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Nei mesi scorsi è stato promulgato dal Presidente della Repubblica - su  proposta  del  Ministro  dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, di concerto con il Ministro dell'Economia e delle Finanze, con il Ministro per la Funzione Pubblica e con il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali-  lo schema di decreto legislativo  (DL) applicativo della Legge 28 marzo 2003, n.53 di "Delega   al   Governo   per   la  definizione  delle  norme  generali sull'istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale".Lo schema di decreto è stato approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri - nella seduta del 12 settembre scorso. Allo stesso Consiglio dei Ministri ritornerà per l'approvazione definitiva al  termine della prevista procedura consultiva, nella quale verranno acquisiti i pareri, obbligatori  ma  non  vincolanti,  della  Conferenza unificata Stato-Regioni-Città e delle competenti Commissioni parlamentari.

Nelle pagine seguenti presento le riflessioni che mi sono state suscitate dalla lettura del cospicuo documento e, in specifico, propongo una lettura critica del ruolo che lo schema di DL assegna  alla FAMIGLIA nella parte dedicata alla Scuola dell'Infanzia. Per le riflessioni sul Primo Ciclo (anni 5-13) vedi qui.

LA FAMIGLIA e LA SCUOLA DELL'INFANZIA
(dai 2 anni e 1/2 ai 5 anni e 1/2)
  1. IPOCRISIA E DOPPIA MORALE

Lo schema del DL intende (e in più parti lo fa con richiami più che espliciti) rispondere all'esigenza di affidare alle famiglie un ruolo decisivo nel percorso scolastico dei propri figli.  L'assioma che sostiene questa necessità è che la famiglia rappresenti "il  primario  contesto  affettivo  e  di  vita delle bambine  e  dei  bambini" (art.3 comma 2) e che dunque intorno ad esso debbano dispiegarsi i servizi scolastici ed educativi in questa fascia d'età. L'articolo 1, inoltre, ribadisce ciò che è già contenuto nella L.N. 53/2003: la Scuola dell'Infanzia (SDI) "nel rispetto della primaria responsabilità educativa dei genitori" deve concorrere "all'educazione e allo sviluppo affettivo, psicomotorio, cognitivo, morale, religioso e sociale delle bambine e dei bambini promovendone le potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento, e ad assicurare un'effettiva eguaglianza delle opportunità educative".  E ancora in altre parti del DL, le espressioni utilizzate vanno nel senso della gregarietà della Scuola al ruolo primario in educazione della Famiglia: "la SDI concorre ad educare….", "l'orario …. si diversifica tenendo conto delle esigenze della famiglia",  "i docenti curano…… attraverso  la  relazione  con  la  famiglia…..".

Forse il legislatore non si è accorto che la Famiglia, intesa come nucleo di affetti primari, sta da qualche anno subendo mutazioni significative. La crisi che la attraversa, risiede nel fatto che essa è un  insieme  nel quale  i ruoli (padre, madre, figlio) non sono più definiti come un tempo. Oggi la famiglia è ad una svolta: dalla configurazione nucleare (padre, madre e figli naturali) ad una plurale (aggregazioni mono-parentali, multi-matrimoniali, omosessuali, comunitarie, ecc.). Se queste forme hanno connotati storici, ciò che supera il tempo rimane il bisogno dell'individuo,  e più ancora del bambino, di un nucleo di affetti forti, che attraverso l'appartenenza e l'identificazione, accompagni e favorisca la crescita. 

E questo nucleo la Famiglia spesso non lo rappresenta più. Essa può essere un riparo, uno spazio  di cura,  un insieme alleato, oppure può essere un antro minaccioso, un centro di ostilità, più pericoloso del mondo che sta fuori. Oppure, ancora, può semplicemente non avere alcun ruolo. Ciò non può essere ignorato! Nemmeno da chi intende promulgare una legge che valga per un futuro a medio-lungo termine. 

Dunque la Famiglia può anche essere nel rapporto con la scuola, delegante, evitante, ignorante. Delegare il ruolo di nucleo educativo primario, evitare la presa in carico delle responsabilità affettive e relazionali nei confronti dei piccoli, ignorare le sollecitazioni a partecipare e co-decidere modalità e tempi.

La scuola, da parte sua, può agire in due modi: sottrarsi a questi comportamenti agiti dalla Famiglia oppure rispondervi. A mio parere la scuola deve agire questo 2° atteggiamento: rispondere, non sottrarsi e difendersi da tali richieste. Per anni qualcuno ha negato che l'educazione fosse compito della scuola, riservandola alla famiglia. Ma oggi sempre  più  spesso la famiglia non è in genere attrezzata per educare. Perché educare è diventato un mestiere, da quando è parsa evidente la frattura fra passato e futuro (cfr.  Le famiglie sono necessarie per ripetere, tramandare, riprodurre l'educazione in uno scenario storico statico (cfr. G.Contessa, in   CHIRONE, SOCRATE, BUDDHA. - Modelli e stili di relazione educativa, Arcipelago edizioni).

