Psicologia e Biopolitica di Luigi D'Elia

 La psicologia è un vastissimo campo del sapere al servizio dell'uomo, ma di quale uomo la psicologia sia al servizio non ci è dato di saperlo con certezza.

Per la psicologia, in ragione delle sue peculiari e, se vogliamo, storiche attitudini ad occuparsi dappresso della qualità di vita, dei pensieri, delle relazioni, dei legami sociali, dei comportamenti, e - per usare un termine sempre insaturo e indefinibile - del benessere psicologico (e di converso delle ambasce e dei dolori) dell'uomo e dei contesti in cui egli vive, questa domanda non appare assolutamente oziosa.

 

Essendo dunque specialmente scienza per l'uomo, la psicologia riflette di tanto in tanto ' e forse non abbastanza - su se stessa, e si domanda di quale uomo - intendendo qui di quale rappresentazione, tipo, paradigma di uomo storicamente fondato - si sta in realtà occupando.

In questa operazione di autocoscienza la psicologia deve però ricorrere alle armi della sua lontana parente, la filosofia, verso la quale il debito è ben lungi dall'essere ripianato.

 

Nella domanda appena formulata: di quale uomo la psicologia si occupa, vi è in un certo senso - e in densità assoluta - il contenuto concettuale di Biopolitica, in quanto tale ambito di ricerca contestualizza, tra le innumerevoli declinazioni ad esso attribuibile, la cornice socio-politica in cui si muovono le rappresentazione dell'umano ed i suoi mutamenti.

 

Cosa c'entra allora la Biopolitica con la Psicologia, e perché fare riferimento a questo concetto, nato in ambientazioni culturali del tutto differenti e su riflessioni affatto lontane dal mondo della psicologia? E perché il sapere biopolitico è utile nella ricerca sulle nostre fondamenta etiche?

Proverò a rispondere ai quesiti nel corso di questo mio contributo.

 

La Biopolitica

 

Molte le definizioni di Biopolitica, vediamone solo alcune.

La Biopolitica potremmo definirla molto semplicemente come la politica applicata alla vita umana.

Per M. Foucault è una tecnica di potere nata nel XVII secolo che le culture politiche del '900 hanno perfezionato producendo un controllo sulla vita biologica e sull'esistenza in generale. Attraverso in particolare l'analisi del liberalismo dello scorso secolo fino ai nostri giorni, Foucault svela i meccanismi di controllo sul corpo individuale e sociale al fine di una maggiore regolazione della popolazione attraverso nuove tecnologie di potere che riguardano essenzialmente nascita, morte, riproduzione, demografia, malattia, salute.

In altri termini, è l'insieme delle pratiche governamentali e dei dispositivi di normalizzazione con cui il potere si cura, o fa mostra di curarsi dell'esistenza in vita, nonché della qualità della vita, di popolazioni e individui. (E. De Conciliis)

Biopolitica sarebbe dunque l'era, che Foucault data a partire dal XVII secolo, in cui la sovranità non si caratterizza più tanto per il diritto di dare la morte ai sudditi, ma per il potere di presidiare, allungare, risanare la vita dei cittadini; in cui «la funzione più importante del potere non è forse più di uccidere ma di investire direttamente la vita».(Ida Dominijanni)

Secondo Roberto Esposito, studioso e principale continuatore della ricerca foucaultiana sulla biopolitica: <<l'umanità dell'uomo non può più essere pensata al di fuori del concetto, e anzi della realtà naturale, del bíos. La vita singolare e collettiva, nelle sue esigenze di conservazione e di sviluppo, è oggi l'unico criterio di legittimazione universale che dia senso alle pratiche politiche, sociali, culturali del nostro mondo>>.

 

La Psicologia come pratica Biopolitica

 

Da quanto deduciamo da queste diverse definizioni/contestualizzazioni, ogni pratica che sia riconducibile alla regolamentazione intorno il vivente umano concerne la Biopolitica, dunque anche tutte le pratiche che riguardano il cosiddetto ben-essere ed ogni prospettiva di progresso della qualità di vita, così come le declinazioni di salute-malattia, normalità/patologia.

