L’opera che marca la svolta dialogica di Martin Buber è Io e Tu del 1923. La sua pubblicazione segue quella dei Frammenti Pneumatologici di F. Ebner e della Stella della redenzione di F. Rosenzweig, opere che, segnate dall’esperienza della prima guerra mondiale, esprimono la necessità di passare dalla «rappresentazione del mondo» alla «costituzione di senso», dalle verità preconfezionate, universali, astratte, alla vita. La vita è ciò oltre cui non è possibile risalire, il presupposto irrinunciabile, perché non lo spirito, non la natura, ma la vita rivela l’autentica totalità, la vita che non è predeterminata e predeterminabile.1
Non più, quindi, il presidio di un punto in cui il pensiero si situi all’origine assoluta, ma l’abbandono all’incontro, alla ricerca di una traccia del trascendente, del Tu, che è all’inizio della relazione fondativa dell’essere.2 Perché la verità non é verificabile in astratto, nel monologo solitario, ma fra Io e Tu, nel concreto delle relazioni tra le persone. Ed è questa anche la via per affrontare quella che Buber definì «la crisi spirituale del nostro tempo».3
Posto che esistono due modi per l’uomo di rapportarsi al mondo, uno dialogico (Io-Tu) ed uno monologico (Io-Esso), Io e Tu comincia distinguendo due atteggiamenti (haltung): «Il mondo ha per l’uomo due volti, secondo il suo duplice atteggiamento».4 Atteggiamento indica un modo di porsi che sottintende un’intenzione. Questo dimostra che Buber, quando scrive Io e Tu, porta con sé l’eredità della sua precedente impostazione kantiana e diltheyana: lo schema dell’intenzionalità. I modi di entrambi gli atteggiamenti risentono, infatti, di una soggettività intesa ancora come fondante: l’Io è il soggetto tanto della parola-base Io-Tu, quanto della parola-base Io-Esso.5 Il mondo non può che essere pensato in relazione al soggetto, in cui trova determinazione, si costituisce, acquista riconoscibilità (volto)6. È questo un tratto di strada che Buber condivide con Husserl.7
Questa stessa centralità del soggetto si conferma in un’opera più tarda, Distanza originaria e relazione (del 1950), in cui Buber, ponendo la domanda «del principio dell’essere uomo»8, risponde affermando che «si costituisce in un doppio movimento»:9 il distanziarsi originario e l’entrare-in-relazione. Con il distanziarsi originario l’uomo «sostituisce questo discontinuo conglomerato» di percezioni, di sensazioni, che per l’animale è l’ambito vitale, con un’immagine unitaria e coerente. Distanziato, «sciolto dalla nuda presenza, in parte sottratto ai meccanismi dei bisogni e delle necessità», il mondo diviene una totalità interconnessa, che «si pone autonomamente di fronte a un esistente».10 Con l’entrare-in-relazione il mondo diventa invece qualcosa di più, e cioè presenza, per cui si rende possibile instaurare una relazione significativa e rinvenirvi una direzione.11
Si conferma qui anche lo schema duplice.12 Si ha, infatti, un doppio movimento del soggetto, che ora interpone una distanza fra sé e l’oggetto, ora entra in relazione. Pertanto, il mondo acquista un diverso volto, a seconda che vi ci si approcci distanziandolo nella sua oggettività o partecipandone a livello del vissuto: «E così anche l’io dell’uomo è duplice. Perché l’io della parola fondamentale io-tu è diverso da quello della parola fondamentale io-esso».13
Osservando un albero -- scrive Buber in Io e Tu -- «posso percepirlo come un’immagine», una sorta di «pilastro immobile» con sullo sfondo la luce accecante del sole o l’azzurro del cielo. «Posso percepirlo come movimento», vita che fluisce dalle radici e che respira attraverso le foglie. «Posso classificarlo in una specie» fino a «riconoscerlo solo come un’espressione della legge», inquadrandolo in una «pura relazione numerica», per cui esso è e resta «un oggetto nello spazio e nel tempo».14 Ma posso pure essere coinvolto nella relazione; «e allora l’albero non è più un esso», «non è più un’impressione, […] un gioco della mia immaginazione, […] uno stato d’animo», ma «diventa un corpo vivo davanti a me», qualcosa che mi è reciproco nella sua inafferrabile esclusività.15
Lo stesso duplice atteggiamento si riscontra nel rapporto con l’altro, che tanto può essere ridotto ad «un lui o una lei, limitato da altri lui e lei, punto circoscritto dallo spazio e dal tempo nella rete del mondo», quanto acquisire la pregnanza di un tu, che «riempie la volta del cielo». Posso, allora, «considerare separatamente il colore dei suoi capelli, il tono del suo discorso, la gradazione della sua bontà», «collocarlo nello spazio e nel tempo […], ma sarà solo un lui o una lei, un esso, non più il mio tu». Perché il mio tu è speciale e nessuna causalità o fatalità può inghiottirlo nel suo meccanismo né è sperimentabile, classificabile, determinabile oggettivante. Semmai, è incontrabile, una volta che io sono «nella relazione con lui».16
Dagli atteggiamenti conseguono, poi, le attività che permeano e plasmano il mondo, i comportamenti e l’agire pratico. Anche qui lo schema è duplice, perché ci sono, quindi, attività che si caratterizzano per l’avere sempre un qualcosa per oggetto: percepisco qualcosa, provo qualcosa, mi rappresento qualcosa, voglio qualcosa, sento qualcosa, penso qualcosa, e attività senza oggetto, in quanto «la vita dell’essere umano non consiste soltanto nell’ambito dei verbi transitivi […], in attività che hanno qualcosa per oggetto». Chi dice tu, infatti, non ha alcun qualcosa per oggetto, «ma sta nella relazione». E questo stare nella relazione sfugge al determinismo del mondo ridotto a cosa, ad esso passivo: «Dove è qualcosa, è un altro qualcosa; ogni esso confina con un altro esso. Ma dove si dice tu, non c’è qualcosa. Il tu non confina».17
