Il
feticismo della guardia: guerre, uniformi e altre oscenità
di Cristiano
Armati (Fonte)
Cera
una volta un bastimento carico di uomini neri. Uomini razziati
nel cuore del continente africano, legati uno allaltro
con un cappio stretto intorno al collo, segregati nel buio
delle stive, torturati e malnutriti: se sopravvivevano diventavano
schiavi. Carne fresca che al mercato di Mkunazini si vendeva
un tanto al pezzo: un dollaro per un bambino, dodici per una
bella ragazza, di più per un uomo grosso e forte. Tutto questo,
come ricorda il reporter Ryszard Kapuscinski (Ebano, Feltrinelli)
succedeva a Zanzibar, lisola maledetta, la "stella nera",
in pratica solo uno dei luoghi dove i mercanti portoghesi
(e altri con loro e dopo di loro), grazie allapprovazione
dei re e alla benedizione di dio, smerciavano gli schiavi
diretti alle piantagioni degli Stati Uniti o del Brasile:
schiavi che i mercanti chiamavano semplicemente "ebano", sottolineando,
con questo nome, come gli uomini resi oggetto del loro commercio
non fossero altro che cose.
Ridotte a cose, le esistenze degli schiavi vennero condannate
al lavoro brutale e coatto mentre, le manifestazioni delle
loro menti, furono umiliate e negate. Fu allora, infatti,
che le visioni del mondo e i saperi antichi e preziosi degli
uomini africani resi schiavi vennero passate al vaglio della
teologia cristiana e dello scientismo razzista anche se, ancora
una volta, furono i mercanti portoghesi a trovare un nome
ai comportamenti rituali e alle raffigurazioni di divinità
che, derise in quanto reputate primitive e irrazionali, vennero
indiscriminatamente archiviate sotto la voce "feticismo".
Così, quegli oggetti ai quali le popolazioni locali rivolgevano
una particolare devozione, divennero "feticci" mentre i "feticisti"
sarebbero stati gli adepti di un culto che i primi missionari,
considerandolo frutto del demonio oppure esempio di degradazione
umana, provarono con zelo a sradicare.
Feticismo, colonizzazione,
cosificazione
Dal gergo dei mercanti, attraverso le relazioni compilate
da missionari e da viaggiatori, il termine portoghese "fetiço"
venne tradotto in tutte le lingue europee. Letimologia
della parola, derivata dal latino "factitius" (artificiale),
lasciava intendere che, di fronte al feticcio, si aveva a
che fare con un oggetto prodotto mediante un procedimento
tecnico, un procedimento che trasferiva alloggetto il
controllo di quelle qualità che la natura offre alluomo
come incerte: la fertilità della terra, la clemenza del tempo
atmosferico, la capacità di procreazione. Con questa accezione,
il feticismo entrò a far parte della scienza delle religioni
nella seconda metà del XVIII secolo grazie alla fortunata
opera del magistrato francese Charles De Brosses il quale,
raccogliendo le riflessioni operate da Hume nella sua Storia
naturale della religione (1757), scrive Sul culto degli dei
feticci o parallelo dellantica religione egiziana con
la religione attuale della nigrizia (1760; trad. it. Bulzoni,
2000), un libro che trasforma quelle che erano state le visioni
preconcette di osservatori occidentali in un sistema religioso
di senso compiuto e che, sostenendo una teoria evolutiva della
storia umana, colloca tale sistema religioso sul gradino più
basso dello sviluppo morale e materiale: quello dellinfanzia
dellumanità.
Stigmatizzando limpostazione di De Brosses, letnologo
Marcel Mauss (1907) negò ogni validità scientifica al concetto
di feticismo, contribuendo in maniera decisiva a collocare
la storia di questa idea sul versante del malinteso. Un malinteso
che, se riletto attraverso il Discorso sul colonialismo del
poeta martinicano Aimé Césaire (1955; trad. it. Lilith, 1999),
rende il feticismo un miraggio, un pregiudizio nato allinterno
di rapporti quelli tra colonizzato e colonizzatore
che: «trasformano il colonizzatore in pedina, in maresciallo,
in guardia-ciurma, in frusta e lindigeno in strumento
di produzione». Poiché tra colonizzatore e colonizzato, continua
Césaire: «cè posto solo per il lavoro duro, lintimidazione,
la pressione, la polizia
»; allora, conclude il poeta:
«Adesso tocca a me porre unequazione: colonizzazione=cosificazione».
Uomini e cose
Rinchiudendo le credenze degli indigeni africani tra le sbarre
della categoria feticismo, i colonizzatori crearono una realtà,
quella di unumanità stupida e barbara, e, allo stesso
tempo, prescrissero i modi con cui affrontarla, suggerendo
la necessità di un domino territoriale che sottraesse ai suoi
legittimi abitanti tutte quelle ricchezze che essi, nellopinione
degli stessi colonizzatori, non sarebbero stati capaci di
sfruttare in maniera razionale.