 

Ricordo, circa 15 anni fa, durante una sessione formativa al primo anno di specializzazione in psicoterapia la domanda posta agli allievi su cosa loro intendessero per benessere, e altresì ricordo la risposta prevalente degli allievi orientata a sovrapporre smaccatamente e acriticamente benessere e fitness, forma fisica.

O pensiamo alle successive edizioni del DSM e al comparire/scomparire/rinominare di descrizioni nosografiche e psicopatologiche di varia natura ed entità - tra le quali ricordiamo su tutte anche l'omosessualità - talora pensate e vissute operazionalmente dagli addetti come entità oggettive.

O pensiamo alla recente liberatoria in Italia per la vendita di psicofarmaci per i minori ed al fitto dibattito per accreditare tali pratiche e di conseguenza su ciò che sarebbe o non sarebbe vera scienza.

O pensiamo alle domande che si pone la ricerca in psicologia e psicoterapia circa il valore euristico delle proprie pratiche, dei propri protocolli e procedure, delle proprie linee guida.

O pensiamo infine alla biologizzazione/genetizzazione a cui si assiste da tempo in tutta l'informazione sui fenomeni inerenti al 'mentale'.

 

Ecco, nelle pieghe di questi sistemi di rappresentazioni, e di molti altri ancora, 'scava' il sapere Biopolitico.

                                                                     

Potremmo addirittura affermare, andando a guardare la sua storia, che tutta la psicologia moderna nasce, come sapere disciplinare, da incalzanti esigenze biopolitiche, finalizzate allo studio, applicazione, miglioramento dei fenomeni psichici e comportamentali. Dall'invenzione delle testistica su intelligenza, attitudini, personalità, fino alle più recenti applicazioni cognitive e neurocognitive, passando da ogni modello metapsicologico, psicodinamico, antropologico: ogni teoria della tecnica finalizzata alla ricerca e applicazione sulla psiche umana sottende, in maniera più o meno esplicita, un tipo di uomo storicamente delineato che è coerente con il movimento più ampio e complessivo delle culture prevalenti in cui ci si muove. Massimo De Carolis dice infatti, riferendosi agli ultimi decenni di storia, che in nessun altro periodo storico era mai accaduto e s'era mai visto che il pensiero ed il comportamento umano diventassero oggetto di manipolazione tecnica su larga scala così come sta accadendo ultimamente ad opera delle tecnologie cognitive.

 

Il sapere biopolitico prova allora ad inaugurare un'analisi ed una riflessione sui presupposti della psicologia, come anche delle altre scienze, alla luce dei meccanismi culturali e politici genealogicamente fondati.

 

Biopolitica e Psicologia s'intersecano allora su numerosi piani, anche se qui preferisco intendere e limitare questa intersezione agli impliciti rappresentazionali che attraversano impersonalmente e sovraordinatamente ogni pensiero e pratica dello psicologo e della psicologia, ma che allo stesso tempo ne orientano molto concretamente le pratiche.

 

Dunque, in sintesi: tipologie di uomo, rappresentazioni di salute, benessere, di qualità di vita e di converso di malattia e disagio, sono, all'interno dei nostri arcipelaghi 'psy', differenziati e molteplici, ma in definitiva anche riconducibili alle stesse costruzioni/categorie culturali prevalenti. Ma i saperi psy non si limitano a recepire passivamente il vento culturale, ma al contrario essi contribuiscono fattivamente alla costruzione della tipologia umana prevalente, o meglio del soggetto contemporaneo occidentale.

Questo rende automaticamente ogni operatore 'psy' longa manus di tale costruzione, in quanto egli stesso potatore di modelli impliciti dell'umano e del suo optimum. Tradotto nel lessico foucaultiano, la psicologia si candida ad essere una tecnologia disciplinare elettiva, o se vogliamo un dispositivo biosicuritario per il governo del sé.

