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Nei
mesi scorsi è stato promulgato dal Presidente della Repubblica -
su proposta del Ministro dell'Istruzione, dell'Università e
della Ricerca, di concerto con il Ministro dell'Economia e delle
Finanze, con il Ministro per la Funzione Pubblica e con il Ministro
del Lavoro e delle Politiche Sociali- lo schema di decreto
legislativo (DL) applicativo della Legge 28 marzo 2003,
n.53 di "Delega al Governo per la definizione
delle norme generali sull'istruzione e dei livelli essenziali
delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale". Nelle
pagine seguenti presento le riflessioni che mi sono state suscitate
dalla lettura del cospicuo documento e, in specifico, propongo una
lettura critica del ruolo che lo schema di DL assegna alla FAMIGLIA
nella parte dedicata alla Scuola dell'Infanzia. |
LA FAMIGLIA e LA SCUOLA DELL'INFANZIA
(dai 2 anni e 1/2 ai 5 anni e 1/2) |
Lo
schema del DL intende (e in più parti lo fa con richiami più che
espliciti) rispondere all'esigenza di affidare alle famiglie un
ruolo decisivo nel percorso scolastico dei propri figli. L'assioma
che sostiene questa necessità è che la famiglia rappresenti "il
primario contesto affettivo e di vita delle bambine e dei
bambini" (art.3 comma 2) e che dunque intorno ad esso debbano
dispiegarsi i servizi scolastici ed educativi in questa fascia d'età.
L'articolo 1, inoltre, ribadisce ciò che è già contenuto nella L.N.
53/2003: la Scuola dell'Infanzia (SDI) "nel rispetto della
primaria responsabilità educativa dei genitori" deve concorrere
"all'educazione e allo sviluppo affettivo, psicomotorio, cognitivo,
morale, religioso e sociale delle bambine e dei bambini promovendone
le potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento,
e ad assicurare un'effettiva eguaglianza delle opportunità educative".
E ancora in altre parti del DL, le espressioni utilizzate vanno
nel senso della gregarietà della Scuola al ruolo primario in educazione
della Famiglia: "la SDI concorre ad educare
.", "l'orario
. si diversifica tenendo conto delle esigenze della famiglia",
"i docenti curano
attraverso la relazione con
la famiglia
..". Forse
il legislatore non si è accorto che la Famiglia, intesa come nucleo
di affetti primari, sta da qualche anno subendo mutazioni significative.
La crisi che la attraversa, risiede nel fatto che essa è un insieme
nel quale i ruoli (padre, madre, figlio) non sono più definiti
come un tempo. Oggi la famiglia è ad una svolta: dalla configurazione
nucleare (padre, madre e figli naturali) ad una plurale (aggregazioni
mono-parentali, multi-matrimoniali, omosessuali, comunitarie, ecc.).
Se queste forme hanno connotati storici, ciò che supera il tempo
rimane il bisogno dell'individuo, e più ancora del bambino, di
un nucleo di affetti forti, che attraverso l'appartenenza e l'identificazione,
accompagni e favorisca la crescita. E
questo nucleo la Famiglia spesso non lo rappresenta più. Essa può
essere un riparo, uno spazio di cura, un insieme alleato, oppure
può essere un antro minaccioso, un centro di ostilità, più pericoloso
del mondo che sta fuori. Oppure, ancora, può semplicemente non avere
alcun ruolo. Ciò non può essere ignorato! Nemmeno da chi intende
promulgare una legge che valga per un futuro a medio-lungo termine.
Dunque
la Famiglia può anche essere nel rapporto con la scuola, delegante,
evitante, ignorante. Delegare il ruolo di nucleo educativo primario,
evitare la presa in carico delle responsabilità affettive e relazionali
nei confronti dei piccoli, ignorare le sollecitazioni a partecipare
e co-decidere modalità e tempi. La
scuola, da parte sua, può agire in due modi: sottrarsi a questi
comportamenti agiti dalla Famiglia oppure rispondervi. A mio parere
la scuola deve agire questo 2° atteggiamento: rispondere, non sottrarsi
e difendersi da tali richieste. Per anni qualcuno ha negato che
l'educazione fosse compito della scuola, riservandola alla famiglia.
Ma oggi sempre più spesso la famiglia non è in genere attrezzata
per educare. Perché educare è diventato un mestiere, da quando è
parsa evidente la frattura fra passato e futuro (cfr. Le famiglie
sono necessarie per ripetere, tramandare, riprodurre l'educazione
in uno scenario storico statico (cfr. G.Contessa, in CHIRONE, SOCRATE, BUDDHA.
