IL BURN-OUT DEGLI OPERATORI SOCIALI PENITENZIARI

I. Drudi - M. Vittoria Sardella in: GO&C, Gruppi Organizzazioni Comunità, n.7

Nell'ambito dell'organizzazione del Convegno: "Carcere e ruolo degli operatori sociali. Mutamenti normativi, nuove emarginazioni, nuove forme di controllo penale", promosso da un gruppo di operatori sociali del Ministero di Grazia e Giustizia, é stato chiesto all'ARIPS di collaborare per l'approfondimento del tema relativo alla sindrome del burn-out negli operatori sociali penitenziari.

La collaborazione dell'ARIPS si é strutturata come segue:

·        é stato messo a disposizione degli organizzatori il Questionario sul burn-out, messo a punto dagli operatori ARIPS nel 1985, lievemente modificato ed  integrato per adattarlo alla specificità del contesto carcerario

·        il questionario é stato distribuito in varie realtà penitenziarie agli  "operatori dell'aiuto", (educatori, assistenti sociali, medici, psicologi,  etc). Ciò é stato possibile grazie all'impegno degli operatori del comitato  organizzatore, in particolare Dr S. Rigione di Pisa e D.ssa P. Ciardiello  di Milano e alla Prof. D'Aniello dell'Università di Napoli

·        i risultati sono stati presentati nel corso del Convegno che si è tenuto a  Milano il 16 maggio 1992

Prima di illustrare i dati più significativi ci pare importante fornire una definizione del problema di cui ci stiamo occupando e alcune note sulla "febbre" da burn-out.

Edelwich e Brodsky, autori di uno dei primi testi americani sul problema (3), definiscono il burn-out "una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risultato delle condizioni in cui lavorano". Il burn-out é, quindi, una sindrome che colpisce i singoli operatori, ma fa avvertire le conseguenze anche ai clienti/utenti (per i quali un contatto con operatori in cortocircuito risulta inefficace) e alla comunità in generale. Tale sindrome trae origine dalle condizioni di lavoro.

L'ARIPS si occupa da oltre un decennio di questo problema e, in particolare, dell'individuazione e misurazione della sindrome in Italia. Il risultato di una prima fase di questo impegno é compendiata nel volume "L'operatore cortocircuitato" (4), nel quale é riportato il questionario costruito per la situazione italiana, la metodologia con cui é quantificato il livello di gravità della sindrome (cioè la febbre) e alcune applicazioni in diversi contesti al fine di sperimentare e validare lo strumento di rilevazione. Successivamente, una volta raggiunto un numero sufficiente di dati, il questionario è stato sottoposto ad una procedura di validazione statistica, che ha fornito ottimi risultati, riportati in dettaglio nel n. 1 di questa stessa rivista (5).

Per rendere agevole la categorizzazione degli operatori che riempiono lo strumento é stato calcolato un punteggio di disagio lavorativo, che, dopo un opportuno cambiamento di scala, può essere equiparato alla temperatura corporea che é stata chiamata Febbre.

La febbre individuale consente di raggruppare i soggetti a seconda della loro temperatura di Burn-Out, in particolare:

            Soggetti sani                 da 36            a            36,9 gradi

            Soggetti a rischio            da 37,0            a            37,9 gradi

            Soggetti malati  38,0 gradi e oltre

E' interessante, fin da ora, anticipare un risultato rilevante dell'analisi condotta: in base alla tripartizione descritta: gli operatori penitenziari che hanno compilato il questionario si collocano nel seguente modo

 

sani                  20.1%

a rischio            33.3%

malati               46.5%

                        -------

TOTALE     100.0%

1. GLI OPERATORI

Hanno aderito all'iniziativa 145 operatori penitenziari, le notizie che seguono si riferiscono, però, a 144; spiegheremo in seguito il perché. La maggioranza relativa è composta da donne. Non giovanissimi (più della metà ha oltre 35 anni), sono prevalentemente coniugati e con alto titolo di studio (laurea+titolo parauniversitario=75.9%). Sono rappresentate tutte le qualifiche, con una preponderanza di educatori (37.5%) e di assistenti sociali (22.9%). La stragrande maggioranza ha un contratto di lavoro stabile. Una buona percentuale lavora presso una casa circondariale; gli altri operatori provengono anche dai centri di servizio sociale, da ospedali psichiatrici giudiziari e da case di reclusione. Le regioni che hanno dato maggior adesione sono state, nell'ordine, la Toscana, la Campania e la Lombardia.