E questo rende urgente la nostra riflessione etica.

 

Dall'"Homo psychologicus" all'"Homo oeconomicus"

 

Sul solco delle precedenti considerazioni, riprendo qui il pensiero di Mario Bertani (L'anima di Foucault e la nostra nel tempo della neuropolitica) nel quale mi è parso d'intravedere e riconoscere una traiettoria, o se vogliamo, una parabola dei nostri tempi. Cito direttamente questo fondamentale testo:

<<Dalla lunga plongée genealogica ci è giunta, in particolare, la descrizione delle peripezie, delle metamorfosi, delle trasformazioni che, dal soggetto etico antico, via le pratiche confessionali e il pastorato cristiano, ci hanno condotto a quell'Homo psychologicus che i vari saperi "psy", come Foucault li chiamava, hanno fabbricato da cima a fondo - fino a quel soggetto di desiderio di cui la psicoanalisi ha creduto di poterci fornire l'ermeneutica - mostrandoci così che alla fine, forse, le scienze della psiche, e con esse, dunque, la stessa psiche, non saranno state che un episodio nella plurimillenaria storia della costituzione di sé del soggetto umano in occidente, nella storia dei modi, delle procedure, delle tecniche, per mezzo dei quali gli uomini hanno organizzato una riflessione su di sé ed il governo di sé (e degli altri). Se un insegnamento fondamentale Foucault ci ha lasciato è la necessità di iscrivere le vicende dei saperi della psiche e delle istituzioni che vi si correlano nella storia delle tecniche di governo di sé. Vi incontreremmo, dopo la psicagogia degli antichi, il pastorato cristiano, che ha al centro l'esperienza enigmatica, ma al contempo decisiva, della confessione e della direzione di coscienza, che ha funzionato da matrice di tutti i saperi e i poteri che si sono annodati intorno agli uomini nella storia dell'occidente. E vi incontreremmo, inoltre, quella forma di razionalità politica specificamente moderna costituita dalle nuove modalità di presa in carico della soggettività che è rappresentata dalle "tecniche comportamentali", che hanno consentito di incorporare il vecchio "Homo psychologicus" all'interno del contemporaneo "Homo oeconomicus", quell'uomo "eminentemente governabile", la cui anima è diventata essa stessa una materia plastica e malleabile. Ma di questa lunga storia, ormai intravediamo la fine prossima. Le esigenze della moderna società del controllo e di ciò che è stato chiamato il "biocapital" hanno favorito l'emergere di nuove tecnologie di governo destinate a rendere possibile il "depistage" preventivo delle alterazioni virtuali, a riconoscere i segni premonitori delle malattie potenziali, ad individuare i fattori di rischio che, anche in assenza di sintomi, possono consentire di ricondurre tutta una serie di comportamenti, atteggiamenti, forme di vita, al registro del patologico. Registro che, a sua volta, si è infinitamente dilatato, inducendo a classificare come anomalie, segni di anormalità, prefigurazioni di malattie, o almeno di disturbo psichico, tutte quelle manifestazioni e condotte intorno a cui l'industria farmaceutica e il mercato delle terapeutiche vanno stabilendo indicazioni di intervento. La medicalizzazione delle più infime materialità dell'esistenza diventa allora il correlato necessario di nuove tecniche di governo: se l'azione del governo si spinge fin dentro la "fibra molle" del nostro cervello, ed è diventata capace di insinuarsi nel dettaglio infinitesimale del pensiero attraverso l'intervento sulla sua chimica e il consumo delle sostanze psicotrope, tutto ciò comporta, per il genealogista delle scienze della psiche, la coscienza di una serie di problemi, di cui Foucault aveva scorto l'emergere