è. Hanno "adottato" e "promosso" autori che oggi iniziano a farsi largo nel panorama letterario italiano. Ne sono degli esempi Saverio Fattori, autore di Alienazioni padane e Assenza di intimità (Gaffi Editore), e Girolamo Di Michele (Tre uomini paradossali e Scirocco, Einaudi). E hanno condotto alle stampe, tra gli altri, Spaperopoli di Gianbattista Schieppati, Ferita di guerra di Giulia Fazzi e Casseur di Valeria Brignani.

Ma c'è un ulteriore valore del gruppo, dichiarato nel suo manifesto e concretizzato nella pratica del lavoro prodotto: quello della «promozione di un accesso libero e gratuito alla cultura attraverso una nuova visione della proprietà intellettuale». Dunque, andando sul sito di iQuindici, c'è una sezione, battezzata Biblioteca Copyleft, in cui vengono archiviati e resi disponibili a qualsiasi navigatore (non è richiesta neanche la registrazione) dei manoscritti che possono essere scaricati e diffusi a propria volta senza infrangere licenza d'uso dell'opera e diritto d'autore. Stesso discorso poi per Inciquid, rivista elettronica del gruppo in cui vengono inseriti racconti, romanzi e poesie degli autori che sottopongono i propri lavori ai lettori residenti. Da questi, talvolta, ne sono derivati libri audio, che altro non sono che reading acquisiti digitalmente e trasformati in file MP3 da poter essere ascoltati. E da poco iQuindici hanno aperto anche una nuova sezione dedicata alla saggistica arrivando così a completare il panorama e la varietà dei materiale preso in carico.

iQuindici sono un gruppo in crescita. E di certo il riferimento non è a questioni prettamente numeriche (seppure oggi si sia arrivati a una settantina di lettori). È merito loro, oltre che di Wu Ming, parte del successo che il copyleft letterario sta riscuotendo oggi in Italia. Reading, interviste, partecipazioni a manifestazioni come MArteLive31 il cui esito è stata l'antologia Copyleft curata da Girolamo Grammatico, sono solo alcuni dei canali per veicolare un'impostazione culturale ancora prima che un'attività.

A farsi portavoce di questo variegato gruppo sono Monica Mazzitelli, Ermanno Pandoli e Francesco Valotto. Ognuno per le proprie competenze contribuisce così a presentare una realtà ancora unica nell'ambito della letteratura italiana.


Come nasce il progetto iQuindici e quali sono le impostazioni della Wu Ming Foundation che continua a portare con sé? Quali sono le collaborazioni attuali portate avanti congiuntamente? Potete tracciare una storia del progetto?

Risponde Monica Mazzitelli. iQuindici nascono da una reazione a un commento messo su un numero di Giap a proposito dell'invio : non richiesto : di manoscritti al collettivo Wu Ming. Il commento era un irritato invito a non inviare manoscritti (soprattutto se "pesanti" in termini di byte) al collettivo che tanto non aveva tempo per leggerli. Alcuni giapsters trovano antipatica questa esternazione e bacchettano Wu Ming: a quel punto l'idea di prendere quelle persone e affidare a loro il compito di leggere manoscritti inediti: in fondo ce la siamo voluta. Il nome viene dal numero dei componenti del nucleo originario. Non abbiamo una collaborazione "congiunta" a Wu Ming, operiamo in modo completamente autonomo, ma ci muoviamo con le stesse ispirazioni ideali di fondo e diffondiamo valori uguali.


Quando si inizia a pensare al copyleft come strumento al servizio della narrativa? All'interno del gruppo di lavoro, la logica di diffusione delle opere è stata fin da subito condivisa da tutti oppure ci sono stati dibattiti che hanno messo a confronto impostazioni diverse? Quali sono state le argomentazioni che hanno portato a far prevalere l'ottica attuale?

MM. Il copyleft ha fatto sempre parte del progetto sin dall'inizio ed è sempre stato un valore condiviso. L'unica discrepanza di opinione che abbiamo all'interno del gruppo, e che rimane tale, è la scelta se pubblicare in copyleft sul sito anche testi non pubblicati su carta o attendere che un testo sia pubblicato per metterlo poi nella nostra biblioteca copyleft, per evitare che la sua "scaricabilità" gratuita sia un ostacolo alla pubblicazione cartacea. La scelta viene lasciata all'autore.


Il copyleft è uno strumento definito che prevede la "persistenza" della licenza. Quali sono i motivi per cui ci si orienta verso questo genere di modalità e non, invece, verso le licenze Creative Commons, appositamente studiate per i contenuti non tecnici? Quali vantaggi uno scrittore esordiente può trarre da questa modalità di rilascio?