Le motivazioni di carattere ideale sono ai primi posti al momento della scelta del lavoro: in una scala di importanza, dove 0 indica nessuna e 100 la massima importanza, gli operatori collocano tra 60 e 70 fare qualcosa di utile per gli altri e fare qualcosa di significativo sul piamo civile/politico. Analizzando le motivazioni attuali a continuare questo lavoro e, soprattutto, le differenze con le motivazioni iniziali si nota una grossa delusione: calano decisamente i motivi politici e culturali e aumentano, invece, quelli più "inaspettati" (lavoro civile -20 punti; lavoro utile -15; culturalmente avanzato -12. Di contro, stima e prestigio sociale +9; persone che stimo fanno questo lavoro +7).

Meno di un terzo è soddisfatto del lavoro che fa e non cambierebbe, la metà cambierebbe lavoro se ne trovasse uno simile, tutti gli altri fanno un bilancio negativo della loro esperienza lavorativa. 

Questo il quadro generale di chi ha risposto. Un quadro interessante, in cui compaiono operatori non alle prime armi, qualificati, "nobilmente" motivati in partenza, un pò stanchi e delusi e, certamente, sofferenti di burn-out. Ci sono alcuni elementi che differenziano questo collettivo da altri che abbiamo esaminato. Il primo è questo: vi è una preponderanza più che proporzionale rispetto alle classi di età della popolazione italiana di persone che hanno tra i 30 e i 40 anni, più di quanto ci si potrebbe aspettare se la scelta di fare questo lavoro fosse stata casuale. Queste sono generazioni nelle quali l'"utopia" ha trovato terreno più fertile che non in altre generazioni, se non altro per la storia che le ha caratterizzate. Ciò può indirettamente portare ad identificare questo insieme di persone come portatrici di uno dei fattori scatenanti la sindrome del burn-out che è quello di una forte idealizzazione, almeno iniziale, in termini di motivazione al lavoro. Questo è sicuramente un fattore di rischio ed è presente in queste persone che hanno risposto. Un'altra caratteristica è che vi è una "forte" presenza di persone separate o divorziate. Questo è un altro fattore di rischio: i single sono più colpiti da fenomeni di questo tipo e, tra i single, le persone che hanno avuto una separazione sono ancora più a rischio.

La composizione in termini di regioni di lavoro di questo collettivo non è equilibrata. Il campione, però, è evidentemente non significativo, non si tratta di un'estrazione casuale e la rappresentatività non va al di la di queste 144 persone. Siamo sicuramente in presenza di un rischio di autoselezione, probabilmente a questa iniziativa hanno risposto coloro che avvertivano il problema in maniera più pressante. Questo va detto, ma non sminuisce l'importanza dei risultati.

Va, inoltre, sottolineato che, soprattutto sulle variabili anagrafiche, si registrano delle non risposte. Alcune persone che hanno riempito buona parte del questionario non hanno risposto ad alcune domande specifiche. I tassi più alti di non risposta (5/6% abbastanza alti trattandosi di un'adesione volontaria) sono concentrati su tutte quelle domande che, in qualche modo, possono suggerire un'identificazione: sesso, età, mansione, luogo di lavoro e provincia di lavoro. Abbiamo avuto una percentuale di evasione molto superiore a quella che riscontriamo di solito e non pensiamo che sia una dimenticanza. Ipotizziamo che alcuni operatori abbiano omesso volontariamente le notizie su sesso/età/qualifica per paura di essere individuati e, quindi, riconosciuti. Probabilmente il luogo di lavoro è percepito come "controllante" non solo dai detenuti e la paura del controllo è un'altra concausa della sindrome.