Di fronte all'attuale epoca questo è però insufficiente, quando non addirittura  dannoso. Educare, nel senso di tirar fuori le potenzialità e nel senso  di inserire,  immettere,  introdurre  nella  società  è  sempre più un mestiere, perché richiede un'intenzione, un progetto,  delle verifiche, oltre a diverse competenze tecniche e personali. La scuola non potrà esautorare o sostituire la famiglia, ma dovrà diventare sempre più il centro del processo educativo, anche perché il numero di anni che un individuo passa in una classe è assai più elevato di quelli che passa a contatto coi genitori.

La logica dunque dovrebbe essere inversa a quella proposta dal DL: la famiglia concorre all'educazione, la scuola la impartisce. Naturalmente sono consapevole che per i genitori accettare questa logica sarebbe spiazzante e colpevolizzante. Come accettare di abbandonare la "carne della propria carne" ad altri? Come poter pensare di essere privati del ruolo di accudire e allevare i propri figli? Ma è necessario rendersi conto che  nei fatti è già così.

E, seppur in maniera ambivalente e contraddittoria, anche il DL lo sancisce nelle parti dedicate all'organizzazione del tempo-scuola: il tempo di permanenza nella SDI può arrivare alle 50 ore settimanali.  Ciò non fa altro che sostenere l'inversione di tendenza che abbiamo sostenuto fino ad ora. Nei fatti il verbo "concorrere" dell'art.1 dovrebbe trasformarsi nel verbo "impartire": la scuola  diventa lo spazio all'interno del quale i piccoli passano il tempo affettivo relazionale maggiormente significativo per il loro sviluppo e la loro crescita.

In questo senso il DL è un bell'esempio di doppia morale: un genitore oggi è costretto a gestire quotidianamente la discrasia tra pressione sociale al ruolo ed espropriazione dello stesso, tra buone intenzioni educative e incapacità di agirle, tra chiamata ad essere genitori e impossibilità ad esserlo. E in specifico per la SDI ciò è evidente: bimbi e bimbe di 3-6 anni per i quali la morale è "adesiva", scarsamente riflessiva, messa in atto di comportamenti interiorizzati attraverso la relazione con l'adulto, che li affianca nella tempo di vita (a scuola, in famiglia, nel tempo libero).

E se la persona con la quale passa maggior tempo è la maestra non può essere che lei la prima educatrice di quel bimbo!

  1. L'ILLUSIONE DELLA "CONTINUITÁ"

L'art.1 sottolinea come la SDI "nel rispetto della primaria responsabilità educativa dei genitori, contribuisce alla formazione integrale delle bambine e dei bambini" ed afferma che "nella  sua  autonomia e  unitarietà  didattica  e  pedagogica,  realizza  la  continuità  educativa con il complesso dei servizi all'infanzia e con la scuola primaria" (il ciclo successivo che va dai 6 agli 11 di età dei bimbi/delle bimbe, n.d.r).

La parola chiave è "continuità".  Idea e pratica che starebbe a significare uno stretto e costante scambio e confronto, in vista di decisioni condivise attraverso una modalità negoziale, pianificata e verificabile, tra organizzazioni scolastiche e genitori. Ma non solo.  Come sostiene il commento del Ministero al DL (presente in  Internet  http://www.istruzione.it/news/2003/schema_decreto.shtml) uno dei principi chiave dell'attività didattica futura dovrebbe essere "la continuità verticale tra i sistemi  presenti sul territorio" e cioè il legame con il segmento precedente la SDI (l'asilo nido) e con quello successivo (la Scuola Primaria).

La continuità diventa un valore assoluto, un attrattore dei comportamenti educativi ed organizzativi della SDI, in particolare, e del Sistema Istruzione, in generale. Ciò mi sembra un tentativo di trasformare un'impossibilità del fare educativo ed organizzativo in una illusione sotto forma di slogan.