Risponde Ermanno Pandoli. Licenze copyleft versus intervento minimo. È un po' che ci gira in testa questa idea. Consigliare agli autori di mandare il testo già correlato con relativa licenza Creative Commons oppure adottare l'intervento minimo facendo inserire la clausola di wuminghiana memoria direttamente nel contratto con l'editore? Ci sono alcune questioni giuridiche non risolte, neanche da parte del gruppo di studio di Torino. Il fatto principale è che l'enforcement di quanto previsto dalla licenza, di per sé molto difficile, viene vanificato nel momento in cui si attua una "dispersione" di diritti e si perde un centro di interessi capace di tutelare il diritto dell'autore. Con le licenze rimane anche una certa insicurezza sui mezzi legali (azione) capaci di rendere effettivo e protetto il diritto espresso nelle licenze. Mancando una sicurezza nell'azione manca anche il diritto. Per quanto le licenze Creative Commons abbiano fatto molto per la libera circolazione delle idee, ma non sono ancora convinto del loro utilizzo effettivo e quindi ritengo prematuro consigliare gli autori di corredare i testi inviati con una di queste licenze. Nulla toglie, comunque, che gli scrittori, volontariamente, possano rilasciare i propri testi sotto licenza Creative Commons e inviarcene comunque una copia da leggere e commentare. Di certo noi non potremmo pubblicare sulla biblioteca copyleft (per esempio) un testo di un autore corredandola, a nostro arbitrio, di una licenza CC. Fatta questa precisazione, che esprime un mio personalissimo dubbio, tengo a dire che il lavoro fatto dagli avvocati di Torino è indubbiamente notevole e ho imparato molto dalla loro esperienza, ma non ritengo compito de iQuindici "obbligare" o "consigliare" gli autori a inviarci i manoscritti corredati da licenza Creative Commons. Il problema poi neanche si pone, secondo me. Infatti iQuindici non pubblicano contenuti propri, ma di altri soggetti. Guardando al sito della Wu Ming Foundation, si può notare che i contenuti del sito sono rilasciati sotto licenza CC, ma il sito è degli stessi autori dei testi ivi presenti. Non accade lo stesso con il sito de iQuindici. Quindi rilasciare sotto licenza CC i contenuti del sito iQuindici, in particolare la biblioteca copyleft e Inciquid, sarebbe una forzatura da parte nostra in quanto saremmo noi a rilasciare i testi di altri autori.


Quando chiedete a uno scrittore di mettere liberamente a disposizione la sua opera, quali sono le reazioni? Quali le resistenze più comuni? E quali invece gli argomenti che riescono a convincere uno scrittore? Che genere di ritorni hanno avuto finora gli autori che hanno accettato di inserire il loro lavoro nella biblioteca copyleft?

MM. Nessun autore ha mai fatto obiezioni alla pubblicazione con la clausola copyleft e quindi alla pubblicazione sulla nostra biblioteca. L'unica obiezione avuta è stata quella alla pubblicazione in biblioteca prima della pubblicazione cartacea, ma non è escluso che alcuni autori in futuro optino per la scaricabilità del testo immediata senza un contratto editoriale.


iQuindici non lavorano solo sul fronte degli autori. La sensibilizzazione a questo genere di rilascio è portato avanti anche presso gli editori. Lo dimostra l'iniziativa «Diffusione della cultura: le ragioni del copyleft. Lettera aperta a tutti gli editori italiani». Finora che tipo di ritorno avete avuto? Ci sono stati contatti, richieste di approfondimento, disponibilità ad agire in questo senso? Il lavoro fatto da Wu Ming in termini di libera diffusione delle opere letterarie ha agevolato le vostre attività di sensibilizzazione?

MM. Sicuramente in Italia non esisterebbe la conoscenza e la diffusione del copyleft se non esistesse Wu Ming, che ha aperto la strada a tutto il resto e continua a fare scuola a tutti i livelli. La nostra lettera ha avuto un'eco abbastanza diffusa in rete, ma meno sulla carta stampata. Alcuni editori ci hanno contattato per avere delucidazioni, cosa che ci ha fatto molto piacere, e comunque abbiamo notato che il concetto viene recepito in modo più aperto e interessato ora rispetto all'inizio, tre anni fa, e pensiamo di poterci prendere una piccola parte di merito su questo.


Al di là di Wu Ming, al momento avete contatti e/o collaborazioni con altri gruppi? Riuscite sempre a mantenere l'ottica di apertura anche con attività esterne all'ambito di origine del progetto? Per esempio, il progetto di trasmissioni radiofoniche potrà godere della libera veicolazione dei contenuti che produrrete?