e intravisto l'importanza, ma senza fare in tempo ad indirizzare verso di essi il proprio sguardo. Mi riferisco al passaggio dall'Homo psychologicus, via la finzione del "corpo neurologico" che per un istante aveva potuto fondare le illusioni della neuropsichiatria tra '800 e '900, e la breve e provvisoria ricomparsa dell'Homo cerebralis, all'Homo neuronalis. Da oltre vent'anni, infatti, i progressi della biomedicina e l'estensione del suo potere, resi possibili dagli sviluppi delle neuroscienze, hanno determinato una singolare torsione delle altre scienze della psiche, che hanno esteso il loro campo di applicazione e ramificato i loro interventi, ma al prezzo di un radicale rimaneggiamento dei nostri giochi del vero e del falso e dei nostri regimi di verità. Di tale rimaneggiamento ['] è possibile tracciare (corsivo mio ndr) una prima e provvisoria cartografia, cercando in particolare di indicare come gli sviluppi della neuroimmunologia, della genetica molecolare, della psicofarmacologia, della neurochimica, abbiano iniziato a modificare alla radice i saperi millenari che gli uomini hanno organizzato a proposito di loro stessi, della loro identità, dei rapporti tra i loro corpi e le loro anime, così rendendo possibili le tecniche di controllo e governo che abbiamo raccolto sotto la rubrica, reintrodotta di recente da W. Connolly, della neuropolitica, ['] è possibile mostrarne le ricadute nell'ambito della psicopatologia. Innanzitutto, la riduzione della malattia mentale e della follia - di cui non a caso Foucault, testimone delle prime sperimentazioni delle prime sostanze psicotrope, preconizzava la prossima scomparsa - o del semplice disagio psichico ad un problema di disfunzionamento interno del soggetto; poi, il privilegiamento crescente, e virtualmente esclusivo, della tecno-scienza come dispositivo di spiegazione e di presa in carico della sofferenza e della soggettività; infine, il rinnovato vigore di pratiche di stigmatizzazione e individuazione, attraverso la vera e propria profusione di procedure di etichettatura e classificazione nosografica, che non hanno più necessità di ricorrere alle strutture istituzionali di un tempo (anche se all'occorrenza non se ne privano), e che hanno prodotto il progressivo abbandono di quelle modalità di confronto con la sofferenza che, certo più faticose e incerte, implicano tuttavia il costante riferimento agli universi molteplici (culturali, sociali, spirituali, ecc.) che contrassegnano ciascuna esistenza. Il ritorno alla sola "spiegazione", unitamente agli imperativi economici e tecnici dell'efficacia, hanno inoltre esasperato il ricorso massiccio all'attività diagnostico-classificatoria (DSM IV) che ha favorito un processo di "patologizzazione dei comportamenti", com'è stato definito, in cui ogni condotta ed ogni discorso non rigorosamente conformi rischiano di porre chi se ne fa portatore sotto il segno di una "devianza genica" anche solo virtuale che giustifica sia un'attitudine di carattere predittivo, sia un intervento di natura fatalmente coercitiva. All'orizzonte della ricerca nelle neuroscienze, poi, è possibile fin d'ora intravedere un progetto, che comincia del resto a diventare anche "senso comune", ovvero quello di arrivare a breve termine alla spiegazione e al controllo bioregolatore di ogni sorta di comportamento sociale, di sentimento morale, e quel che più conta di pensiero, che il corredo delle nuove psicoterapie cognitive, dei nuovi farmaci, delle nuove tecniche biochimiche capaci di agire selettivamente su aree specializzate e su metabolismi subcorticali microfisici, consentono di rendere operative>>.

