Animazione, formazione, terapia*


SOMMARIO 1. Premessa 2. L’animazione 3. La formazione 4. La terapia 5. Animazione, formazione e terapia: tre facce del cambiamento individuale e sociale

1. Premessa
Negli ultimi tempi la domanda di Servizi Sociali è aumentata proporzionalmente al livello di alienazione cui ci ha condotto la nostra organizzazione sociale. Le mafie scientifiche e politiche si sono date da fare per dare una risposta a questa domanda secondo il classico schema della divisione del lavoro. Siamo così in presenza di almeno tre settori in concorrenza: quello artistico-culturale, quello scolastico e quello medico. Ciascuna di queste branche, frammenti di una cultura disintegrata, dispongono di operatori, esperti accademici e assessorati; e tutti sfornano proposte il cui denominatore comune è quello di essere parcellizzate. Si parte dalla constatazione che un’istituzione non funziona al servizio dell’uomo; poi si fonda un movimento d’opinione che anteponga l’aggettivo " nuova " al nome dell’istituzione stessa (nuova psichiatria, nuova pedagogia, nuova cultura, ecc.); ed infine si richiedono a gran voce dei Servizi Sociali che esprimano la strategia del rinnovamento per ciascuna istituzione. Viene il sospetto che tutto ciò non sia altro che una raffinata politica finalizzata all’avvicendamento delle élites. Gli operatori più onesti sul piano ideologico arrivano naturalmente all’analisi della dipendenza delle singole istituzioni dal sistema sociale complessivo, e " dichiarano ", con coerenza, che il problema della emarginazione, della alienazione e della ignoranza non dipendono dall’inefficienza della singola istituzione. Il guaio è che " dichiarano " soltanto, mentre raramente realizzano in pratica un’esperienza alternativa. Il problema sta nel fatto che politici locali ed operatori sociali sono immersi nella contraddizione fra unitarietà dell’esperienza umana e divisione del lavoro e del sapere. Inoltre essendo politici ed operatori i detentori del potere nel caso dei Servizi Sociali, è logico che essi tendano a perpetuare la divisione del sapere, che sta alla base del loro stesso ruolo.In seguito al processo di decentramento del potere statale, le Amministrazioni locali e le comunità stanno moltiplicando i progetti di Servizi Sociali di zona. Si assiste così ad una fioritura di Centri d’animazione e biblioteche; di Centri di formazione permanente, d’orientamento scolastico e di innovazione educativa; di Centri di igiene mentale e di recupero psicofisico; di Centri di consulenza per la coppia, la donna, la gestante e l’anziano; di Gruppi di animazione teatrale, espressiva e corporea.Se questo pullulare fosse motivato da semplici esigenze di pluralismo, non ci sarebbe niente da dire. Inoltre la prospettiva delle Unità Sanitarie Locali o dei Comprensori per i Servizi Sociali, può far pensare ad una prossima ricomposizione del tessuto dei servizi. Credo però che il pluralismo delle iniziative e l’anelito pianificatorio non possano da soli cancellare un problema culturale, scientifico e politico di così vaste implicazioni. Anzitutto il problema è politico, nel senso che ogni azione di cambiamento su un sistema complesso come quello sociale, deve essere più articolata che settorializzata. Per esempio, fare un intervento di animazione nella scuola dell’obbligo per stimolare una creatività che poi sarà repressa; oppure fare un’innovazione pedagogica senza tener conto del tempo extrascolastico; oppure attivare un intervento terapeutico su bambini scolarizzati trascurando il cambiamento scolastico: sono operazioni improduttive se non addirittura dannose.L’affermazione secondo cui un sistema alienante e repressivo deve essere combattuto nella sua totalità, se può essere accettabile sul piano teorico non lo è sul terreno pratico e porta a pericolose confusioni fra professionalità e politica. Tuttavia anche l’illusione che l’innovazione specialistica, per esempio nel settore dell’igiene mentale, possa realmente cambiare qualcosa, è perlomeno ingenua.In secondo luogo il problema è scientifico, nel senso che il dibattito teorico e tecnico sui rapporti fra creatività e socialità e malattia mi sembra assai raro nel nostro Paese. Infine il problema è culturale nel senso che esistono pregiudizi, stereotipi, particolarismi di categoria, per cui gli operatori sociali riescono di rado a staccarsi dai modelli tradizionali di divisione del lavoro.E' difficile dire se questi problemi sono la causa o l’effetto di un diffuso corporativismo degli operatori sociali che si traduce in una volontà conclamata di " artistizzare" o " educare " o " terapeutizzare " (secondo la corporazione) il mondo intero.