MM. Il progetto ha come pietra angolare la diffusione della cultura e dei saperi, quindi anche il copyleft, a qualsiasi livello, quindi qualsiasi nostra attività o cooperazione NON può prescindere da questo, per cui certo: la fucina de iQuindici pone come condizione il copyleft, anche alla radio (Amisnet), che peraltro già adotta di suo il copyleft.


Al momento, quale prevedete sarà l'evoluzione de iQuindici? Ci saranno attività che verranno nel tempo ridimensionate rispetto ad altre? Quanto iniziative pubbliche (recensioni su giornali, reading, partecipazioni ad eventi come «La settimana delle libertà digitali») sta giocando a favore di una crescita del progetto in un senso piuttosto che un altro?

MM. Difficile rispondere. Le idee sono molte e fino ad ora sono poche le cose valide a cui abbiamo rinunciato per mancanza di tempo o risorse. È chiaro che il nostro gruppo sta iniziando ad essere piuttosto noto in campo sia editoriale che pubblico ed è sempre più oggetto di richieste e inviti a varie iniziative. Certamente ci sarà un momento in cui forse bisognerà ridimensionare la nostra partecipazione, ma speriamo che sia il più tardi possibile.


Il vostro sito web ricalca accuratamente l'impostazione copyleft del vostro lavoro. Com'è avvenuta la scelta degli strumenti da utilizzare (sistema di gestione dei contenuti, database, eccetera)?

Risponde Francesco Valotto. Innanzitutto è bene fare una precisazione: il sito de iQuindici non nasce come strumento di pubblicazione in senso stretto, ma come strumento di lavoro del gruppo. Inizialmente cioè non ci si poneva affatto il problema di comunicare a un qualsiasi pubblico, avevamo semplicemente bisogno di comunicare tra noi con una modalità meno ridondante della posta elettronica, mantenendo un minimo di traccia storica di ciò che si diceva e potendo contare su un riferimento comune. Il tutto era finalizzato esclusivamente alla presa delle (poche) decisioni che coinvolgevano il gruppo. Appena costituito, il gruppo iniziale usava un rudimentale "elencatore di interventi" (non saprei come altro definirlo) creato ad hoc in quattro e quattro otto mentre i lavori che leggevamo arrivavano alla Wu Ming Foundation che provvedeva a girarceli via posta elettronica. Poi una serie di circostanze ci hanno costretto a cercare ospitalità che ci è stata offerta nel sito dei Wu Ming: avevamo la necessità di migliorare un po' le nostre modalità comunicative ed il loro webmaster ci ha messo a disposizione uno strumento che conosceva, e107, a cui ha aggiunto un indirizzo mail dedicato. La scelta si è dimostrata subito felice: e107 offriva molto di più di quanto ci sarebbe servito e : diamo a Cesare quel che è di Cesare : lo faceva anche piuttosto bene. Disponendo di una serie di strumenti che rispetto alle nostre abitudini possiamo definire evoluti (chat, forum, aree di download, news, eccetera), la comunicazione tra i membri del gruppo ha subito un'evoluzione naturale che definirei esplosiva. Le nuove possibilità di comunicare hanno poi permesso di tirare fuori idee prima impensabili da cui è scaturito l'uso di nuovi strumenti e il miglioramento di quelli già attivi. Non c'è stata dunque una vera e propria "scelta degli strumenti" quanto piuttosto un percorso in parte casuale e in parte obbligato: e107 lavora esclusivamente in PHP e si appoggia solo su database MySQL. Ciò non significa che ci sia stato imposto: anche con le prime cose rudimentali ci eravamo già orientati verso il mondo open source per vari motivi "nobili" e meno: coerenza ideologica con il nostro progetto certamente, ma non escludiamo il fatto che si tratta di strumenti gratuiti e che uno dei due "tecnici" inizialmente presenti nel gruppo conosceva ed utilizzava già piuttosto a fondo. In seguito ci siamo aggiornati seguendo l'evoluzione di questo software, con il risultato di disporre di strumenti via via più potenti, flessibili e gestibili. Inoltre le pagine web rispettano gli standard legati all'accessibilità e alle direttive del W3C.


Quanto la coerenza con i presupposti del progetto complica o rallenta la pubblicazione dei vostri contenuti?