A proposito della qualifica professionale, hanno compilato il questionario anche operatori non strettamente "dell'aiuto". In particolare, personale di segreteria, alcuni direttori e un agente di custodia. Abbiamo deciso di trattare comunque le informazioni fornite da questi operatori, perché ci sembrava un segnale interessante che si fossero collocati tra le "help-professions" e, per motivi di esiguità di numero e quindi di segretezza, abbiamo collocato tutti nella dizione "personale amministrativo". Abbiamo dovuto, invece, eliminare il questionario dell'agente di custodia, perché era uno solo e, quindi, non solo riconoscibilissimo, ma anche rappresentativo solo di se stesso. Questo è il motivo per cui il collettivo di riferimento è 144.

Infine, ad alcune regioni il questionario non è stato nemmeno proposto, perché non c'era nessun operatore proveniente da quelle regioni nel gruppo promotore dell'iniziativa.

La presenza preponderante di Toscana, Campania e Lombardia è dovuta all'impe­gno dei colleghi citati in precedenza.

Dal confronto con dati nazionali registrati con il nostro strumento emerge che gli operatori penitenziari sono quelli con temperatura più alta, insieme a chi lavora in strutture protette per anziani (entrambi 38°) seguiti a breve distanza da chi è occupato in comunità terapeutica (37.8°). Completamente "senza febbre" sono invece gli insegnanti e gli operatori di servizi specialistici.

Questo stato di malessere/benessere conferma che una delle maggiori cause di bruciatura è costituita sia dal contatto con situazioni devianti e di emarginazione sia dalla permanenza in istituzioni "totali". Si tratta di operatori che lavorano in settori che richiedono un forte impegno personale e un alto investimento emotivo e che, quindi, sono maggiormente esposti al burn-out.

2. IL BURN-OUT IN CARCERE

2.1 Le variabili sociodemografiche

Incrociando le variabili socio-demografiche con le temperature di burn-out scopriamo che i più ammalati sono coloro che non indicano il sesso (febbre=38.3) e le donne (38.2); comunque gli uomini non godono ottima salute (37.7). La classe di età maggiormente colpita è quella che va dai 31 ai 35 anni (misura 38.2), mentre i più anziani sono a rischio o, probabilmente, già cicatrizzati. La famiglia, anche in questo caso anche se meno di altre situazioni, fa da cuscinetto ammortizzante: i single (sia non sposati che separati) registrano una temperatura superiore, anche se di poco, a quella dei coniugati. Anche il titolo di studio, come già visto da altre applicazioni dello stesso strumento, fa da ammortizzatore: chi ha un titolo di studio "basso" ha una febbre molto alta (media inferiore/39.4) e viceversa (laurea/37.9). Di solito, chi ha un titolo di studio elevato ha anche una qualifica elevata e questo consente un'elaborazione più raffinata del problema. Nel nostro caso, però, il titolo di studio funziona come difesa fino ad un certo punto. Quello che emerge è che chi ha un basso titolo di studio sta malissimo e chi ha un titolo di studio più alto sta meno male, non bene.

  

2.2 Le variabili lavorative

Passando ad analizzare le variabili lavorative, la situazione di disagio maggiore si osserva tra gli educatori, siano essi educatori tout-court (38.6) o educatori coordinatori (38.4), e tra gli assistenti sociali che non hanno funzione di coordinamento (38.3). Dalla parte opposta ci sono medici, insegnanti, assistenti sociali con funzioni di coordinamento (rispettivamente 36.9, 37.3, 37.4). Quella di medico ed insegnante sono professioni che hanno uno status sociale molto più definito e che sicuramente si coniugano anche con attività esterne. Inoltre questi operatori hanno un rapporto di lavoro di tipo consulenziale che, quindi, consente di centrare i propri interessi anche sull'esterno. Anche gli assistenti sociali coordinatori  lavorano  più all'esterno dell'istituzione carceraria, questo potrebbe spiegare il grado minore di febbre.