2. L’animazione
Questa attività sociale ha assunto negli ultimi dieci anni una diffusione progressiva, articolandosi in una varietà di spazi, di tecniche e di operatori diversi.Per anni si è dibattuto se l’animazione fosse un modo particolare di lavorare delle figure di operatori esistenti (insegnanti, attori, bibliotecari, ecc.) oppure fosse una nuova specifica figura di lavoratore. Attualmente si tende ad accettare entrambe le cose: molti operatori tradizionali fanno animazione svolgendo in modo nuovo il loro vecchio lavoro, mentre altri operatori fanno animazione gestendo un ruolo specifico. Si dovrebbe parlare per la verità di due tipi di animatori: il tradizionale (che " anima " un dibattito, o uno spettacolo, o un viaggio per nave) che lavora come catalizzatore di curiosità o di divertimento; ed il " nuovo " animatore, che lavora in termini altamente educativi. Della prima categoria fanno parte anche gli animatori di circoli, centri culturali e riviste: spazi nei quali essi hanno un ruolo di promozione e organizzazione.I cosiddetti nuovi animatori, con un atteggiamento spesso aggressivo e denigratorio, negano ai vecchi la qualifica di animatori e identificano l’animazione con il proprio modo di farla. Se questa posizione può essere corretta sul piano teorico, in pratica ha prodotto una ghettizzazione delle due categorie ed una radicalizzazione delle differenze, non sempre giustificata. L’ideologia che ispira la " nuova" animazione, parte dalla constatazione che il nostro sistema sociale reprime le istanze creative, espressive e socializzanti dell’individuo (bambino o adulto). L’animatore professionale o l’operatore sociale che opera attraverso un atteggiamento d’animazione, hanno il compito di facilitare e stimolare la presa di coscienza di questa repressione e la riappropriazione delle istanze represse. L’animazione dunque come educazione liberatoria. Il gioco, l’espressione artistica (plastica, pittorica, musicale, teatrale o visiva), la ricerca-intervento e la dimensione collettiva sono gli strumenti principali di questo genere d animazione. L’idea forza è che la liberazione, cioè l’educazione, dell’individuo passi attraverso la appropriazione da parte di tutto di strumenti che sono stati sottratti: l’arte (intesa come attività espressiva e creativa), la scienza (intesa come conoscenza della realtà); la socialità (intesa come dimensione plurale dell’uomo).Tutti i nuovi animatori partono da queste premesse generali, pur lavorando in spazi e con tecniche diverse, e pur provenendo da matrici culturali diverse.I tre settori più occupati da questi operatori sono: il soggiorno di vacanza, la scuola ed il territorio. Non mancano presenze in altri spazi, come le istituzioni assistenziali e totali, i centri culturali, i villaggi vacanze; ma i tre mondi indicati occupano i 4-5 degli animatori disponibili.In termini di utenza, i più si rivolgono a bambini in età scolare. Dal punto di vista delle tecniche sono privilegiate le tecniche teatrali ed il gioco, anche se c’è una certa diffusione delle attività espressive, recentemente allargate all’espressione corporea, gestuale e musicale.Osservando qual è l’ambito istituzionale nel quale operano gli animatori, non si può non sottolineare la precarietà. Gli animatori di colonia (pubblica o privata) hanno solo un impegno stagionale; mentre gli animatori scolastici o effettuano brevi interventi volanti o lavorano nei doposcuola comunali. Da qualche tempo però vanno diffondendosi, promossi dalle Amministrazioni locali o da animatori uniti in cooperative, dei veri Centri d’animazione sparsi sul territorio. Il Comune di Roma ne ha lanciati ben Otto nel ‘73; il Comune di Milano ha oltre cento campi-gioco sparsi per la città; la Regione Lombardia ha teoricamente