FV. Direi che non c'è nessuna complicazione legata a questo genere di attenzioni. Per noi si tratta di mantenere una certa coerenza con quello che crediamo e riteniamo giusto: non si può parlare di libera fruizione del sapere, di diffusione orizzontale della cultura e poi non considerare che da questa diffusione potrebbe essere emarginato solo perché non rispettiamo una serie peraltro molto modesta di regole di "bon ton". Naturalmente rispettare gli standard non è sempre facile e automatico e non sempre significa garantire l'accessibilità. La dimostrazione pratica più evidente l'abbiamo avuta quando un ragazzo non vedente ha chiesto di entrare nel gruppo. La sua richiesta ha seguito un iter diverso da quello abituale, proprio perché temevamo che il fatto di utilizzare quasi esclusivamente il web e la posta elettronica per rapportarci nel nostro lavoro potesse rappresentare un ostacolo per lui. Per questo motivo c'è stato un fitto scambio iniziale tra chi si occupa della "accoglienza" delle richieste di ingresso, il webmaster e questo ragazzo in cui si sono confrontate esigenze, problemi ed eventuali limiti. Ma ci siamo accorti praticamente subito che c'erano ben pochi ostacoli: certo buona parte del merito va a lui che ha una forza e una capacità che credo lo metterebbero in grado di vincere una gara di tiro al piattello se mai ne sentisse la necessità per qualche motivo. Il risultato è stato molto utile.


Quanto studio viene effettuato per mantenere il sito?

FV. Se parliamo di studio relativo a tecnologie informatiche direi abbastanza, ma si tratta almeno in parte di studio che unisce l'utile al dilettevole visto che il webmaster si interessa sia personalmente che professionalmente a questo settore. Se invece parliamo di accessibilità come detto e107 è già molto evoluto da questo punto di vista e abbiamo un "beta tester" interno attentissimo e interessatissimo a che tutto funzioni al meglio. Se poi parliamo di estetica dei contenuti molto. Nascono e si sviluppano interminabili discussioni sul singolo colore, l'icone, la frase o che altro. D'altra parte da gente che si diletta di letteratura cosa vi aspettereste: remissività e laissez faire? Se infine parliamo dei contenuti in sé ancora di più: a titolo di esempio la discussione finale sulla stesura del nostro manifesto riempie un forum con un numero di interventi compresi tra i 150 ed i 200... Se vi sembra poco! Insomma: possiamo dire che lo studio e la cura non mancano; fortunatamente siamo in tanti, ciascuno dice la sua e ciascuno opera secondo le sue possibilità, capacità e interessi, per cui magari lentamente ma il lavoro necessario viene sempre portato a termine.


Con quali modalità vengono prese le decisioni per quanto riguarda l'individuazione degli strumenti informatici?

FV. Vige la più libertaria, anarchica e felice... dittatura! C'è solo il webmaster con una sufficiente conoscenza tecnica da poter accedere alla gestione completa degli strumenti del sito. Inoltre dispone di tutte le (innumerevoli) password necessarie per la gestione di basso livello degli strumenti, per cui ciò che dice lui è sacro. Per fortuna è molto gentile e disponibile e cerca di soddisfare qualsiasi richiesta gli venga fatta, perfino quelle che in prima battuta lo fanno incazzare per la loro apparente assurdità. Scherzi a parte, le cose stanno più o meno proprio così: la maggior parte dei componenti de iQuindici ha un livello di conoscenza informatica da utente finale, qualcuno da utente finale evoluto, pochissimi vanno oltre l'uso di strumenti di editing avanzati; conoscenze (ed interesse) a livello di programmazione di software sono forse patrimonio di due o tre persone. Se a ciò si aggiungono le necessarie competenze sui database, le telecomunicazioni ed Internet, qualche base di Linux che è l'ambiente elettivo di e107 e la programmazione PHP la rosa diviene ristrettissima, dunque tutti propongono ma solo il webmaster dispone! ;-)


Peacelink : Telematica per la pace

Indirizzo: http://www.peacelink.it/ Licenza: copyleft


L'origine di PeaceLink va ricercata nel volontariato "telematico" e nella sua storia attraverso cui, con il vocabolario della non violenza e della resistenza alla cultura della guerra, assume le sembianze dell'informazione e del giornalismo d'inchiesta esaltando una tradizione che in Italia poco ha attecchito. Perché in questo paese appartengono a mosche bianche le voci che hanno regalato agli italiani frammenti di verità altrimenti mai emerse. I pochi esempi citabili tra i possessori del tesserino da giornalista sono quelli di Andrea Purgatori (Il Corriere della Sera) e Daria Lucca (Il Manifesto) sul caso Ustica, Milena Gabbanelli e Bernardo Iovene (Report) su una serie eterogenea di argomenti e ancora Maurizio Torrealta sull'omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Pochi altri si possono aggiungere a una tradizione professionale che, dalle folte schiere del suo albo nazionale con tanto di praticantato ed esame abilitante, guarda con ammirazione i tempi in cui Bob Woodward e Carl Bernstein dalle colonne del Washington Post davano lezione al mondo intero a colpi di Watergate, ma poi rinuncia rincorrendo liti di partito, faide consumate nelle stanze dei bottoni, storiacce di provincia e gossip estivi.