La stabilità del posto di lavoro che, nei primi studi sul burn-out, era considerato uno degli elementi di benessere che, poteva, quindi, agire positivamente sulla prevenzione del disturbo, ha assunto, negli ultimi tre anni, valenza negativa. Questo emerge anche dai nostri operatori: chi è di ruolo ha una temperatura superiore ai 38°, mentre chi ha un incarico non si è ancora ammalato. Si può ipotizzare, a questo proposito, che siano cambiati i valori legati al lavoro. Non basta più avere un "posto sicuro" per essere soddisfatti del proprio lavoro; anzi il non potere, per contratto, fare alcuna attività parallela facilita la diminuzione di creatività e di scambi intellettuali. Queste considerazioni sono confortate anche dal fatto che chi svolge una seconda attività lavorativa ha solo pochi decimi, cioè è un soggetto "a rischio" ma la seconda attività serve a non farlo ammalare completamente.

A proposito del luogo di lavoro si nota che, ancora una volta, sono i "distratti" a registrare il grado di febbre più alta. Chi non indica il luogo di lavoro misura, infatti, una temperatura di poco inferiore a 39°. Del tutto inaspettatamente, invece, chi lavora in ospedale psichiatrico giudiziario ha 37.5° di febbre. É la Lombardia (cioè gli operatori di San Vittore) la regione più sofferente (oltre 38.5°), mentre il Piemonte non presenta stati febbrili (36.7°), l'Emilia-Romagna e la Campania presentano solo qualche decimo (rispettivamente 37.3° e 37.5°).

Questi risultati suscitano sorpresa e, di conseguenza, maggiori interrogativi. In una delle regioni e, quindi, delle carceri che gode di peggior fama (Campania/Poggioreale) si registrano temperature veramente lievi e lo stesso accade negli OPG (istituzioni due volte totali) . Questo è un tipico dato a cui dare interpretazione dall'"interno". É solo un problema di stereotipo e pregiudizio ma, in realtà queste istituzioni non sono così "infernali" come vengono dipinte? Il carcere è duro ma le relazioni tra gli operatori sono qualitativamente soddisfacenti? Gli operatori sono partiti aspettandosi il peggio e, quindi, quasi vaccinati? O, ancora, questi operatori sono ormai cicatrizzati e, come tali, sono "guariti" ma portano i segni dell'ustione?

La temperatura disaggregata per anni di lavoro nel posto e nel ruolo attuale non presenta variazioni. Questi dati sono piuttosto eccentrici, stanno ad indicare che la sindrome, nel contesto penitenziario, non ha evoluzione. Di solito si registra una fase crescente (inizio carriera), un apice (dopo 5/6 anni di lavoro) ed una fase decrescente. Pare invece che il solo fatto di "essere entrati" in carcere abbia fatto salire la febbre ai nostri operatori.

2.3 Motivazioni e bilancio attività lavorativa

La caduta delle motivazioni spiega ulteriormente lo stato di malessere. Sono i "malati" quelli che hanno perso maggiormente la speranza di fare un lavoro a valenza politica/sociale e utile agli altri e sono sempre loro quelli che rimangono nel posto di lavoro perché non sanno dove andare (e che non hanno scelto questo lavoro per caso). I "sani", invece, non si aspettavano di intraprendere una carriera che li aiutasse a crescere personalmente e temevano un lavoro monotono. D'altronde, come ci si poteva aspettare, i "sani" sono soddisfatti e non cambierebbero lavoro; mentre chi pensa di aver sbagliato tutto è quasi in fase terminale (oltre 39°)

Posti di fronte al quesito: quali sono gli aspetti che dovrebbero cambiare più in fretta per migliorare le condizioni di lavoro gli operatori in questione rispondono che sono prevalentemente di tipo strutturale (52.4%), al secondo posto (33%) quelli a carattere "interfacciale" (colleghi/utenti/territorio) e all'ultimo posto (14.6%) quelli più strettamente personali (carattere, competenze professionali). Mettendo in relazione questi aspetti aggregati con la febbre da burn-out non si notano differenze di rilievo (la temperatura oscilla da 38/strutturali a 38.2/personali). Analizzando invece gli aspetti disaggregati, notiamo che la punta minima è toccata di chi vorrebbe un contratto diverso, mentre la massima da chi vorrebbe un dirigente diverso o da chi ha indicato un numero tale di aspetti da fare ritenere nulla la risposta.