 

Altrove io stesso ho provato a delineare alcuni passaggi significativi intorno ai quali i recenti mutamenti di assetto della grammatica del mentale ' a loro volta esito di mutamenti antropologici della modernità e post-modernità - determinano prospettive teorico-tecniche, ma soprattutto etiche, del tutto nuove in merito al lavoro dello Psicologo. Anche qui la costruzione dell' 'Homo oeconomicus' e delle sue inderogabili esigenze consumistiche sembra essere condizione preliminare rispetto alle attese 'terapeutiche' e fatalmente, per un facile gioco di circolarità e retroazioni, all'offerta di psicologia che su tali attese tenderà a modellarsi.

 

Prendersi cura dell'Homo oeconomicus e l'implicito della normalizzazione

Ricordiamo che la definizione di homo oeconomicus nasce, appunto, nell'ambito delle teorie economiche neoclassiche, e descrive un tipo umano le cui principali caratteristiche sono la razionalità (intesa in un senso precipuo, soprattutto come precisione nel calcolo) e l'interesse esclusivo per la cura dei suoi propri interessi individuali (Wikipedia), che si muove in ambientazioni di vita che seguono regole assimilabili alle regole del mercato.

La chiave biopolitica qui utilizzata disegna un tipo umano che nelle pratiche psicologiche veicola caratteristiche di necessaria razionalità, prevedibilità, utilitarismo, individualismo ed efficienza.

Ecco, la psicologia, come ogni altra scienza e soprattutto come ogni scienza sociale, 'lavora' con questo implicito, non certo dall'esterno, ma dall'interno della medesima semeiotica biopolitica. Essa richiederà dunque l'efficientamento di queste stesse caratteristiche e funzionerà, all'interno delle proprie istituzioni con le medesime logiche.

Scrive Pierangelo Di Vittorio: 'Il liberalismo è un naturalismo che usa la naturalità del mercato come costante verifica dell'azione di governo. ['] Con la teoria del capitale umano il neoliberalismo colonizza le scienze umane imponendo il paradigma economico ai campi più diversi della vita sociale e individuale. ['] La biopolitica neoliberale ha una base etica, riposa cioè su un progetto di libertà e su una tecnologia del sé. Che cosa vuol dire essere imprenditori di se stessi, manager della propria vita? Significa essere liberi di rispondere sistematicamente sì agli stimoli positivi, no a quelli negativi. Liberi, quindi, di essere governati da una razionalità bioeconomica che s'identifica con la natura stessa e che, psicologizzandosi, diventa risorsa e tecnologia soggettiva. L'etica neoliberista è un fai da te comportamentista di massa.'

 

In osservanza di ciò, lo psicologo diventa implicito custode delle coordinate di adeguatezza, guardiano del capitale umano, motivo per il quale la gran parte di coloro che si rivolgono ad esso si domandano (e domandano allo psicologo) prima o poi circa la 'normalità' di se stessi, di questo o quel pensiero, comportamento atteggiamento, rischiando talora di trovare nello psicologo un gratificato dispensatore di buon senso e di idoneità, un certificatore di normalità.

Egosintonia o egodistonia vanno perciò intese come forme legate alla fenomenologia psicologica (in questo caso riferita a 'sintomi' o 'tratti') che si riferiscono direttamente ad una costruzione biopolitica della tipologia umana più consona.

 

Mediatore simbolico privilegiato diventa l'oramai consolidata figura dello psicologo mediatico, lo psicologo-cagnolino da salotto mediatico, spesso molto rassicurante e consolatorio, talora sentenziante, talora giudicante, dispensatore di perle di saggezza, perfettamente integrato alle tempistiche antiriflessive ed anticonoscitive della comunicazione mediatica.

 

Fortunatamente non tutti gli psicologi inciampano in questa stereotipizzazione indotta dalla melassa culturale e comunicativa in cui nuotiamo, e molti provano ad aggirare o problematizzare queste insidie, applicando (spesso altrettanto implicitamente) saperi biopolitici autoriflessivi che rappresentano degli anticorpi naturali insiti nei saperi psicologici, come lo studio dei processi psicocosiali, lo studio critico dei processi istituzionali, studi filosofici, etc., che fanno talora dello psicologo un soggetto scientifico critico, umile e cauto.

 

L'interrogativo che però rimane inevaso riguarda la modalità con la quale la psicologia può prendersi cura dell'homo oeconomicus, e dell'homo neuronalis, suo diretto discendente, ed in buona misura quindi anche di se stessa, potendo mantenere una giusta distanza ed un equilibrio tra il facile ed inelaborato cavalcamento dell'implicito mandato di normalizzazione/adattamento/adeguamento post-modernista, e la tentazione reazionaria di sapore invece pre-modernista a denegare le mutazioni in corso, combattendo e rigettando ogni tratto dell'homo oeconomicus in nome di rappresentazioni precedenti dell'umano, come una sorta di ritorno ad una presunta identità pura ed originaria.