Eppure l'area della nonviolenza ha contribuito moltissimo alla difesa dell'informazione, al recupero di fatti, all'emersione di situazioni che altrimenti sarebbero rimaste insabbiate. Si pensi a Peppino Impastato che, dalle frequenze di Radio Aut, raccontava la mafia siciliana e le sue aggressioni quotidiane. O ancora a Mario Francese, Mauro De Mauro e molti altri. Senza voler qui compilare l'epitaffio del giornalismo d'inchiesta, torniamo a PeaceLink che, con il suo lavoro, ha parlato in questi anni degli stabilimenti dell'Ilva di Taranto e delle loro emissioni inquinanti, dell'uranio impoverito e delle sporche guerre dei Balcani combattute a suon di armi impronunciabili, del G8 di Genova quando nel luglio del 2001 si registrarono i più sanguinosi e ambigui assalti alla popolazione civile che manifestava pacificamente, di ecomafia e del giro affaristico che cresce dietro lo smaltimento illegale dei rifiuti, o della lottizzazione dell'acqua, bene la cui artificiosa scarsità sta generando profitti da capogiro per chi ne gestisce l'erogazione con le regole della malavita.

PeaceLink è anche questo e scandisce accanto agli argomenti di cui sopra una nuova storia della pace che, contrapponendosi alla politica del Risiko in real life, esalta parallelamente le conquiste pacifiche del progresso umano. Come si fa?, verrebbe da chiedersi. Con la comunicazione e l'informazione, risponde chi da anni lavora su questo fronte, avendo davanti esempi illustri a cui ispirarsi: il Mahtma Gandhi che ha usato le parole contro l'occupazione coloniale inglese o Oscar Romero, vescovo del Salvador, che dal pulpito e da una radio, fece appello alle coscienze dei militari perché rifiutassero ulteriori violenze su gente inerme.

Ma la libertà di informazione si paga in diversi modi. Si paga anche quando non si percepisce un compenso diretto nemmeno per la pubblicazione di banner, spazi pubblicitari che potrebbero distrarre il focus informativo a favore degli inserzionisti stessi. E così PeaceLink difende la propria libertà di informazione con la campagna "Banner free" a garanzia di ciò che pubblica. Ma si paga anche quando ci si vede recapitare una denuncia per aver pubblicato (anzi ripreso, visto che era già comparso altrove) il manifesto di un forum ambientalista che conteneva anche la firma di un consulente Nato per questioni ambientali e militari. Ammontare della richiesta di risarcimento: 50 mila euro. Se anche poi la vicenda si è conclusa con un nulla di fatto, il pagamento previsto per la propria attività ha richiesto anni di difesa che, probabilmente, se si facessero i conti avrebbe un costo molto alto.

Se a tutto questo si aggiunge infine (ma non ultima) la politica di rilascio dei contenuti di PeaceLink, che possono essere riprodotti, ecco che si completa un puzzle complesso ma coerente, che torna alla libertà di informazione anche laddove questa si fa di carta, come nel caso di Italian Crackdown, libro uscito nel giugno 1999 e firmato da uno dei leader storici dell'associazione, Carlo Gubitosa, che ripercorre i fatti del 1994 quando il giro di vite contro gli hacker di casa nostra portò a «sequestri, censure, perquisizioni, intimidazioni e violazioni dei diritti costituzionali [...] nel più totale disinteresse dei media e della politica».

È sempre Carlo Gubitosa che risponde all'intervista dedicata a PeaceLink e porta, con le sue parole, a capire meglio un'organizzazione che rappresenta oggi una colonne portanti per l'informazione in Rete e il cui valore esce dalla Rete stessa laddove smuove situazioni spinose lavorando perché diritti violati vengano ristabiliti.


Peacelink non è solo un sito, ma un sito di siti i cui argomenti, pur legati da un filo conduttore comune, trattano argomenti tra di loro differenti. Come è avvenuta una crescita così rigogliosa e articolata? Attraverso quali criteri valutate l'inserimento di una nuova area tematica? Esiste un monitoraggio sull'evoluzione dell'area in modo che rimanga all'interno dei canoni su cui si fonda Peacelink?