trasformato le biblioteche in Centri di animazione. Molti Comuni dell’hinterland milanese stanno avviando o consolidando dei Centri sociali o ricreativi o sportivi con funzioni d’animazione.Tralasciando le esperienze più selvagge che si trovano spesso in questo settore ancora giovane e trascurato, le iniziative più serie arrivano quasi sempre ad un unico punto morto. Sia l’animatore che interviene nella scuola sia quello che lavora in un Centro di quartiere, costatano l’inutilità di un’operazione rivolta ad utenti che sono in relazione stabile con sistemi più forti dell’animatore stesso. Che senso ha infatti un’animazione in una scuola al pomeriggio, se l’eventuale creatività liberata non trova incentivi (oppure viene punita!) nelle ore scolastiche del mattino?Lo stesso vale per le famose " feste in piazza ", che il più delle volte sono solo un’edizione modesta del vecchio Carnevale. Molti dicono che uno stimolo alternativo in una comunità è sempre meglio di niente, e si illudono che se un bambino di Pietralata ha partecipato al corteo degli animatori con una maschera fatta da lui stesso, questi ha " liberato la sua creatività ". Seguendo questa logica risulta difficile distinguere, dal punto di vista dell’utente, il grado di animazione di uno spettacolo di Passatore e quello di un concerto dell’orchestra Casadei. Il/atto è che obiettivi educativi si raggiungono solo con attività che hanno tre almeno caratteristiche: la lunga durata del rapporto, l’estensione del campo pedagogico e la verificabilità. Se non vogliamo affiancare l’animazione alla folgorazione mistica, l’intervento non può che essere di durata ragionevole (cioè di più mesi), dal momento che l’educazione è un processo, non un fatto circoscritto nel tempo. Inoltre perché l’intervento sia davvero liberante occorre che il campo d’azione sia esteso, sia in senso spaziale sia in senso tecnico. Se la comunità è organizzata in modo da reprimere la creatività, l’espressività e la socialità, è solo essa stessa (o una sua larga porzione) che può effettuare un cambiamento. La scuola ha scoperto da tempo il concetto di " comunità educativa " e quello di "continuum" pedagogico: è ora che anche l’animazione se ne renda conto. Anche la metodologia e la tecnica hanno una grande importanza. Non è possibile facilitare la creatività, l’espressività e la socialità, che sono dimensioni plurali ed articolate, se non attraverso l’esperienza di situazioni e tecniche diversificate.La maggioranza dei gruppi operanti sul mercato fa uso esclusivo di una o due metodologie, riproducendo la divisione del lavoro anche fra gli animatori, ed inducendo negli utenti solo l’idea che l’animazione sia una " nuova materia ": c’è l’ora di grammatica, quella di geografia e poi l’ora di animazione.Infine la verificabilità. Se è vero che i processi educativi non sono mai totalmente misurabili, è anche vero che attualmente gli animatori usano il sistema del " colpisci e fuggi ", stenta a trovare una giustificazione teorica. Non basta dire che con l’animatore i bambini si esprimono liberamente, per asserire che le capacità espressive sono state recuperate. Cioè non basta che un utente faccia un’esperienza " liberata ": occorre che si abbia una ragionevole induzione di atteggiamenti liberati che persistano e si sviluppino.All’animazione occorre quindi una condizione di " organicità " nei confronti del sistema utente. Questo utente non può essere solo un individuo ed una volta tanto. L’utente, in ogni caso, è sempre la comunità " con "la quale l’animatore opera facilitando processi di cambiamento.Infine all’animazione occorre un atteggiamento " scientifico " nel senso di consapevole delle proprie metodologie e tecniche, dei loro effetti sull’utente e sugli stessi animatori.