Nel primo caso il soggetto percorre la superficie delle cose «e ne fa esperienza. Ne trae un sapere sul modo in cui sono fatte, un’esperienza. Fa esperienza di ciò che concerne le cose».18 Nel secondo il soggetto fa un’esperienza di diverso tipo, che, per così dire, lo sopravanza, eccedendo la rappresentazione che egli può farsi del mondo e degli altri. Nel primo caso, fare esperienza equivale ad intenzionare l’oggetto per conoscerlo o utilizzarlo. Il soggetto si pone a fronte del mondo come a fronte di qualcosa il cui senso può effettivamente ed efficacemente ricostituire entro le forme dell’esperienza oggettivante. Pertanto, il mondo, divenuto «descrivibile, scomponibile, classificabile, il punto d’intersezione di svariati ambiti di leggi»,19 trova connessione nello spazio e nel tempo»20. Nel secondo, invece, si stabilisce una reciprocità che sopravanza l’intenzione del soggetto. C’è un tu che viene incontro, che si fa presenza viva nella sua irriducibile differenza.
Quando il soggetto approssima «l’essere intorno a sé»21 nei modi dell’esperienza oggettivante, il mondo si riduce ad un esso del tutto coincidente con la sua rappresentazione, ad «una somma di qualità percepibili a piacere».22 Il soggetto, quindi, gli si pone di fronte come ad un che di determinabile: le svariate cose che lo compongono appaiono ordinate ed ordinabili, separate e separabili, l’essere naturale «descrivibile, scomponibile, classificabile, il punto d’intersezione di svariati ambiti di leggi».23
Se poi guarda al mondo nel suo dinamico accadere, il soggetto vi coglie «processi in quanto tali e azioni come processi, cose costituite di qualità, processi costituiti di momenti, cose inserite nella trama spaziale e processi in quella temporale, cose e processi limitati da altre cose e altri processi, fra loro commensurabili e confrontabili».24 In tal caso, il mondo appare come qualcosa che «resta pronto a funzionare e che egli può lasciare lì, in attesa di rimpadronirsene di volta in volta e di riattualizzarle. […] il medesimo esso, questo determinato esso produttivo continua a permanere, a disposizione».25
Esso è pausa, fermata, interruzione, irrigidimento, mancanza di presenza.26 Un’incontrastata catena di causati e causanti,27 lo comprime nella funzione assegnata, in un meccanismo senza segreti e finalità propria, di cui è possibile spiegare, determinare, prevedere tutte le mosse.28
Quanto all’Io, egli è heideggeriamente «il rappresentante dell’ente risolto in oggetto».29 L’esperire oggettivo ricostituisce, infatti, il mondo a partire dalla presa del soggetto. Il mondo, annientato nel suo valore di verità, rimane totalmente nelle sue mani,30 è sempre alla sua portata, rassicurandolo e confermandolo nella pretesa di disporre di sé come delle cose:
Almeno in una certa misura, questo mondo è affidabile, possiede spessore e durata, la sua articolazione si lascia osservare, si può sempre scovare, si ripercorre a occhi chiusi e la si controlla a occhi aperti; il mondo è 1ì, vicino alla tua pelle, se vuoi, o, se lo preferisci, rannicchiato nella tua anima: è il tuo oggetto, rimane a tuo piacere, e ti rimane fondamentalmente estraneo, fuori e dentro di te. Lo percepisci, ne fai la tua «verità»: si lascia prendere da te, ma non ti si dà. Solo riguardo al mondo puoi «capirti» con gli altri; il mondo, anche se si mostra a ognuno in modo differente, è disposto a essere il vostro oggetto comune.31
L’uomo addomestica, assoggetta il mondo e, da ultimo, lo indirizza «al suo fine molteplice, quello di conservare, facilitare e approvvigionare la vita dell’uomo».32 Né l’esperienza viene elaborata nel confronto con il mondo esterno, «ma si trova quasi totalmente dentro l’uomo, il suo significato viene dall’Io, cioè dal soggetto».33
Ma l’oggettivazione annulla del pari ogni valore di verità ed ogni valore morale. Rende estraneo e distante il mondo, interponendo una barriera di incomunicabilità fra l’uomo e il mondo intorno a sé:
Appena si dice la frase «vedo l’albero» in modo tale che essa non racconta più di una relazione tra l’uomo-io e l’albero-tu, ma stabilisce la percezione dell’oggetto-albero attraverso la coscienza-uomo, ecco che essa ha già eretto la barriera tra soggetto e oggetto.34
Il linguaggio delle scienze mette inevitabilmente tra parentesi gli aspetti personali e dialogici, riconducendo la natura nei limiti di una rappresentazione impersonale ed astratta.35 Il mondo divenuto afferrabile concettualmente ed utilizzabile tecnicamente appare neutralizzato, deprivato di senso, muto. Non disturba e non mette in discussione l’autoaffermazione del soggetto, che cerca «rifugio nel possesso delle cose» proprio «quando si trova dinanzi all’incerto, evanescente, instabile, invisibile, pericoloso mondo della relazione»36. Scrive M. Buber in Dialogo: «Sta’ tranquillo, tutto succede come deve succedere, ma nulla è rivolto a te, non si tratta di te, questo è appunto il «mondo»; puoi sperimentarlo come vuoi nella vita, qualsiasi cosa tu faccia dipende solo da te, non ti si chiede nulla, non ti si interpella, tutto è silenzioso.»37