- Modelli e stili di relazione educativa, Arcipelago edizioni).
Di
fronte all'attuale epoca questo è però insufficiente, quando non
addirittura dannoso. Educare, nel senso di tirar fuori le potenzialità
e nel senso di inserire, immettere, introdurre nella società
è sempre più un mestiere, perché richiede un'intenzione, un progetto,
delle verifiche, oltre a diverse competenze tecniche e personali.
La scuola non potrà esautorare o sostituire la famiglia, ma dovrà
diventare sempre più il centro del processo educativo, anche perché
il numero di anni che un individuo passa in una classe è assai più
elevato di quelli che passa a contatto coi genitori. La
logica dunque dovrebbe essere inversa a quella proposta dal DL:
la famiglia concorre all'educazione, la scuola la impartisce. Naturalmente
sono consapevole che per i genitori accettare questa logica sarebbe
spiazzante e colpevolizzante. Come accettare di abbandonare la "carne
della propria carne" ad altri? Come poter pensare di essere
privati del ruolo di accudire e allevare i propri figli? Ma è necessario
rendersi conto che nei fatti è già così. E,
seppur in maniera ambivalente e contraddittoria, anche il DL lo
sancisce nelle parti dedicate all'organizzazione del tempo-scuola:
il tempo di permanenza nella SDI può arrivare alle
50 ore settimanali. Ciò non fa altro che sostenere l'inversione
di tendenza che abbiamo sostenuto fino ad ora. Nei fatti il verbo
"concorrere" dell'art.1 dovrebbe trasformarsi nel verbo
"impartire": la scuola diventa lo spazio all'interno
del quale i piccoli passano il tempo affettivo relazionale maggiormente
significativo per il loro sviluppo e la loro crescita. In
questo senso il DL è un bell'esempio di doppia morale: un genitore
oggi è costretto a gestire quotidianamente la discrasia tra pressione
sociale al ruolo ed espropriazione dello stesso, tra buone intenzioni
educative e incapacità di agirle, tra chiamata ad essere genitori
e impossibilità ad esserlo. E in specifico per la SDI ciò è evidente:
bimbi e bimbe di 3-6 anni per i quali la morale è "adesiva",
scarsamente riflessiva, messa in atto di comportamenti interiorizzati
attraverso la relazione con l'adulto, che li affianca nella tempo
di vita (a scuola, in famiglia, nel tempo libero). E
se la persona con la quale passa maggior tempo è la maestra non
può essere che lei la prima educatrice di quel bimbo!
L'art.1
sottolinea come la SDI "nel rispetto della primaria responsabilità
educativa dei genitori, contribuisce alla formazione integrale delle
bambine e dei bambini" ed afferma che "nella sua autonomia
e unitarietà didattica e pedagogica, realizza la continuità
educativa con il complesso dei servizi all'infanzia e con la scuola
primaria" (il ciclo successivo che va dai 6 agli 11 di età
dei bimbi/delle bimbe, n.d.r). La
parola chiave è "continuità". Idea e pratica che starebbe
a significare uno stretto e costante scambio e confronto, in vista
di decisioni condivise attraverso una modalità negoziale, pianificata
e verificabile, tra organizzazioni scolastiche e genitori. Ma non
solo. Come sostiene il commento del Ministero al DL (presente in
Internet http://www.istruzione.it/news/2003/schema_decreto.shtml)
uno dei principi chiave dell'attività didattica futura dovrebbe
essere "la continuità verticale tra i sistemi presenti sul
territorio" e cioè il legame con il segmento precedente la
SDI (l'asilo nido) e con quello successivo (la Scuola Primaria).