La crescita rigogliosa del nostro sito e della nostra piccola comunità virtuale che pratica in rete le tecniche della comunicazione nonviolenta è stata il frutto di una ben precisa scelta organizzativa, che si distingue dal controllo verticistico delle redazioni tradizionali e dall'open publishing dei siti di movimento. La nostra associazione non ha una struttura verticistica perché uno dei principi fondamentali della nonviolenza è la coerenza dei fini con i mezzi. Le forme tradizionali di associazionismo gerarchico, con strutture a piramide che controllano tutti i contenuti prodotti dall'associazione, possono essere efficaci in vari contesti, ma sono poco adatte alle esigenze di velocità, fluidità e azione parallela che caratterizzano un sito Internet come il nostro. PeaceLink, infatti, non vuole essere semplicemente una fonte di informazione alternativa, ma un vero e proprio strumento di azione diretta nonviolenta, grazie al quale siamo riusciti a denunciare l'inquinamento industriale a Taranto con la chiusura di una sezione dell'Ilva, abbiamo portato a Strasburgo documenti e denunce sulla pericolosità dell'uranio impoverito, abbiamo combattuto decine di piccole lotte nonviolente che hanno confermato la nostra fiducia nel grande potere che oggi possono avere dei gruppi di cittadini motivati (anche pochi e con pochi soldi) che utilizzano in modo virtuoso le tecnologie della comunicazione per un cambiamento dal basso che non passi attraverso strutture di potere violento. Quindi un'associazione come la nostra proprio per essere basata sui valori della nonviolenza non poteva darsi una organizzazione democratica, che afferma la dittatura della maggioranza, ma si è data una organizzazione omnicratica, dove si esercita "il potere di tutti" teorizzato e praticato da Aldo Capitini, Danilo Dolci, Martin Luther King e altri padri fondatori della cultura nonviolenta. Grazie all'esercizio di questo potere chiunque, anche l'ultimo arrivato, può scrivere un editoriale per il sito e affinché questo editoriale sia veramente espressione del potere di tutti, al lavoro di scrittura si affianca anche il continuo e incessante lavoro sotterraneo di confronto, comunicazione e scambio di idee che anima le mailing list della redazione e del gruppo di traduttori, che sono la vera linfa vitale del sito e dell'associazione. Anche queste liste, ovviamente, sono dei gruppi aperti e sempre disponibili a includere nuove persone. Accanto al lavoro quotidiano omnicratico esistono anche strutture di democrazia formale (probiviri, presidente, segretario, assemblea dei soci) previste dallo statuto con il quale siamo registrati come associazione di volontariato, ma al di là dell'organizzazione formale il lavoro concreto che svolgiamo ogni giorno permette a chiunque di esprimersi e realizzare iniziative indipendentemente dal suo ruolo formale e "ufficiale" all'interno dell'associazione. Questo ci distingue anche dall'open publishing, che si basa sul principio di garantire a chiunque il diritto di pubblicare informazioni su un sito. Noi pensiamo che ci siano due grossi problemi legati a questa pratica: il primo, di natura squisitamente tecnica, è un bilancio tra gli effetti benefici dell'aprire a chiunque le porte del proprio sito e gli inevitabili danni legali che ne derivano. Noi siamo appena usciti, e con grande fatica, da una causa civile con una richiesta di risarcimento da 50 mila euro e, visto lo sforzo necessario ad assumerci la responsabilità delle cose scritte da noi, rivendicando fino all'ultimo l'assurdità delle accuse nei nostri confronti, pensiamo che sarebbe al di sopra delle nostre possibilità difenderci anche da accuse derivate da cose che non abbiamo scritto noi, ma semplici visitatori di passaggio sul sito. Il secondo problema è che l'open publishing garantisce apertura anche a contenuti violenti e aggressivi, e per questi contenuti non c'è spazio sul nostro sito, dal momento che lo stile della nostra comunicazione è basato sul rifiuto della violenza, non solo quella dei bombardieri che vanno in guerra, ma anche la violenza dei toni "urlati" e delle aggressioni verbali che fanno salire l'audience dei talk-show televisivi ma di certo non fanno fare passi avanti all'umanità. Il nostro sito non garantisce servizi di open publishing, ma la nostra associazione garantisce servizi di open community, cioè spazi aperti, liberi e orizzontali dove chiunque può inserirsi, condividere idee, sensazioni e proposte con altri e realizzare liberamente iniziative di comunicazione nonviolenta senza l'appesantimento di votazioni continue, dibattiti estenuanti o altri meccanismi che rallentano il lavoro di altre associazioni. Crediamo che la libertà di azione su un sito vada necessariamente supportata da un buon lavoro di comunicazione e dalla creazione di una comunità solida con valori condivisi, e pertanto chiunque può pubblicare articoli sul nostro sito, ma il percorso che porta alla pubblicazione è più complesso di un "copia-incolla-click" e passa attraverso il confronto tra le persone, la comunicazione orizzontale e la partecipazione a una comunità unita da valori e sogni comuni. È raro che si debba sudare per arrivare ad una posizione comune e di solito quello che viene scritto viene condiviso perché ci sono sensibilità molto simili, oppure viene rispettato proprio perché la cultura della nonviolenza è refrattaria al "pensiero unico" e all'omogeneizzazione delle voci e quindi sul nostro sito vengono espresse sensibilità e idee molto varie, tutte accomunate dal ripudio della violenza ma spesso anche molto diverse tra loro, nonostante il punto di partenza comune. Questo non ci sembra un segno di schizofrenia o di confusione, ma al contrario una grande ricchezza. Per questi stessi motivi la creazione di una nuova area tematica non è soggetta a particolari procedure o approvazioni, ma dipende unicamente dalla disponibilità di chi si impegna ad alimentarla con un lavoro di pubblicazione continuo, anche se non intensivo: per fare volontariato dell'informazione con noi bastano anche un paio d'ore al mese. Non abbiamo un controllo totale di quello che viene inserito sul nostro sito, né verifichiamo che tutti i contenuti siano "ortodossi" rispetto ai principi dell'associazione. L'omnicrazia significa dare potere a tutti ma anche responsabilizzare tutti, quindi l'unica forma di controllo che abbiamo è la risposta a questa domanda: ci fidiamo delle persone che alimentano i contenuti del sito? Se la risposta è sì (e finora è sempre stato così), i rapporti di fiducia, le relazioni umane, la stima e la conoscenza reciproca rendono inutile la verifica censoria dei contenuti. Una buona comunità orizzontale e omnicratica produce della buona informazione, e la qualità di questa informazione è proporzionale alla qualità e all'intensità dei rapporti umani, che cerchiamo di alimentare e ravvivare con periodici incontri "dal vivo". Durante questi incontri ci piace anche cantare, mangiare, ridere e giocare assieme, proprio per rafforzare i rapporti umani che sono la nostra vera risorsa e che ci rendono più ricchi di tante realtà dell'editoria commerciale anche se il nostro bilancio è di poche migliaia di euro all'anno.