Certo è che, esplorata alla luce di questa prospettiva, la
riduzione al feticismo delle culture africane suona come grottesca
e paradossale. "Feticiste", infatti, non sono tanto le credenze
dei gruppi umani che attribuiscono una forza magica e sacrale
agli oggetti del loro culto. Feticisti, piuttosto, sono i
comportamenti degli stessi colonizzatori che, nei confronti
degli indigeni, operarono quel "doppio scambio" che nel suo
Fascino. Feticismo e altre idolatrie (Feltrinelli), il filosofo
Ugo Volli riconosce come la faccia buia dei rapporti di potere
occultati dal fascino ambiguo delle cose. Perché, proprio
nel comportamento dei colonizzatori, vediamo il modo in cui:
«ciò che dovrebbe essere soltanto una cosa inerte»
la frusta: simbolo dei colonizzatori e del loro ruolo
«si presenta con i caratteri più intensi della vita e del
potere,» mentre: «ciò che è vivo e riguarda la persona»
gli indigeni soggetti alla colonizzazione «risulta
ridotto a puro oggetto, cosa fra le cose».
Attraverso le riflessioni di Ugo Volli, in sostanza, vediamo
come il feticismo degli schiavisti europei si abbatta sui
popoli africani attraverso il superamento di un confine: quello
che separa gli uomini dalle cose. La schiavitù, da questo
punto di vista, è unautentica "deprivazione dellumano",
una pratica che, se ebbe modo di sfogare la sua ferocia in
oltre quattrocento anni di impunito esercizio sul territorio
africano, allo stesso tempo non garantì alla placida Europa
limmunità dai terrificanti effetti di ritorno del mostro
che essa aveva creato. Arriviamo, così, ai campi di concentramento
nazisti, ai gulag sovietici e, risalendo la corrente del dramma
fino alla contemporaneità, tocchiamo i campi che, nella ex
Jugoslavia, sono stati allestiti nel nome della pulizia etnica
e sulla scia di quellazione disumanizzante che lEuropa
praticò in Africa senza poter fare a meno di insegnarla a
se stessa. «E così, un bel giorno,» commenta Césaire: «la
borghesia viene svegliata da un formidabile contraccolpo:
le gestapo si danno da fare, le prigioni si riempiono, i torturatori
inventano, rifiniscono, discutono intorno ai cavalletti».
Quello che veniva preparato, attraverso il nazismo, era il
tragico epilogo di una volontà di dominio fondata, come nel
caso della colonizzazione, sullelezione di una parte
del genere umano a razza eletta; labbattimento di ogni
distinzione tra luomo e loggetto era ciò che,
nella schiavitù come nel nazismo, sarebbe stato celebrato.
Quando il potere indossa luniforme
Numerosi intellettuali hanno riflettuto sulla barbarie del
nazifascismo e sulla crudeltà della colonizzazione e della
schiavitù rinvenendo, in questi tristi periodi storici, linserimento
coatto di interi popoli e intere culture allinterno
delle strutture di uno spietato dominio sado-masochista. Basti
ricordare, a tal proposito, il terribile Doveri di violenza,
dello scrittore maliano Yambo Ouologuem o, per restare tra
i militari, il pluricensurato Salò di Pier Paolo Pasolini.
Il film di Pasolini, in maniera particolare, mette in scena
una sorta di iconografia funebre che ha nelle impeccabili
divise, negli stivali tirati a lucido, nelle lucenti decorazioni
di guerra, i suoi luoghi centrali. La sbirraglia nazifascista,
daltra parte, ha curato in maniera ossessiva le uniformi,
nascondendo dietro le croci al merito lincredibile villania
di massacri che, spesso e volentieri, vennero perpetuati ai
danni dellinerme popolazione civile.
La questione delle uniformi, tra quelle sollevate dai problemi
della guerra, potrebbe sembrare una materia futile e scontata
essendo, le uniformi, un semplice mezzo di distinzione, un
modo per distinguere un esercito da un altro. Oltre questa
considerazione tecnica, però, lo studio della storia degli
eserciti europei mostra come, le uniformi, furono tuttaltro
che la prima preoccupazione degli stati nel momento in cui
questi equipaggiavano i loro eserciti. Al contrario, il problema
delluniformità dellesercito come il problema
del feticismo si pose come tale soltanto nel
corso del XVIII secolo e, come mostra la storica Sabina Loriga
in un libro (Soldati, Marsilio) dedicato al più antico esercito
italiano, quello piemontese: «ci vollero molti anni perché
la divisa, distribuita per la prima volta nel 1671, diventasse
un elemento caratteristico e insieme scontato della vita militare».