2.4 Azioni per prevenire/curare il burn-out

I "malati" sono decisamente in fuga. Oltre il 30% ha chiesto l'aspettativa o ha avviato le pratiche per la pensione anticipata e circa la metà sta cercando un altro lavoro. Chi cerca di andare in pensione ha una temperatura veramente elevata (oltre 39°). D'altronde anche il non muoversi non risolve la situazione: chi non ha ancora intrapreso nessun tipo di iniziativa ha, comunque, quasi 38°. La formazione da sola  non basta a risolvere problemi organizzativi, aiuta a stare "un pò meglio" personalmente. Se il burn-out fosse un disturbo psicologico individuale potrebbe essere sufficiente una psicoterapia per curarlo. Dal momento che, e siamo sempre più convinti, è una malattia professionale la soluzione può venire solo dalla combinazione tra cambiamenti organizzativi e aggiustamenti personali.

2.5 Conclusioni

Qual è la reazione normale di fronte al perdurare di uno stato di disagio ai livelli che abbiamo fin qui visto, per lunghi periodi di tempo? Le reazioni possibili sono fondamentalmente due: o gli operatori si "cicatrizzano", cioè diventano "malati cronici", imparano a convivere con un livello di disagio che, per il fatto di essere accettato, si abbassa e si scavano una sorta di bozzolo, una nicchia ecologica di sopravvivenza. Questo soluzione ha evidentemente effetti devastanti circa la capacità di continuare a lavorare e circa l'investimento emotivo e quindi gli effetti sono deleteri non solo per il singolo operatore ma anche per gli utenti e, quindi, per l'intera collettività. Oppure, altra forma di reazione, soprattutto adottata da chi non si rassegna, è quella del "darsi da fare", del cercare soluzioni per risolvere il problema. Qualunque sia la reazione, però, una cosa è certa: quando andiamo a misurare la febbre troviamo la gente che "è rimasta" nel posto di lavoro. I "reduci" delle altre situazioni da noi analizzate avevano trovato, dopo la fase acuta, una sorta di modus vivendi. Nel caso degli operatori penitenziari non è così. Chi è rimasto continua a stare male, non presenta sintomi evidenti di cicatrizzazione o rassegnazione. Questo è un risultato importante, perché quando un organismo ha la febbre, un organismo sta male. É anche vero, però, che un organismo che ha la febbre sta sviluppando degli anticorpi, sta, quindi, tentando di mobilitare le proprie energie per uscire da uno stato di disagio. A volte, per guarire, sono sufficienti gli anticorpi prodotti; altre volte c'è bisogno di un aiuto esterno. In questo caso sarebbe necessaria una terza via che in fisiologia pare non esistere: i tanti o pochi anticorpi che nell'organismo "operatori penitenziari" esistono dovrebbero mettersi d'accordo su una strategia comune.

NOTE

(1) Edelwich J. - Brodsky A., Burn-out: STAGES OF DISILLUSIONMENT IN THE HELPING PROFESSIONS, Human Sciences Press, New York, 1980

(2) Aa. Vv., L'OPERATORE CORTOCIRCUITATO, CLUP, Milano, 1987

(3) Drudi I. - Sardella MV., LA MISURA E LE DETERMINANTI DEL BURN-OUT, in  GO&C, Gruppi Organizzazioni Comunità, Città Studi, Milano, n. 1, gennaio-giugno 1993, pp. 52-62