Il materiale pubblicato, alla luce della proliferazione delle sezioni, è molto. In termini numerici, di quante pagine si sta parlando? E in termini di accessi al sito, cosa dicono le vostre statistiche in fatto di navigatori, aree più visitate, paesi di provenienza degli utenti e sistemi operativi e browser utilizzati? Che tipo di feedback avete da parte degli utenti? Che genere di messaggi vi inviano?

Dal 2003 usiamo un content management system realizzato da Francesco Iannuzzelli, un ingegnere informatico che collabora da anni con PeaceLink e ora ricopre l'incarico di portavoce dell'associazione, anche se la sua voce si sente poco proprio perché passa molto tempo a realizzare i programmi che utilizziamo sul nostro sito :-). Questo programma, che si chiama Phpeace (www.phpeace.org), è stato rilasciato come Free Software e le prossime versioni avranno un sistema integrato di licenze che permetterà di associare a ogni articolo varie licenze Creative Commons oppure le opportune indicazioni di Copyright qualora l'articolo sia tratto da altre fonti, come accade ad esempio per gli articoli dei quotidiani nazionali riportati sul nostro sito. Dal 2003 a oggi questo sistema ci permette di monitorare costantemente l'attività del sito, e posso dirti che alle 15.50 del 22 maggio 2005 la nostra "banca dati nonviolenta" contiene un totale di 48 gallerie fotografiche, 10.602 articoli, 5.395 immagini, 1.932 eventi segnalati nel calendario delle iniziative. A tutto questo materiale vanno aggiunte le "vecchie" pagine in HTML statico, quelle realizzate dal 1996 (data del nostro sbarco su Internet a partire dalle reti di BBS) al 2003 (anno di introduzione del Phpeace come programma "ufficiale" di pubblicazione del sito). Il feedback che ci arriva dagli utenti è davvero pressante: ogni giorno mi arrivano almeno 3 o 4 mail di gente che ci scrive per chiederci informazioni, contattare associazioni di cui hanno scoperto l'esistenza sul nostro sito, chiedere assistenza per cani e gatti (abbiamo una nutrita sezione sui diritti animali) o semplicemente insultarci nei modi e nelle forme più vari. Personalmente, per questioni di coerenza, finora ho sempre risposto alle mail di insulto ed è incredibile vedere come l'apertura di un canale di comunicazione con chi ti aggredisce sia talmente spiazzante e inaspettata da far scrivere "magari tutti i pacifisti fossero come voi" a gente che nella mail precedente ti aveva scritto "siete degli sporchi comunisti amici del terrorismo".