Ecco, allora, i pantaloni bianchi, il giustacuore azzurro,
la sciarpa azzurra intrecciata doro: «anche grazie a
tanta armonia cromatica,» spiega la Loriga, «la divisa permetteva
di segnare luniformità della truppa: fili di corpi della
stessa altezza, visi e baffi uniformi».
Attraverso lazione di questa nuova politica militare,
in sostanza, il difforme elemento umano che compone lesercito
viene eliso dalluniformità delle nuove divise, simulacri
del potere di vivere o, come direbbe Foucault, di respingere
nella morte. Unoperazione feticista in piena regola,
dunque, quella che attraverserà le caserme del XVIII secolo
e che si soffermerà sui corpi dei soldati per addomesticarli
alle esigenze di una nuova gerarchizzazione sociale che, se
restituirà al mondo il soldato in uniforme, segregherà il
soldato nei cordoncini e nelle mostrine della sua stessa divisa,
lo distinguerà in maniera irriducibile dal civile e lo preparerà,
già nel corso del XIX secolo, a rendersi responsabile dei
più grandi massacri mai ricordati nella storia dellumanità.
Massacri che, in massima parte, saranno destinati ad abbattersi
sulla popolazione civile: uomini, donne e bambini privi di
quei "caratteri intensi della vita e del potere" che "il feticismo
della guardia" toglie alla gente comune e riconosce alluniforme.
Il fascino della divisa, il feticismo
della guardia
«Anche le donne che sostengono di non badare che al fisico
dun uomo,» scriveva Proust ne La strada di Swann, «vedono
in quel fisico lemanazione di una certa vita. È la ragione
per cui sinnamorano dei militari, dei pompieri: luniforme
le rende meno esigenti per il viso; credono baciare sotto
la corazza un cuore diverso, avventuroso e dolce».
Tuttavia Anna, una giovane ragazza moldava, non si è innamorata
di nessuno, semplicemente: «Per cento dollari potevano fare
di me ciò che volevano, arrivavano ubriachi a qualsiasi ora,
pagavano e facevano di tutto. Volevo chiedere aiuto ad uno
dei tanti soldati che mi hanno portata a letto ma loro pagavano,
volevano solo una cosa e non ascoltavano» (DallAvvenire
del 2.2.2001). I soldati di cui parla Anna sono i militari
della Kfor, la forza Nato che deve avere una bizzarra idea
della pace visto che, la sua presenza nei Balcani, più che
alla causa della pace ha giovato, finora, alla causa
dello sfruttamento della prostituzione.
Come i loro colleghi della Kfor, anche alcuni militari del
contingente italiano di stazza a Massaua, impegnati a garantire
la difficile pace tra Etiopia ed Eritrea, sembrano vivere
"il fascino della divisa" che indossano limitandosi ad utilizzare
lAltro (il civile) come una cosa: coinvolti in un giro
di prostituzione infantile che prevedeva orge con bambine
di 10, 11 anni sono stati privati della libera uscita per
punizione. Daltronde, protestava il funzionario Farkhan
Haq: «quando nella scorsa primavera è scoppiato un caso simile
(
) e che coinvolgeva soldati del contingente olandese,
la commissione era formata esclusivamente da funzionari delle
Nazioni Unite» (Da La Repubblica del 25.08.2001).
Funzionari che, negli ultimi tempi, si sono trovati a fronteggiare
una serie documentata (oltre 1500 testimonianze) e agghiacciante
di accuse che puntano il dito contro i campi profughi e contro
i caschi blu in missione di pace in Africa Occidentale. Questi
barattavano il cibo, le tende e gli altri aiuti umanitari
con il sesso dei loro spesso piccolissimi assistiti: «Lindagine
ha anche appurato le cifre pagate dagli operatori: una ragazza
liberiana ha ottenuto 10 centesimi di euro; in Guinea alcuni
caschi blu avrebbero pagato 5 euro» (Nota UNHCR-Save the Children
del 27.2.02).
Cifre, queste pagate dai militari moderni, che farebbero invidia
a un negriero di tre secoli fa, segno che il feticismo della
guardia concede soltanto quel tanto che basta alla sopravvivenza
dei mezzi di riproduzione (del proprio piacere) e in questo,
tale forma di deprivazione dellumano, non si discosta
dal feticismo delle merci di cui parlava Marx quando criticava
lattitudine capitalistica a presentare i rapporti tra
le persone e le classi sociali, non come rapporti tra uomini,
ma come rapporti tra cose. Rapporti che negli ultimi tempi
sono tornati a stabilire limiti sempre più angusti allessere
umano visto che non si sono fatti scrupolo di trasformare
nelle cifre statistiche previste dalla "guerra preventiva"
allIraq quelle che, nella realtà, sono persone morte
nel corso delle sviste di "bombardamenti chirurgici" dei quali
si racconta che sono stati dolorosi ma inevitabili. Inevitabili
proprio perché questo fa il feticismo della guardia: dispensa
guerre, uniformi e altre oscenità.
|