La
continuità diventa un valore assoluto, un attrattore dei comportamenti
educativi ed organizzativi della SDI, in particolare, e del Sistema
Istruzione, in generale. Ciò mi sembra un tentativo di trasformare
un'impossibilità del fare educativo ed organizzativo in una illusione
sotto forma di slogan. In
termini educativi, la continuità non è un bene in sè: il cambiamento
di modelli e stili di insegnamento ed educazione può facilitare
e non ostacolare lo sviluppo e la crescita dei piccoli. La continuità
può essere invece il "cavallo di Troia" all'interno del
quale si nascondono spinte di adattamento metodologico e di omologazione
didattica che ciascun segmento del Sistema può indurre nei confronti
del precedente o del successivo. Non possiamo scordare che la continuità
(idea e prassi) nasce dall'annosa questione dell'inadeguatezza dei
piccoli agli standard richiesti dall'organizzazione: la "vecchia"
scuola superiore da sempre si lamenta dell'incapacità della scuola
media inferiore a preparare i ragazzini a leggere e scrivere, e
così a cascata giù fino alle accuse di non far pre-scrivere e pre-leggere
lanciate alla scuola materna! D'altra
parte come genitore non ritengo possibile la continuità educativa
tra le scelte della famiglia e quelle della scuola. Ciò significherebbe
una richiesta di adattamento reciproco; penso non tanto a questioni
ideologiche ma quanto a modalità relazionali omologate e appiattire,
con i piccoli in crescita, a casa e a scuola. Fenomeno, tra l'altro,
che non potrebbe mai realizzarsi, in un contesto dove 25 bambini
e altrettanti mamma e papà, mettono in gioco caratteri, idee, azioni
di certa e inestinguibile diversità. Porre la continuità a principio
fondativo della SDI (ma ad una prima scorsa del DL, anche degli
altri ordini di Scuola) mi appare dunque un tentativo di sancire
una "mission impossible". Come
sembra essere una chimera ipotizzare una omologazione territoriale
di valori, comportamenti, logiche, nelle organizzazioni che in quel
territorio insistono. Mi auguro invece che le SDI, afferenti ad
un territorio, siano organizzazioni con proprie specificità, di
clima e stile organizzativo: ciò rappresenterebbe un incremento
di opportunità per i genitori nella possibilità di scelta tra differenti
servizi di istruzione.
Sempre
nel senso della creazione di un'illusione collettiva che a cascata
provocherà - soprattutto negli operatori scolastici - senso di impotenza
e di frustrazione, il comma 2 dell'articolo 3 del DL sancisce il
principio della personalizzazione delle attività educative. Con
la conseguente adozione di piani personali di attività in relazione
agli obiettivi formativi di ogni "autonoma" SDI. Mi
chiedo: a tre anni quali sono e come possono essere identificati
gli "obiettivi formativi"? Solo
chi pensa al bambino come una futura "risorsa umana" può
aver concepito una tale categoria! Oppure solo chi già intravede
in questa dicitura una linea da seguire per realizzare la chimera
della "continuità"! A sostegno di quanto detto sopra il
DL segnala - al comma 3 del medesimo articolo - che la "scuola
dell'infanzia cura la documentazione relativa al processo educativo".
E come viene affermato nel commento del Ministero, questo articolo
introduce il concetto di portfolio già nella scuola dell'infanzia.
Si sostiene dunque che già a questo livello educativo (della SDI)
"il valore storico-narrativo della documentazione degli interventi
formativi". Posso
solo immaginare ciò che accadrà a mio figlio. A conclusione della
SDI verrà dotato di un portfolio di capacità e competenze, accuratamente
testate e valutate dalla equipe pedagogica della SDI, carta di identità
attraverso la quale potrà realizzare la famigerata continuità con
la Scuola primaria. Avrà dunque il suo portfolio! Questo
"concetto" (come lo chiama il Ministero) oltre ad essere
più adatto a fasce d'età un po' più avanzate (adolescenti e giovani),
sostanzia la negazione di qualunque principio psicologico e del
fare educazione, il legislatore intendesse porre a fondamento del
nuovo sistema dell'istruzione: la centralità della relazione in
ogni atto educativo, anche in quello valutativo. Chi
può negare che un bimbo si esprima in maniera differente, in relazione
alla classe in cui è e all'insegnante con la quale sta crescendo!
E chi può negare il fatto che possa accadere che bimbi descritti
come maturi e pronti per la scuola primaria, hanno (pochi mesi dopo)
comportamenti di rifiuto dell'apprendimento e dello stare in classe
e viceversa bimbi immaturi e considerati incapaci di stare seduti
entrano nella classe "superiore" con entusiasmo e adeguatezza! Il portfolio,
strumento dal vago sentore economicista, altro non serve che a valutare
e, cosi, definire all'interno di uno schema il misterioso evolvere
di bimbi tra i 2 e i 5 anni. Ma non solo. Rappresenterà l'ulteriore
strumentazione burocratica che distoglierà l'attenzione educativa
delle insegnanti dal porre in primaria attenzione le dinamiche affettive
e relazionali del gruppo classe.
4 dicembre 2003 ALBERTO RAVIOLA, genitore, si occupa di formazione in ambito sociale; ha scritto con altri CHIRONE, SOCRATE, BUDDHA. - Modelli e stili di relazione educativa, Arcipelago Edizioni
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