Il fare esperienza, nel senso di ridurre a oggetto comprensibile e possedibile, porta all’uomo «soltanto un mondo che consiste di esso e sempre ancora di esso, di lui e di lui e di lei e di lei e ancora di esso».38 Un mondo che è sì «oggetto di un’esperienza comune», ma «di una percezione e di un’esperienza sciolte da ogni legame»:39 «Colui che fa esperienza non ha parte al mondo. L’esperienza è in lui, e non tra lui e il mondo. Il mondo non ha parte all’esperienza. Si lascia esperire, ma questo non lo riguarda, perché non vi contribuisce per nulla, e non gliene viene nulla».40
«La formazione della funzione che esperisce e utilizza» si sviluppa a scapito della potenza della relazione,41 al di qua dell’incontro e del senso, in modo che «in esso non puoi incontrare l’altro. Senza il mondo non puoi continuare a vivere; la sua affidabilità ti sostiene, ma se in esso dovessi morire, saresti sepolto nel nulla».42
L’esperienza, afferma icasticamente Buber, «è lontananza del tu».43 Le certezze incontrovertibili della scienza non sono le nostre, per quanto siano funzionali alla nostra rappresentazione: «È certo che il mondo 'abita' in me come rappresentazione, proprio come io abito nel mondo come cosa. Ma proprio per questo non è in me, come io non sono in esso.»44
Il mondo non corrisponde alle nostre domande di senso, non ci chiede e non ci interpella45 né racconta di una relazione possibile con il soggetto. L’io trova davanti a sé «una molteplicità di contenuti», «null’altro che oggetti», che non diventano presenza.46 Il mondo resta al di qua della presenza reale,47 come sigillato nell’«apparenza di uno scorrere che è stato fermato»,48 avendo ingolfato «ogni istante di esperienze e di utilizzazioni».49
Il pensiero oggettivo, in profondità, appare come un tentativo radicale di pensare il pensiero come una cosa, di depersonalizzarlo, ossia di separarlo dal soggetto concretamente esistente. Nettato dai caratteri propriamente personali, che gli derivano dal suo situarsi temporalmente, dai suoi conati e dalle sue affezioni, il soggetto si presenta come sguardo distaccato sul mondo e sulla vita.50 Lungo questo crinale, perviene, da ultimo, al «superamento fino all’annullamento della coscienza»,51 a quella che Rosenzweig stigmatizza come «morta obiettività della terza persona».52
Lo si riscontra, in particolare, nel mondo del positivismo evoluzionista e storicista, in cui si sottostà «all’ossessione del processo, cioè dell’illimitata causalità».53 È «l’abdicazione dell’uomo al mondo esorbitante dell’esso». È il prevalere dell’analitico, del riduttivo, su ciò che è capace di dare senso.54 È la fatalità, senza destinazione, che condiziona il nostro vivere. È quell’oggettività rassicurante che altro non è se non «sollecitudine spettrale per numeri senza volto!»,55 rinuncia all’oggetto vero della ragione, alla sua vocazione propria. «Quello stesso uomo che si è cucinato lo spirito come strumento di godimento», che lo ha ridotto a collezionista di sensazioni, «che cosa può farsene degli esseri che vivono intorno a lui?» -- si chiede Buber. Egli ha scisso la sua vita in due territori separati: istituzioni e sentimenti, territorio dell’esso e territorio dell’io, entrambi isolati, distinti, irrelati56. Il suo scopo sarebbe l’autoappropriazione, la determinazione di un mondo funzionale al soggetto, ma «non c’è realtà, dove c’è autoappropriazione».57
Sul piano dell’orientamento e del senso il mondo-esso non offre significati. Con un’espressione che anticipa l’heideggeriana «dell’essere non ne è nulla»,58 Buber afferma che all’uomo «non gliene viene nulla»: «Si lascia esperire, ma questo non lo riguarda, perché non vi contribuisce per nulla, e non gliene viene nulla».59 Quel mondo, rannicchiato com’è nella nostra anima, «ti rimane fondamentalmente estraneo, fuori e dentro di te».60 È «come un immenso fantasma palustre»61 incombente sul soggetto, che, «per quanto possa appropriarsi di molte cose […], rimane, puntualmente, funzionalmente, ciò che esperisce e utilizza, nient’altro».62 Quando, infatti, «l’usuale causalità cresce a oppressiva, schiacciante fatalità»,63 «al posto del movimento sempre rinnovato dell’essere che si raccoglie e si stacca subentra l’acquietarsi in un esso»64 «privo di consegna personale».65
Separazione, anziché partecipazione, prevaricante appropriazione, anziché contemplazione discreta.66 L’uomo si ritrova con immagini senza riscontro, con parole che non dicono, con colori stemperati, con odori e sapori stantii. Ne consegue la solitudine, che segna, per Buber, l’esistenza nella crisi del moderno:67 condizione di non-incontro, di mutismo, di autoreferenzialità, una variante dell’estetico, in cui la vita è giocata nell’irresponsabilità. Risvolto morale ne è, infatti, l’autocompiacimento, che prende corpo nell’isolamento dell’individuo: «la solitudine è fortezza dell’isolamento dove l’uomo colloquia con se stesso […] nell’autocompiacimento della propria raffigurazione interiore».68 L’autocompiacimento è proprio di chi «non possiede alcuna destinazione, solo l’essere determinato da cose e istinti, attuato con il sentimento della padronanza di sé». Non possedendo una destinazione, non esprime una volontà, ma un arbitrio. E nell’arbitrio c’è la sottile violenza impositiva del soggetto che separa e distanzia, cosicché «la parola fondamentale io-esso è resa possibile solo attraverso la separazione dell’io».69 L’arbitrio porta a «percepire null’altro che incredulità e arbitrarietà, scopi da porre e mezzi da utilizzare» in un mondo «senza sacrificio e senza grazia, senza incontro e senza presenza».70