3. La formazione
Con questo termine si indicano una serie di attività educative, cioè rivolte all’espansione del potenziale umano. Si comprendono nel termine generico di formazione: l’istituzione scolastica, l’addestramento e l’aggiornamento, e l’educazione permanente o ricorrente. Siamo nel campo della pedagogia, rivolta ai bambini o agli adulti. Anche qui c’è una distinzione fra la pedagogia tradizionale e quella " nuova ", anche se i nuovi formatori (essendo una larga minoranza) non riescono a riservare a se stessi questo nome. L’ideologia che ispira la nuova pedagogia è assai simile a quella che orienta l’animazione. Il sistema sociale ha influenzato, plasmato, il sistema scolastico affinché producesse manodopera funzionale: ossequiente, ripetitiva, individualista. La scuola dunque deve recuperare un suo ruolo autonomo, rinforzando o riscoprendo la creatività, l’espressività e la socialità nei bambini. t messo in discussione anche il campito tradizionalmente precipuo della scuola: la trasmissione delle conoscenze e della cultura. La cultura non è oggettiva, quindi da veicolare, ma è soggettiva e dunque da costruire: ogni soggetto individuale e collettivo deve costruirsi la cultura che gi serve. Le conoscenze hanno un valore strumentale: servono all’uomo per cambiare il mondo o se stesso. Quindi non tutte le conoscenze sono utili, alcune sono addirittura dannose: l’allievo allora deve essere aiutato a scoprire le conoscenze che gli servono. La scuola non è più un luogo di conferenze e ripetizioni, bensì un laboratorio di ricerca. E il metodo della ricerca è forse l’unico contenuto necessario nella scuola.Questo discorso vale per i bambini, ma vale ancora di più per gli adulti. Questi hanno infatti un’esperienza cui attingere, su cui riflettere, e da espandere; hanno delle precise motivazioni, dei chiari interrogativi e dei pressanti interessi concreti. La formazione deve essere dunque " attiva ", perché deve coinvolgere il discente trasformandolo da oggetto dell’insegnamento a soggetto dell’apprendimento, e perché deve attivizzare il discente facendogli " imparare a imparare ".Naturalmente i formatori che partono da queste premesse sono molto pochi. Circa settecentomila formatori sono inseriti nell’istituzione scolastica, ma sono quasi tutti lontani dalla " nuova " pedagogia. Questa invece ispira largamente i formatori dei formatori, gli alfabetizzatori, i formatori popolari e permanenti. Non credo che si arrivi neanche al 3% dei settecentomila tradizionali, ma ci sono, maestri delle scuole popolari, insegnanti delle 150 ore, esperti di vario genere, collegati alle scuole di educazione permanente o ai corsi aziendali. Anche costoro lavorano in stato di precarietà o comunque molto scollegati dalle realtà che si propongono di "formare ". Negli ultimi tempi tuttavia molti di costoro si stanno istituzionalizzando, attraverso gli Enti locali. Si stanno diffondendo sensibilmente Centri, istituti o gruppi che si propongono l’obiettivo di " formare " adulti. Sensibilizzare i genitori, gli insegnanti, i giovani, gli sposi; informare i cittadini, le donne; aggiornare insegnanti, operatori culturali, lavoratori; alfabetizzare analfabeti o anziani. Per esempio, la Regione Lombardia ha trasformato i vecchi Centri di Orientamento Scolastico in Centri per l’Innovazione Educativa; i Comuni di Bologna e Milano hanno avviato due Centri per l’informazione e la formazione in campo scolastico; i futuri distretti scolastici non potranno non munirsi di Centri di formazione; i Consorzi sanitari hanno avviato Centri di intervento preventivo-formativo; infine tutti i Centri diffusi sul territorio stanno scoprendosi un ruolo formativo (biblioteche, Centri di igiene mentale, teatri stabili, ecc.). Anche il campo formativo non è esente da contraddizioni analoghe a quelle in cui si dibatte l’animazione. Che senso ha fare conferenze sulla " nuova " pedagogia ad un collegio di docenti? Uguale perplessità suscita l’attività di informazione sulla droga o sullo sbocco professionale per i diplomandi. La droga, prodotta da un sistema sociale particolare, non può essere combattuta che modificando i meccanismi che la incentivano come la solitudine, la carenza di strutture associative giovanili, un dialogo familiare interrotto. Una conferenza sulla differenza fra LSD e canapa indiana, ha solo l’effetto di allarmare oppure di mettere la coscienza a posto ai buoni cittadini. Così è per l’orientamento scolastico che si realizza solo attraverso un