 

Ci si domanda allora legittimamente che parte in commedia assumerebbe la psicologia qualora le problematiche individuali e sociali attuali1 fossero derubricate come forme fisiologiche di mimesi della contemporaneità, cioè come nuove forme dell'esistere ordinario dell'homo oeconomicus e neuronalis.

 

Potrebbe la psicologia rigettare del tutto il mandato biopolitico di normalizzazione/efficientamento dal quale sembra essere sorta? Potrebbe cioè accedere radicalmente ad una depatologizzazione dell'esistenza?

Se la patologizzazione e la biologizzazione del mondo psichico e delle sue fenomenologie, da un lato, ed il contingentamento del capitale umano dall'altro costituiscono gli attuali e prevalenti incanalamenti rappresentazionali collettivi che consentono una manipolabilità, calcolabilità, prevedibilità, se vogliamo di sapore consolatorio, persino del disagio più profondo, può la psicologia realmente smarcarsi da esse affermando il proprio sguardo critico e la propria ricerca (di senso)?

 

Nemesi psy

 

Se Ivan Illich fosse ancora vivo (parliamo di un altro 'genealogista'), forse sentirebbe oggi il bisogno di scrivere 'Nemesi psy', il sequel per psicologi di 'Nemesi medica', chissà'

Il bisogno di difendersi, da parte di Illich, dalla medicalizzazione dell'esistenza già negli anni '70 (e che produsse quel fondamentale testo) non ha però prodotto un'inversione di tendenza, al contrario, le cose sono precipitate sempre più. I processi culturali e biopolitici che il filosofo profetizzava in quel testo sono ancora gli stessi e semmai molto più globalizzati ed interiorizzati allo stesso tempo.

Come afferma Bertani, lo scenario attuale e prossimo venturo sembra essere quello - apocalittico - dell'Homo neuronalis, o se vogliamo usare un analogo/traslato sociologico, lo scenario post-umano, disegnato ormai da numerosi studiosi della contemporaneità sulla base degli stili di vita delle ultime generazioni.

 

Nel denunciare la medicalizzazione dell'esistenza, Illich avvertiva anche dei processi culturali, economici ed istituzionali del sistema-medicina e 'cura' che finiscono per prevalere sugli stessi obiettivi sociali, soppiantandoli, anzi, promuovendo paradossalmente la malattia (una sorta di Sindrome di Munchausen per procura, ma su scala globale), giungendo ad affermare, dati alla mano, che dove vi è più tecno-cultura medicalista ed istituzione medica il malessere non diminuisce.

 

La semeiotica consumista, ancor più interiorizzata negli ultimi 30-40 anni, ed applicata alla salute, introduce dunque sequenze e automatismi psico-culturali di una certa perversità. La salute come bene di consumo quale ogni altro. Si acquista, si perde, si scambia, soprattutto si cerca di migliorare ed incrementare come se fosse una linea su un grafico di trend.

Se la promessa di una salute migliore è, secondo Illich, una delle più diffuse illusioni delle nostra epoca, questo varrà ' e forse a maggior ragione - anche per la salute psicologica, laddove alcune grammatiche dell'esistenza sembrano sempre più orientarsi ad ammorbare la mente ed il tessuto sociale in cui essa insiste e sussiste, ed assume perciò caratteristiche tristemente beffarde parlare oggi di salute psicologica migliore.