In Dialogo chiamerà tutto questo ripiegamento. «Il movimento fondamentale del monologo -- scriverà - non è il distogliersi opposto al rivolgersi, ma è il ripiegamento».71 Il ripiegamento, prima ancora di un egoistico rinserrarsi in sé, manifesta una rigidità, quella di chi non sa rivolgere lo sguardo oltre se stesso. Ne deriva un ridurre l’altrui presenza, l’essere, a proiezione del proprio io: «Chiamo ripiegamento il sottrarsi all’accettazione adeguata dell’essere di un’altra persona, nella sua peculiarità, non semplicemente circoscrivibile nell’ambito del proprio io.»72
Nel ripiegamento l’individuo si costituisce per separazione. Riconoscersi per lui significa «produrre una manifestazione di sé, che ha la forza di farsi valere ed è capace di ingannarsi sempre più profondamente, e, guardandola e ammirandola, procacciarsi l’apparenza di una conoscenza del proprio modo di essere…». Guardare, quindi, esclusivamente a se stesso e occuparsi del proprio, non partecipare di alcuna realtà e non raggiungerne alcuna, distinguersi e prendere possesso, «entrambi esercitati sull’esso, entrambi nell’irreale»,73 sterilizzare il mondo del suo nucleo di appello.74 Ma «chi si limita a vivere interiormente il proprio atteggiamento, chi lo attua solo nell’anima, per quanto possa essere pieno di pensieri, è senza mondo». Artifici, ebbrezze, entusiasmi, misteri «non sfiorano neanche la superficie del mondo»75- afferma Buber in Io e Tu. Per chi si rifugia nella raffigurazione interiore «la natura o è un’état d’ȃme, cioè un’esperienza vissuta dentro di lui, o un oggetto passivo di conoscenza»76 - scrive in Dialogo. Nessuna conversazione autentica, mossa dal bisogno di comunicare, ma esibizioni dovute «dal desiderio di confermare la propria opinione di sé»77, torsione del dialogo in monologo.78 Nessuna relazione vera, autentica, col mondo, ma la recita «di uno spirito che non conosce l’essere, ma solo il suo riflesso».79 Colloqui d’amore in cui «si gode della propria anima stupenda», un «mondo ctonio di illusorie immagini senza volto».80
L’oggettivazione non si ferma al mondo, ma investe anche l’uomo. Anche «il tu diventa oggetto fra gli oggetti», e ciò determina quella che Buber chiama «sublime malinconia della nostra sorte».81 Questa è individuabile in una mentalità che estingue la spontaneità e sottomette l’uomo alla funzionalità, pretendendo di oggettivare anche i rapporti umani e valorizzare l’uomo nella misura in cui è produttivo.82 «In tempi malati -- scrive -- succede che il mondo dell’esso […] separato e arenato, come un immenso fantasma palustre, prevale sull’uomo»83. L’uomo allora soccombe, travolto da una mentalità che estingue la spontaneità e sottomette alla funzionalità, valorizzandolo unicamente nella misura in cui è produttivo.84 Né l’oggettivazione si ferma al nostro rapporto col mondo naturale, perché investe anche l’uomo e le relazioni fra gli uomini, l’etica, la società, il diritto. Uomini inconsistenti e alienati vivono come immersi in una fatale corsa all’accaparramento, che sotterra ogni forma di umanità: «L’uomo che vive nell’arbitrio non crede e non incontra. Non conosce la solidarietà, conosce soltanto il mondo febbrile là fuori e il suo febbrile desiderio di utilizzarlo».85
È la fatalità di «un mondo ridotto a scopi e a mezzi»,86 di un mondo coincidente con l’arbitrio di un soggetto che, con il suo automatismo impersonale, finisce per soffocare il soggetto stesso: «Il mondo dell’Esso, che non cessa mai di svilupparsi, lo soffoca, il suo proprio Io perde per lui realtà».87 Tutto è ormai manipolabile, anche i rapporti fra gli uomini:
Nel fatto che ogni tu nel nostro mondo debba diventare un esso, sta la sublime malinconia della nostra sorte. Per quanto il tu fosse presente in modo esclusivo nella relazione immediata, appena essa ha smesso di operare, o è stata interrotta da un mezzo, il tu diventa oggetto tra gli oggetti, forse un oggetto rilevante, e tuttavia sempre uno di essi, determinato e limitato.88
Il potere del soggetto, che «si fonda sul potere di oggettivazione del pensiero», ingenera la deumanizzazione,89 la sottomissione dell’individuo contratto nel proprio isolamento alla logica della funzione e dell’utilizzo. Siamo alle forme anonime di potere dell’impersonale, che non è solo quello della scienza e della tecnica, ma anche quello più pervicace della gestione dell’economia e della politica. Qui si afferma il potere del collettivo senza volto, che non conosce né confronto né incontro, dove il vivere è «inabissato nel mondo dell’esso», subissato dagli apparati economici e statali. L’economia e lo stato nel mondo moderno sono, quindi, dominati da meccanismi impersonali e da automatismi. Un rifiuto ostinato di ciò che non è funzionale al sistema le domina. La signoria dell’io vi ha costruito una solida ed estesa struttura obiettiva, imponendosi tanto nell’uso di beni e prodotti, quanto nella strumentalizzazione di opinioni e aspirazioni.