particolare impianto pedagogico, un modo diverso di fare scuola: la conferenza sulle diverse professioni, messa a fine d’anno, è una finzione improduttiva. E' vero che una conferenza può fungere da stimolo alla curiosità, a volte anche da elemento di crisi, ma è altrettanto indubbio che definire formativa questa attività equivale a considerare formativi la televisione, i quotidiani, il cinema o il teatro. Questi " media " comprendono elementi formativi, cioè educativi, ma hanno obiettivi di massima assai diversi come l’informazione, l’espressione artistica, lo spettacolo.In senso stretto si può definire educativa un’attività che si ponga, come obiettivo principale e verificabile, nella direzione di cambiare o ampliare una o più facoltà umane. Questa azione di cambiamento mediante la formazione non può che essere realizzata con una strategia cui coordinare varie tattiche.Si tratta di trasferire all’utente dell’attività formativa una reale capacità strumentale o di base. Ben presto i formatori intuiscono che la condizione per cui i " formati " possono far uso delle loro acquisizioni è quella di avviare un processo di cambiamento nella totalità dell’istituzione di appartenenza. Anche qui risultano necessarie le tre caratteristiche elencate per l’animazione: lunga durata dell’intervento, estensione del campo pedagogico, verificabilità. Utente dell’intervento formativo è sempre meno l’individuo, e sempre di più la comunità o l’istituzione. Il che non significa che un’azione formativa verso l’individuo sia impossibile. Al contrario è quella più facile, perché più richiesta dal committente (sia pubblico che privato). Semmai è antieconomica socialmente parlando, perché rivolge solo ad alcuni il vantaggio di un’azione formativa; è poco efficace, perché il soggetto " formato " rischia di perdere il confronto con l’istituzione che ha fatto nascere il suo bisogno formativo; è scorretta, perché individua e rafforza atteggiamenti elitari. In generale la formazione, per adulti e per bambini, risente di un equivoco di fondo sul potere della ragione. Si crede che per un individuo sia sufficiente conoscere qualcosa, per agire e comportarsi " di conseguenza ". In altre parole, si confonde l’educazione con l’informazione. Il problema dell’attività formativa, oggi, non è tanto di aumentare la quantità di informazioni, quanto quello di fornire capacità operative e atteggiamenti psicologici.

4. La terapia
Questo termine è stato oggetto di un acceso dibattito negli ultimi anni, dal momento che si è iniziato a discutere di tutta l’istituzione sanitaria del Paese. In termini tradizionali l’attività terapeutica è intesa come strumento per la diminuzione o l’estinzione di una sofferenza. A volte non si tratta di estinguere una sofferenza del paziente quanto quella dell’ambiente che lo circonda. Essendo la devianza comportamentale un elemento di sofferenza per la comunità o per l’istituzione, si usa spesso la terapia come elemento regolatore del dissenso. In tutti i casi, essendo la malattia causata prevalentemente da fattori esterni all’individuo, la terapia è usata per lo più come attività sanatoria della " malattia globale ", cioè della malattia della società.
La " nuova " terapia tende dunque a diventare azione preventiva o azione di cambiamento dell’istituzione che provoca la malattia. Tre esempi. Molte malattie derivano da una errata alimentazione, sia perché questa non risponde alle esigenze degli organismi individuali sia perché è inquinata da un industria alimentare che trascura spesso le norme sanitarie. L’azione terapeutica che si limita alla cura del soggetto malato non fa che agire sugli effetti ultimi, cioè sul sintomo di un fenomeno. La prevenzione consiste in un lavoro di educazione alimentare dei consumatori, ma anche in una lotta per il controllo dell’istituzione alimentare.
E' dimostrato che circa il 70% dei ragazzi scolarizzati è soggetto a paramorfismi, cioè malformazioni fisiche, destinate a diventare permanenti in almeno il 5% dei casi. La prevenzione di questo fenomeno comporta un adeguato lavoro d’informazione degli insegnanti e delle famiglie, ma anche un mutamento dell’istituzione scolastica nelle strutture e nei programmi. Il vero malato cioè è la scuola.
Nel caso delle " malattie " del comportamento (violenti, alcolisti, drogati, psicotici) o nei semplici " disturbi " del comportamento (nevrotici, fobici, dislalici, timidi ecc.) è ormai provata la pesante interferenza dell’ambiente, come elemento causale.