Ecco allora che, analogamente a quanto diceva Illich sulla medicalizzazione dell'esistenza, tutto lascia pensare che ci troviamo di fronte già da tempo ad una psicologizzazione dell'esistenza conseguente ed analoga al primo fenomeno. E forse diventa meno incomprensibile il dato statistico italiano del tasso di crescita degli psicologi del 15-20% annuo, nonché dell'incommensurabile numero degli iscritti alle facoltà di psicologia, fenomeno questo che in tanti modi si può leggere tranne che come l'affermarsi sociale di una cultura psicologica critica e di qualità, quanto piuttosto come l'esito commerciale di domande sociali mal riposte e non analizzate (ma pur esistenti).

 

 

Implicazioni etiche

 

Dove si colloca l'etica professionale all'interno di questa cornice? Verrebbe da dire d'impulso: 'non si colloca''

 

Se come ci indica Pontalti, l'etica fa originariamente riferimento al bene in sé dentro un orizzonte sacrale, di riflesso ed in automatico il rimando ad un'etica e alla stessa parola 'etica' diventa immediatamente e comprensibilmente disturbante della moderna sensibilità. I rimandi e le associazioni istintive sono, se va bene, al sentimento religioso che si situa, nella sua dogmatica, lontano dalle incombenze di una pratica professionale; altrimenti ad una forma di moralismo qualunquista; oppure ancora, nella versione terrifica, allo 'stato etico' di nazifascista memoria.

Risultato, la parola 'etica' è diventata sgradevole e fuori moda, ma soprattutto con essa è diventata fuori moda la sensibilità etica.

 

L'etica professionale si declina allora dentro la deontologia, ma la deontologia non declina più un'etica, non fa più riferimento, cioè, alla luce dell'analisi qui condotta, ad una riconoscibilità e condivisibilità di un bene comune. Le carte si sono confuse sul tavolo da gioco.

 

Come può allora un'etica laica e professionale-psicologica rispecchiarsi nell'idea di un bene comune alla luce delle mutazioni in corso che a loro volta rimandano alle tipizzazioni dell'umano fin qui descritte, così utilitaristiche, così frammentate, così 'commercializzate'?

 

Scrive Tiziana Villani: 'il piano etico più che ancorato al riferimento di una pretesa verità assoluta, deve essere connesso con una processualità che costantemente è chiamata ad interrogare le trasformazioni.['] L'etica non si produce entro un orizzonte di verità cristallizzate, è invece un atto di continua ricerca che punta alla valorizzazione del molteplice riconoscendo l'importanza di quel piano di immanenza che attiene alla vita'.

 

La mia domanda è invece: come si àncora una deontologia professionale ad una sensibilità etica che tenga le fila di tale complessità?

 

Leggiamo ancora questa istruttiva pagina sempre di Tiziana Villani:

'Le leggi del sangue.

La politeia2 (moderna, ndr) è chiamata a disconoscere le 'leggi del sangue'. Il costituirsi del patto tra uomini liberi della polis reca questo segno fin dai primordi. Ma nell'oggi in cui l'urbano ha finito con il coincidere con l'ecumene che ne è di questo sentire?

Nel tempo del degrado, della spettacolarizzazione violenta e volgare di ogni cinismo, le leggi del sangue, ossia la voce della vita offesa, ci dicono di un piano diverso. Questo piano mette a nudo l'umiliazione della vita reificata in nome di un economicismo guerrafondaio che non persegue di certo il bene comune. Le esistenze umiliate volgono così lo sguardo alle radici arcaiche della vita. Le identità indebolite dai processi di globalizzazione, dalla compressione spazio-temporale che domina il presente annaspano alla ricerca di nuove definizioni che fatalmente sono il frutto di ibridazioni. Si tratta di percorsi sofferti. La voce del sangue innerva una realtà nuova, complessa e spesso indecifrabile. Lo sradicamento in questo caso agisce come fattore destabilizzante. Ecco che allora si affermano fenomeni di costruzioni neo-identitarie che devono supplire all'incertezza, alla percezione di profondo smarrimento. L'intero sistema degli affetti e delle relazioni è messo in gioco, e costretto a confrontarsi con una grammatica dominante per lo più incomprensibile. È così che l'espressione di nuovi spazi richiede un profondo riconoscimento delle mutate condizioni esistenziali, delle provenienze e dei territori di approdo. La voce del sangue assume così la funzione narrante ed evocativa tipica di un mito che come tale deve essere considerato.['] L'impoverimento della vita indebolisce il piano etico perché irride le forze che lo costituiscono codificandole col puro decoro. Nel tempo dell'adesso immiserito dobbiamo tornare a comprendere le parole della voce del sangue che rimandano alle innumerevoli ferite di cui sono costellate le esistenze.'