Gli imprenditori e gli statisti guardano ormai agli uomini come a centri di produzioni, da considerare e utilizzare esclusivamente per le loro specifiche capacità. Lo sviluppo nell’organizzazione del lavoro e della proprietà ha, di conseguenza, coerentemente omesso ogni traccia di relazione personale. A dominare sono gli apparati, l’apparato economico e quello statale, l’apparato finanziario e quello militare, apparati di precisione e di calcolo, che omologano l’umano al quantitativo, al calcolabile, al funzionale, che riducono gli uomini a ruote di un ingranaggio, la cui efficienza è legata alla spersonalizzazione dei rapporti. Li caratterizza il «non guardare gli uomini con cui hanno a che fare come portatori del tu che non si lascia sperimentare». La tirannia dell’esso sommerge, quindi, i governati: scompare «ogni traccia di vita reciproca, di relazione significativa».90 Le masse anonime sono «unità umane prive di relazione, separate, incapaci di comunità»,91 in cui si evidenzia la scissione propria dell’individuo moderno che tiene separati la sfera del mondo sociale, esterno, da quella interiore:
Le istituzioni sono ciò che è 'esterno', in cui si trattiene per ogni sorta di scopi, in cui si lavora, si contratta, si esercita un’influenza, si intraprende, si fa concorrenza, si organizza, si commercia, si esercita il proprio ufficio, si predica; la compagine più o meno ordinata, e in qualche modo consonante, in cui ha luogo il decorso delle circostanze fra la multiforme partecipazione di teste e membra umane. I sentimenti sono ciò che è 'interno', in cui si vive e ci si riposa dalla fatica delle istituzioni. Qui lo spettro delle emozioni oscilla dinanzi allo sguardo interessato; qui si gode delle proprie simpatie e del proprio odio, del proprio piacere e, se non è troppo acuto, del proprio dolore. Qui ci si sente a casa, e ci si distende nella sedia a dondolo. Le istituzioni sono un complicato luogo pubblico, i sentimenti un caldo cantuccio.92
Come «l’esso scisso delle istituzioni è un essere senza anima», una sorta di mostro informe, così «l’io scisso dei sentimenti» è una starnazzante parodia di anima. Come le istituzioni senza intervento personale «non producono alcuna vita pubblica», così i sentimenti, stretti nelle loro idiosincrasie, «alcuna vita personale».93 Né «conta che sia lo stato a regolare l’economia o l’economia a delegare lo stato», al di là cioè della differenza fra socialismo e capitalismo, resta la tirannia dell’esso, a fronte della quale l’individuo è impotente.94 «La persona è messa in dubbio per il fatto di essere resa collettiva»--95 sentenzia Buber. Ormai «il gruppo ci ha sottratto la responsabilità politica» e la stessa democrazia si è trasformata in partitocrazia, una forma comunque insidiosa di collettivismo.96 Imperversano la propaganda e la pubblicità. Scrive Buber nel 1954 in Elementi dell’interumano:
Al propagandista […] non importa assolutamente nulla della persona in quanto tale, che egli intende influenzare; per lui eventuali qualità individuali sono rilevanti solo nella misura in cui le può utilizzare per accattivarsi l’altro e a questo fine deve imparare a conoscerle. […] l’elemento individuale è piuttosto un peso, le importa solo del 'più': più membri, più aderenti, una crescente area di sostegno.97
La pubblicità, che si svolge «come se fosse una recita», senza spontaneità, senza immediatezza, falsa e trincerata, pretende, quindi, di sostituirsi alla conversazione autentica.98
Se c’è propriamente una novità in Io e Tu, rispetto all’opera precedente, questa è rintracciabile nella critica dell’Io inteso come autosussistente. Qui lo schema dell’intenzionalità è infranto: «Non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale io-tu, e l’io della parola fondamentale io esso».99 In tal caso, la svolta dialogica di Buber ha il significato di un abbandono del «preteso sapere intorno al fondamento dell’essere».100 Essa corrisponde ad un’insofferenza nei confronti di ogni filosofia (in particolare, dell’idealismo) che anteponga l’idea astratta alla vita101 ed è inestricabilmente legata alla scoperta del valore rivelativo della parola.