La famiglia, l’azienda, la scuola o la comunità sono i maggiori responsabili di un comportamento disturbato o disturbante. Ammesso che sia giusto intervenire in senso terapeutico, cioè quando la terapia non ha il solo scopo di riadattare l’individuo all’ambiente, risulta ineluttabile indirizzare l’intervento anche verso il sistema che ha prodotto il disturbo. Se una famiglia ha intessuto una rete relazionale che ha spinto un suo membro verso un comportamento disturbato, non si può non considerare utente della terapia tutta la famiglia. Se un giovane si droga per evadere da una situazione sociale insoddisfacente, obiettivo della terapia non può essere che la comunità. Se un lavoratore è colpito da una nevrosi sessuale a causa del suo lavoro, non può che essere questo l’obiettivo della terapia. Medici, psicologi, psichiatri, ergonomi, stanno dunque diventando sempre più operatori sociali in senso lato. Il che non significa rinuncia alla specificità professionale; al contrario questo suppone affinamento delle capacità terapeutiche e diagnostiche. Si cominci dunque a curare le malattie o i malati veri (le istituzioni, i rapporti di lavoro e interpersonali, la società) invece che i sintomi dell’individuo.
Naturalmente questo tipo di impostazione terapeutica è ancora lontana dall’affermarsi nelle libere professioni, nel mondo accademico o nei ricettifici mutualistici. Semmai sta diffondendosi in alcune istituzioni sanitarie (ospedali psichiatrici) e nei Centri in aumento sul territorio (Centri di igiene mentale, di medicina o psicologia scolastica, di medicina del lavoro, équipes psico-socio-pedagogiche, consultori medici ecc.).
In questi ambiti si sta sperimentando una pratica terapeutica finalizzata:
a) a modificare gli elementi patogeni delle istituzioni;
b) a far riappropriare il paziente del suo sintomo (cioè a trasformare il paziente in agente).
L’operatore sanitario " nuovo " si propone di agire sul contesto che ha espresso il paziente, e col paziente stesso. Riattivando le sue potenzialità represse o disturbate, affidando ad esso la responsabilità della sua salute, fornendolo di strumenti adeguati per difendere il suo diritto all’integrità. Questo lavoro può essere fatto dopo l’apparizione del sintomo, come avviene nella grande maggioranza dei casi. Ma deve essere fatto prima, almeno in quelle istituzioni di base che si assumono compiti essenzialmente preventivi.
In molti casi, come il settore alimentare, il fisiatrico, il lavorativo, l’azione preventiva si può esprimere in due soli modi: un’informazione a tutti i livelli ed una lotta per il cambiamento dell’istituzione patogena (imprese alimentari, strutture architettoniche e sportive, organizzazione del lavoro, ecc.). Il rapporto fra azione terapeutica e azione sindacale e politica è, in questi casi strettissimo.
C’è invece un area patogena, le cui implicazioni politiche sono meno presenti, ed è l’area dei rapporti interpersonali, l’area dei sistemi microsociali. I rapporti familiari, coniugali o amicali; la classe; il circolo ricreativo o il campo-giochi; il collegio...: costituiscono una serie di spazi che facilitano o causano l’insorgere di comportamenti disturbati. La terapia psicologia e psichiatrica può fare molto, intervenendo successivamente o preventivamente su questi sistemi microsociali.
In questa direzione un Centro per la salute del territorio, che volesse agire preventivamente verso la malattia psichica, non avrebbe altra via che quella di " curare " la comunità attraverso i microgruppi che la compongono. Non possiamo dimenticare che anche negli spazi microsociali si annidano le contraddizioni principali nelle quali si dibatte il nostro sistema sociale complessivo e che dunque sussiste sempre quel " malato globale " che dovrebbe essere l’unico soggetto da curare. Per esempio, quando si tenta il recupero psicologico di un drogato, si scopre facilmente alle sue spalle un tessuto familiare disgregato. Ma, a sua volta, questa disgregazione affonda le sue origini in un tessuto urbano disfatto, in una organizzazione del lavoro alienante, in un’educazione consumistica oppure in una pesante deprivazione economica.
Dietro un disadattamento scolastico, una nevrosi sessuale, una depressione, si nasconde sempre, in quantità diverse, la " malattia sociale ". Resta però il fatto che il legame fra condizionamenti macrosociali e disturbi individuali, non è sempre ugualmente pesante. A volte esso è molto tenue. A volte la dimensione microsociale è quella principale come causa di un disturbo oppure come occasione di compensazione. Proprio qui si esprime la specificità professionale del terapeuta, che diventa curante dell’individuo e del suo campo microsociale. Che diventa cioè animatore ed educatore.