 

La mia lettura di questa pagina mi porta a tradurre la 'voce del sangue' nel comune disagio dell'attuale nostra civiltà, come un codice di accesso che diventi fondativo di un comune procedere della psicologia nella costruzione di un atteggiamento etico.

Le ferite di cui parliamo attengono dunque, nella chiave biopolitica qui utilizzata, alle offese che le attuali versioni dell'umano, così come dispiegate dalle recenti culture socio-politiche (e che hanno, secondo Foucault, una genealogia di almeno 3 secoli), hanno inferto e continuano ad inferire alle strutture grammaticali della psiche individuale e sociale.

 

Partire da questo disagio generalizzato, continuando intanto ad osservare le trasformazioni in atto, mi sembra un punto di partenza per cominciare a ragionare di etica nella psicologia.

 

Ed allora: la psicologia come collusiva fiancheggiatrice di false promesse moderniste e spettacolarizzate di equilibrio, benessere, moderazione, pacificazione, ottimizzazione? O la psicologia come ricerca insatura sulle variabili della mente e come scienza critica dell'uomo e dei suoi ecosistemi sociali?

 

Bibliografia

 

  1. Bertani Mauro, L'anima di Foucault e la nostra nel tempo della neuropolitica, Convegno Foucault dopo Foucault: genealogie del postmoderno, Napoli 15-16 febbraio 2007.
  2. Castells Manuel, The rise of network society, Blackwell Publishing, 200
  3. D'Elia Luigi, Per un'ecopolitica della cura - I codici sociali mutageni della vita mentale, da Lacosapsy, 2006
  4. De Carolis Massimo, La vita nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
  5. De Conciliis Eleonora, Identità e rifiuto: appunti per un'antropologia del postmoderno, da Kainos numero 4
  6. Di Vittorio Pierangelo, Psichiatria, da Lessico di Biopolitica, Manifestolibri, Roma 2006.
  7. Dominijanni Ida, Sapere Biopolitico, l'esercizio del potere sui corpi e i comportamenti, da lavocedifiore
  8. Esposito Roberto, Bios, Biopolitica e Filosofia, Einaudi, Torino, 2004.
  9. Foucault Michel, Nascita della biopolitica. Corso al collège de France (1978-79), Feltrinelli, Milano, 2005.
  10. Illich Ivan, Nemesi medica, l'espropriazione della salute, Bruno Mondadori, Milano, 2004
  11. Moscovici Serge,On social representation, Cambridge, 1984.
  12. Pontalti Corrado: Etica (contro) Deontologia. In questo numero. 2007
  13. Villani Tiziana, Ethos e Pathos, da Millepiani, numero 28, Gilles Deleuze, spazi nomadi, figure e forme dell'etica contemporanea, Derive e Approdi, Roma 2004.

1 angosce di precarietà personale e sociale, frammentazione dei legami sociali e nuove forme di asocialità e antisocialità, individualismo, ma anche depressioni sottotraccia, anedonia, attacchi di panico, disfunzioni sessuali, problematiche psicosomatiche, crisi coniugali e familiari, disturbi alimentari, nuove dipendenze, comportamenti compulsivi e/o tossicofilici e tossicomanici, disturbi dello spettro narcisistico, alexitimia, astenia, stanchezza cronica, disturbi del sonno, etc'

 

2 Termine greco antico che indica interconnessione tra il regime politico, il corpo civico e il diritto di cittadinanza (ndr).


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Nessuno può uccidere nessuno. Mai. Nemmeno per difendersi.