La parola è diretta fuori ed oltre la ragione come possibilità di determinazione solitaria, oltre le costruzioni monologiche. La parola che sfugge al concetto e alla categorizzazione, la parola pietra d’inciampo del pensare monologico,102 la parola «termine di quell’accadimento» che interrompe la chiusa identità dell’Io,103 «indica l’espropriazione del mero pensiero»104 e, nella sua ragione ultima, che coincide con il suo significato più profondo, eccede l’uomo.105 Agli atteggiamenti -- scrive Buber -- corrispondono due parole-base (Grundworte), ossia due coppie di termini fondamentali: Io-Tu e Io-Esso. Le parole-base portano in sé l’intenzionalità di chi le dice, ma allo stesso tempo sono in grado di fondare un mondo, un nuovo ordine di significati che trascende l’intenzione del soggetto: «Le parole fondamentali non attestano qualcosa che esista al di fuori di esse, ma, una volta dette, fondano un’entità».106 Perciò, le parole-base proiettano in un ambito che supera il livello antropologico e morale, infrangendo lo schema dell’intenzionalità: «Non c’è alcun io in sé, ma solo l’io della parola fondamentale». La parola è all’inizio sia della relazione dell’Io col Tu, sia del rapporto dell’Io col mondo ridotto ad esso, ad oggetto. Ma le parole sono in grado anche di dischiudere, anzi, fondare, un orizzonte ontologico: «Le parole fondamentali sono dette insieme all’essere. […] La parola fondamentale io-tu si può dire solo con l’intero essere. La parola fondamentale io-esso non può mai essere detta con l’intero essere».107 Perché la parola è un medium, un luogo spirituale percorribile ed abitabile. Possiamo, infatti, dirla con il nostro essere senza pronunciare, senza sonorizzare.108 Essa è ancora «una realtà ontologica, identica, nella sua autenticità, alla relazione, di cui il linguaggio è solo un’espressione fenomenica, certamente importante, ma di per sé non essenziale».109 Richiama, in tal caso, qualcosa di originario, qualcosa che l’io non comprende, nel senso di esaurirne i significati, ma che è tra l’io e il mondo e tra l’io e il tu.110 Né può essere considerata come qualcosa di aggiunto o di estrinseco nell’uomo. «Essere e dire io -- scrive M. Buber -- sono la stessa cosa. Dire io e dire una delle parole fondamentali sono la stessa cosa». La parola esprime l’uomo che la dice. Dirla significa, infatti, compromettersi, impegnarsi con tutto se stesso. Al di là dell’intenzione sottesa al dire, «chi dice una parola fondamentale entra nella parola e la abita».111 Nello stesso tempo, la parola è una realtà attuale, vivente, fluente, indice di relazione e generante relazione. Pertanto, l’io e il tu della parola fondamentale non sono meri pronomi, ma esprimono «l’esserci immediato della persona stessa»:112
È così anche l’io dell’uomo è duplice. Perché l’io della parola fondamentale io-tu è diverso da quello della parola fondamentale io-esso. […] Quando l’uomo dice io intende uno dei due. Quando dice io è presente l’io che egli intende. Anche se dice tu o esso, è presente l’io dell’una o dell’altra parola fondamentale.113
La parola rivela significati riposti, fondamentali, impressi in essa prima ancora che il soggetto si sia «riconosciuto come io». Il pensiero, infatti, può essere autoreferenziale, il linguaggio mai, perché non è mai avulso dalla dinamica che coinvolge i parlanti, dinamica in cui la comunicazione si pone come antecedente alla separazione fra soggetto e oggetto.114 Più originaria della coscienza, essa rimanda ad una primigenia unità, ad una perduta armonia fra l’uomo e il mondo, che il filosofo intende ricomporre. Il linguaggio -- scrive Buber in Distanza originaria e relazione -- è «il gran segno distintivo e monumento della comunanza umana», segno che rimanda al «principio dell’essere uomo», ossia al suo senso primigenio: «L’uomo ha in comune con molti animali il richiamo, ma il rivolgere la parola è essenzialmente proprio dell’uomo».115 Né è questione di genere e grado, quasi che rientri in una linea evolutiva determinabile, misurabile, ma è diversità essenziale.116 Infatti, già nei primitivi, le cui prime espressioni linguistiche, rintracciabili nelle grida e nel nome proprio, servivano a informare il compagno, «che in una data situazione la sua presenza, propria la sua, era necessaria», se ne apprezza l’elemento distintivo: «porre e riconoscere l’autonoma alterità dell’altro con il quale, proprio per questo motivo, si è in relazione, interrogando e rispondendo». E Buber ne conclude che:
Entrambi, il grido e il nome, sono ancora segnali e tuttavia sono già parole; poiché l’uomo […] pone a distanza e rende autonomi anche i suoi gridi, li pone da parte, come l’utensile che ha prodotto, come un oggetto finito e pronto per l’uso, li rende parole che esistono per sé. Qui, nel linguaggio fatto parola, la parola rivolta per così dire s’innalza, si neutralizza - ma per riacquistare sempre di nuovo vita.117
La parola, che infrange il muro della solitarietà, vive nella verità della relazione, là dove, «dal mistero più profondo, apparve all’uomo il tu», là dove, «di volta in volta, è diventata vita e questa vita è dottrina», là dove sta per insegnare non «ciò che è, e neppure ciò che deve essere, ma come si vive nello spirito, faccia a faccia con il tu».118 Pertanto, acquista una pregnanza di significato che va ben al di là dell’ambito logico o gnoseologico, significando, a livello ontologico, che l’essere è intrinsecamente relazione.