In termini educativi, la continuità non è un bene in sè: il cambiamento di modelli e stili di insegnamento ed educazione può facilitare e non ostacolare lo sviluppo e la crescita dei piccoli. La continuità può essere invece  il "cavallo di Troia" all'interno del quale si nascondono spinte di adattamento metodologico e di omologazione didattica che ciascun segmento del Sistema può indurre nei confronti del precedente o del successivo. Non possiamo scordare che la continuità (idea e prassi) nasce dall'annosa questione dell'inadeguatezza dei piccoli agli standard richiesti dall'organizzazione: la "vecchia" scuola superiore da sempre si lamenta dell'incapacità della scuola media inferiore a preparare i ragazzini a leggere e scrivere,  e così a cascata giù fino alle accuse di non far pre-scrivere e pre-leggere lanciate alla scuola materna!

D'altra parte come genitore non ritengo possibile la continuità educativa tra le scelte della famiglia e quelle della scuola. Ciò significherebbe una richiesta di adattamento reciproco; penso non tanto a questioni ideologiche ma quanto a modalità relazionali omologate e appiattire, con i piccoli in crescita, a casa e a scuola. Fenomeno, tra l'altro, che non potrebbe mai realizzarsi, in un contesto dove 25 bambini e altrettanti mamma e papà, mettono in gioco caratteri, idee, azioni di certa e inestinguibile diversità.  Porre la continuità a principio fondativo della SDI (ma ad una prima scorsa del DL, anche degli altri ordini di  Scuola) mi appare dunque un tentativo di sancire una "mission impossible".

Come sembra essere una chimera ipotizzare una omologazione territoriale di valori, comportamenti, logiche, nelle organizzazioni che in quel territorio insistono. Mi auguro invece che le SDI, afferenti ad un territorio, siano organizzazioni con proprie specificità, di clima e stile organizzativo: ciò rappresenterebbe un incremento di opportunità per i genitori nella possibilità di scelta tra differenti servizi di istruzione.

  1. IL DOVERE DELLA VALUTAZIONE

Sempre nel senso della creazione di un'illusione collettiva che a cascata provocherà - soprattutto negli operatori scolastici - senso di impotenza e di frustrazione, il comma 2 dell'articolo 3 del DL sancisce il principio della personalizzazione delle attività educative. Con la conseguente adozione di piani personali di attività in relazione agli obiettivi formativi di ogni "autonoma" SDI.

Mi chiedo: a tre anni quali sono e come possono essere identificati gli "obiettivi formativi"?

Solo chi pensa al bambino come una futura "risorsa umana" può aver concepito una tale categoria! Oppure solo chi già intravede in questa dicitura una linea da seguire per realizzare la chimera della "continuità"! A sostegno di quanto detto sopra il DL segnala - al comma 3 del medesimo articolo - che la "scuola dell'infanzia cura la documentazione relativa al processo educativo". E come viene affermato nel commento del Ministero, questo articolo introduce il concetto di portfolio già nella scuola dell'infanzia. Si sostiene dunque che già a questo livello educativo (della SDI) "il valore storico-narrativo della documentazione degli interventi formativi".

Posso solo immaginare ciò che accadrà a mio figlio. A conclusione della SDI verrà dotato di un portfolio di capacità e competenze, accuratamente testate e valutate dalla equipe pedagogica della SDI, carta di identità attraverso la quale potrà realizzare la famigerata continuità con la Scuola primaria. Avrà dunque il suo portfolio!

Questo "concetto" (come lo chiama il Ministero) oltre ad essere più adatto a fasce d'età un po' più avanzate (adolescenti e giovani), sostanzia la negazione di qualunque principio psicologico e del fare educazione, il legislatore intendesse porre a fondamento del nuovo sistema dell'istruzione: la centralità della relazione in ogni atto educativo, anche in quello valutativo.

Chi può negare che un bimbo si esprima in maniera differente, in relazione alla classe in cui è e all'insegnante con la quale sta crescendo! E chi può negare il fatto che possa accadere che bimbi descritti come maturi e pronti per la scuola primaria, hanno (pochi mesi dopo) comportamenti di rifiuto dell'apprendimento e dello stare in classe e viceversa bimbi immaturi e considerati incapaci di stare seduti entrano nella classe "superiore" con entusiasmo e adeguatezza!

Il portfolio, strumento dal vago sentore economicista, altro non serve che a valutare e, cosi, definire all'interno di uno schema il misterioso evolvere di bimbi tra i 2 e i 5 anni. Ma non solo. Rappresenterà l'ulteriore strumentazione burocratica che distoglierà l'attenzione educativa delle insegnanti dal porre in primaria attenzione le dinamiche affettive e relazionali del gruppo classe.

            4 dicembre 2003

ALBERTO RAVIOLA, genitore, si occupa di formazione in ambito sociale; ha scritto con altri  CHIRONE, SOCRATE, BUDDHA. - Modelli e stili di relazione educativa, Arcipelago Edizioni

 

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