Dal punto di vista del rilascio dei contenuti, in che modo la libera veicolazione delle informazioni si riflette sul vostro lavoro? C'è concordanza di vedute all'interno del vostro gruppo sulla possibilità di permettere riproduzione e riutilizzo del materiale? Che genere di dibattito è stato condotto al vostro interno per arrivare a una posizione comune? E con i referenti delle aree tematiche? Avete mai riscontrato violazioni alle vostre politiche di licensing?

All'interno di PeaceLink siamo concordi nel permettere la libera diffusione dei contenuti prodotti da noi, con opportuna citazione della fonte e degli autori, non c'è mai stato bisogno di discuterne in quanto è sembrato a tutti la cosa più naturale, né mai si è posto il problema di introdurre un regime di pubblicazione diverso. Purtroppo non c'è ancora sensibilità su questi temi da parte del mondo esterno e spesso capita che i nostri contenuti vengano usati in modo appropriato, senza citazione della fonte o per scopi commerciali. Questo accade soprattutto con le gallerie fotografiche: spesso ho trovato delle foto mie pubblicate su altri siti o addirittura su riviste di movimento, senza neppure uno straccio di citazione della fonte, e addirittura una foto che avevo scattato a una bandiera arcobaleno durante una marcia Perugia-Assisi me la sono ritrovata in edicola come supporto cartonato alla vendita di una bandiera della pace di infima qualità, una di quelle bieche operazioni editoriali scattate sulla scia del successo delle bandiere, simili ai calendari e agli album delle figurine di Papa Woityla che imperversano ovunque.


Considerando la ricchezza di Peacelink, ci sono state richieste da parte della stampa "istituzionale" per poter utilizzare i vostri contenuti? Si cono creati rapporti di collaborazione continuativi? In caso affermativo, come vengono gestiti?

Partecipando a dibattiti e incontri sull'informazione, il nome di PeaceLink è ormai un marchio di fabbrica che viene riconosciuto molto facilmente e questo è un segnale di come su certe tematiche la nostra azione di volontariato abbia colmato dei veri e propri "buchi" dell'informazione commerciale, trasformando il nostro sito in una fonte primaria di riferimento per i professionisti dell'informazione. Basta cercare su Google parole come "Cecenia", "pace", "uranio impoverito" o "sottomarini nucleari" per trovare ai primi posti delle pagine web pubblicate sul nostro sito. Sono nati anche dei canali di collaborazione continuativi con alcune riviste e anche con quotidiani locali delle città dove i nostri volontari sono più presenti e attivi sul territorio, come ad esempio Taranto, la città del sud dove PeaceLink è nata nel lontano 1991.


Parlando invece dei libri, che titoli avete pubblicato finora? Con quali editori? In termini di vendite e/o di download, quali sono i dati? E in termini di commenti, impressioni e opinioni dei lettori, che genere di contatti si sono creati?

Dalla nostra associazione hanno preso vita anche alcune iniziative editoriali, come i libri pubblicati da me e da altri volontari. A titolo di esempio posso citare Cronache da sotto le bombe (Edizioni Multimage), un libro scritto a più mani che ha raccolto gli scambi di email con la popolazione serba durante i bombardamenti della Nato; Italian Crackdown (Apogeo), il primo libro italiano diffuso con una licenza di libero utilizzo sin dal primo giorno di presenza nelle librerie, quando ancora le licenze Creative Commons non esistevano, un libro nel quale ho raccontato i dettagli della caccia alle streghe che nel 1994 ha devastato la telematica sociale italiana; Apri una finestra sul mondo (Multimage), un libro scritto prima nella realtà e poi su carta, che raccoglie i "diari telematici" nati durante delle azioni di solidarietà verso l'Africa che PeaceLink realizza ormai da anni sostenendo il missionario comboniano Kizito Sesana; Oltre Internet, un piccolo manuale di comunicazione elettronica che ho scritto nel 1996 quando il boom della rete era appena agli inizi e soprattutto Telematica per la Pace, il libro che nel 1996 ha traghettato i temi informatici dal settore della manualistica a quello della saggistica, nel quale abbiamo descritto le esperienze pionieristiche di utilizzo sociale della rete. Le reazioni a questi libri sono state sempre molto buone, con vendite tutto sommato dignitose.

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