La parola testimonia che l’atto fondamentale della vita dialogica è «il rendere presenza dell’altro essere con cui si ha a che fare».119 Questo atto fondamentale si origina da un’esperienza elementare, quotidiana, ma nello stesso tempo densa di senso: il rivolgersi. «Il rivolgersi è il movimento dialogico fondamentale» -- scrive Buber in Dialogo. «Apparentemente si tratta di qualcosa di quotidiano e di insignificante: quando si guarda qualcuno, gli si rivolge la parola, ci si volge proprio a lui».120 In realtà, è dotato di «un’evidenza particolare»121 ed è condizione di possibilità di un radicale cambiamento, di un ribaltamento di prospettiva, di una ricomprensione.122 Implica e si compie in una totale apertura, in una spontaneità e immediatezza senza riserve e pregiudizi, che appare dirompente rispetto alla staticità e alla chiusura dell’io nel suo mondo: «In quest’azione essenziale risorge la sepolta potenza di relazione dell’uomo».123 In quel momento, infatti, «io e tu sono di fronte all’altro vicendevolmente liberi, in una reciprocità che non è coinvolta in alcuna causalità e non ne è segnata.124 L’altro che irrompe nell’orizzonte dell’io rivendica la propria differente presenza, avanzando da un mondo di cose indifferenti:125
Dall’inafferrabilità di ciò che è a disposizione avanza quest’unica persona e diventa presenza; ora, nella percezione che ne abbiamo, il mondo non è più un’indifferente molteplicità di punti, a uno dei quali prestiamo forse momentanea considerazione, ma un illimitato ondeggiare intorno a una piccola diga sottile, dai contorni netti: un ondeggiare illimitato, eppure limitato dalla diga e, per quanto non circoscritto, divenuto tuttavia finito nel suo punto centrale, divenuto immagine, liberato dalla sua indifferenza!126
Né è una presenza di fantasia, sottomessa al nostro desiderio o al nostro preconcetto, ma una «presenza attuale dell’essere» dell’altro, che non può lasciare indifferenti. La sua differenza incatturabile comporta, infatti, una messa in discussione di tutto, una riconsiderazione generale. Perché qui, precisa Buber, «non si tratta più solo di un tu predisposto all’accoglienza, ma di un tu che principalmente oppone resistenza, di un tu veramente altro».127 Pertanto, ora io non intendo l’altro, il Tu, «come uno che esiste in quanto si rivolge a me, ma proprio in quella realtà che non è riferibile a me, ma che piuttosto mi circonda, in cui esisto in quanto mi rivolgo a lui».128 L’altro «non è più un fenomeno del mio io, ma è invece il mio tu, conosco la realtà del parlare-con-uno nell’inviolabile genuinità della reciprocità»:129
Qui, e solo adesso, l’altro diventa per me un io, e il rendersi autonomo del suo essere che aveva avuto luogo nel primo, distanziante movimento, in un significato nuovo, assai pregnante, si rivela come presupposto: presupposto di questo diventare-io-per-me […] che piuttosto bisognerebbe definire come diventare-io-con-me. Ma esso acquista la sua pienezza ontologica allorché l’altro si sa reso presenza da me nel suo io, e questo sapere induce il processo del suo più intimo divenir io.130
Il rivolgersi è, ancora, esperienza della parte opposta, un esperire per un istante «la situazione comune, dalla parte dell’altro»,131 che porta ad una più estesa e profonda considerazione delle situazioni della vita. È «conversione, riconoscimento del centro, volgersi-di-nuovo a esso»,132 «estensione della propria concretezza, compimento della situazione vissuta, piena presenza della realtà cui si partecipa».133 «Il movimento dialogico fondamentale» --134 lo definisce in Dialogo.