5. Animazione, formazione e terapia: tre facce del cambiamento individuale e sociale
Come appare chiaro dai paragrafi precedenti, animazione, formazione e terapia hanno molti aspetti comuni. Tentiamo di dare tre definizioni, nella speranza di evidenziare la diversità dei tre termini.
L’animazione può essere definita come un’attività finalizzata alla presa di coscienza, un processo di ricerca di un individuo, un gruppo o un’istituzione su se stessi.
La formazione (o educazione) può essere considerato come un processo di appropriazione di strumenti emotivi, intellettuali e tecnici per agire.
La terapia può essere intesa come la rimozione, preventiva o successiva, degli ostacoli che si oppongono all’azione, alla presa di coscienza e alla formazione dell’individuo, di un gruppo o di una istituzione.
L’animazione ha a che fare con il risveglio, la scoperta, la riattivazione di potenzialità represse e di contraddizioni rimosse. La formazione attiene al settore dell’espansione, dell’arricchimento, del consolidamento di capacità sotto utilizzate; oppure comprende l’acquisizione di nuove capacità. La terapia riguarda il lavoro di manutenzione, la riparazione dei guasti, la riattivazione di funzioni compromesse.
E' evidente come le differenze fra questi tre tipi di intervento sociale siano molto poche e come ciascuna attività possa in ogni momento debordare nell’altra.
C’è molto di terapeutico quando un insegnante cerca di socializzare un bambino solitario, silenzioso, timido o aggressivo. C’è molto di educativo nell’azione del terapeuta, che oltre alla rimozione del disagio, tenta di far prendere coscienza, deve rimuovere blocchi, far acquisire capacità. La drammatizzazione (che i diversi operatori chiamano con svariati nomi: teatro-gioco, psicodramma, role-playing, sociodramma, ecc.) è una tecnica che illustra molto bene l’interdipendenza fra le tre modalità di intervento. Essa può essere usata per i suoi aspetti catartici, proiettivi, identificatori, fantastici o interpretativi; e con lievi variazioni d metodo può servire per l’animazione, la formazione o la terapia. Ma sopra ogni altra considerazione, credo che ad avvicinare i tre tipi di pratica sociale sia la loro principale caratteristica comune: il cambiamento. Animazione, formazione e terapia sono accomunate dal fatto di essere metodi di cambiamento individuale e sociale. L’animazione è un’attività di movimento, di passaggio dalla stasi al moto; la formazione è un’attività di arricchimento, cioè di passaggio dal meno al più; la terapia è un’attività di sottrazione, cioè di passaggio dal più male al meno male.
Animazione e formazione sono finalizzate al cambiamento preventivo ed evolutivo; la terapia invece si occupa del cambiamento successivo ad una crisi. In un certo modo possiamo dire che molta terapia potrebbe essere resa inutile da una seria azione di animazione e formazione.
Il cambiamento dunque, non l’evoluzione o la riproduzione o la conservazione, è il dato che accomuna i tre tipi di intervento. E il cambiamento si distingue da altri processi storici o personali in quanto è un’azione finalizzata, un progetto intenzionale .Animazione, formazione e terapia sono sempre interventi politici nel senso che rispondono ad una specifica visione dell’uomo e del mondo. Ciò che le differenzia dall’azione politica è la specificità del campo, del tempo o delle tecniche. Esse infatti si rivolgono a situazioni microsociali (individui, coppie, gruppi o comunità) e si propongono come interventi verificabili in tempi relativamente brevi.
In termini riduttivi, diciamo che l’animazione conduce gli utenti a " fare ", la formazione a " sapere " (saper fare, sapere e saper essere), la terapia a " potere ": tre azioni inseparabili. Tre anelli consequenziali di una strategia del cambiamento e della riappropriazione. Cambiamento della realtà interna ed esterna, e riappropriazione degli strumenti necessari a questo cambiamento.
In definitiva, animazione, formazione e terapia sono tre metodi per trasformare gli individui ed i sistemi da oggetti a soggetti della storia.

*Estratto da " QUADERNI DI ANIMAZIONE SOCIALE 2 " ANIMATORI DI QUARTIERE SOCIETÀ EDITRICE NAPOLETANA-NAPOLI-1981