Corrisponde ad un donarsi reciproco ed ha come effetto l’istituirsi di una comunicazione autentica. «Tutto dipende -- scriverà Buber in Distanza originaria e relazione -- dal fatto che ciascuno intenda l’altro quale egli è, che cioè, pur con tutto il desiderio di influenzarlo, lo accetti e lo confermi senza riserve nel suo essere-questo-uomo-qui, nel suo essere-fatto-così». In tal caso, «il rigore e la profondità dell’individuazione umana», ossia l’essere altro dell’altro, non viene «assunto solo come necessario punto di partenza di cui prendere atto, ma viene affermato da essere a essere».135 Come la parola, il rivolgersi è risposta e, come la parola vive del silenzio da cui solo può emergere, così il rivolgersi vive di attesa, di un ritrarsi rispettoso di fronte all’altro. Perché «solo il silenzio nei confronti del tu, il silenzio di ogni linguaggio, la tacita attesa nella parola non ancora formata, non ancora separata, non ancora espressa, lascia libero il tu».136 Lascia che possa esprimersi ed essere; laddove la parola «trova compimento».137 Il rivolgersi si pone, quindi, all’opposto della brama di utilizzazione «da cui è ossessionato il «propagandista» e il «suggeritore», che si ostina nel suo rapporto con l’uomo come se fosse un rapporto con le cose […], cose che con zelo assiduo deruba della loro distanza e della loro autonomia». Implica incontri dove l’uomo «non fa esperienza di sé solo come limitato dall’altro uomo, come rimandato alla propria finitezza, parzialità, bisogno di completamento».138 Si fonda, come un incontro autentico, «sul fatto di porre e riconoscere l’autonoma alterità dell’altro con il quale, proprio per questo motivo, si è in relazione, interrogando e rispondendo».139 Perché, come ha scritto E. Lévinas: «il punto di partenza è l’Io che interpella il Tu, anziché considerarlo come un oggetto o come un nemico».140
A partire dal movimento fondamentale del rivolgersi, dall’azione essenziale del ricomprendere, si configura e solidifica un diverso atteggiamento nei confronti del mondo.141 La dialogicità, infatti, non è il vissuto di un momento, per quanto significativo possa essere, ma «un atteggiamento degli uomini gli uni verso gli altri, atteggiamento che solo nel loro rapporto si manifesta».142
Pertanto, laddove il mondo dell’io monologante ha la sua parola fondamentale nella coppia Io-esso, in cui è come cristallizzato un atteggiamento disponente, così l’ha l’io dialogico. È essa la coppia Io-Tu che si contrappone a quella, nella misura in cui il mondo dell’incontro personale si contrappone all’esperienza oggettivante, fredda ed impersonale. «Chi dice tu --sottolinea Buber -- non ha alcun qualcosa per oggetto […]. Ma sta nella relazione».143 Chi dice tu non interpone una distanza fra sé e l’oggetto, una separazione, come avviene per l’esperienza oggettivante, ma ne partecipa:144 «Il mondo come esperienza appartiene alla parola fondamentale io-esso. La parola fondamentale io-tu fonda il mondo della relazione».145 Se, infatti, «sto di fronte a un uomo come di fronte al mio tu, se gli rivolgo la parola fondamentale io-tu, egli non è una cosa tra le cose e non è fatto di cose».146 Perché «io non sperimento l’uomo a cui dico tu. Ma, nella santa parola fondamentale, sono nella relazione con lui».147
Ciò evidenzia una trascendenza del tu rispetto al determinismo che attanaglia il mondo dell’esso. Ciò evidenzia una libertà stupefacente. «L’illimitato dominio della causalità del mondo dell’esso» non opprime l’uomo che si rifugia nella relazione, che in essa può sottrarvisi.148 Incomprimibile ed irriducibile, il tu si rivela come non derubricabile ad oggetto: «Questa è la cosa decisiva: essere-non-oggetto». Perché «abbiamo in comune con ogni cosa il poter diventare oggetto di osservazione; ma è privilegio dell’essere umano che io, attraverso l’azione nascosta del mio essere, riesca a opporre all’oggettivazione una barriera insormontabile».149
«Ma allora -- si chiede Buber -- che cosa si sperimenta del tu?» «Proprio nulla -- risponde -- Perché non si sperimenta».150 Sperimentare è non solo separare, interporre una barriera fra sé e l’oggetto sperimentato, ma anche tirarsi fuori, distanziarsi, estraniarsi e, con ciò, precludersi il senso del tutto. Rannicchiarsi nel proprio io, laddove non puoi capire il mondo né capirti. Perciò, mentre «la parola fondamentale io-tu si può dire solo con l’intero essere», quella io-esso «non può mai essere detta con l’intero essere».151 La prima include, la seconda esclude: «Il tu mi incontra. Ma io entro con lui nella relazione immediata […]. Solo con l’intero essere si può dire la parola fondamentale io-tu. L’unificazione e la fusione con l’intero essere non può mai avvenire attraverso di me, né mai senza di me».152
Relazione è inequivocabilmente reciprocità:153 «Il mio tu opera su di me, come io opero su di lui».154 Con ciò Buber intende sottolineare che la relazione non solo non è riduzione dell’altro ad oggetto, ma non è nemmeno riduzione dell’altro all’io. Semplicemente, il mio Tu influisce su di me, come io su di lui. Siamo pari -- come spiega bene E. Lévinas:
Il rapporto tra io e tu consiste in questo, che l’io si pone di fronte a un qualcosa di esterno, cioè a un ente che è radicalmente altro e lo conferma come tale. Questa conferma dell’alterità non consiste nel fatto che ci si fa un’idea dell’alterità. L’avere un’idea di qualcosa è il vero essere dell’io-esso. Non si tratta di pensare un altro, e nemmeno di pensarlo come altro, ma invece di volgersi verso di lui, per dire a lui tu.155
«Qui -- scrive Buber -- io e tu sono uno di fronte all’altro vicendevolmente liberi, in una reciprocità che non è coinvolta in alcuna causalità e non ne è segnata; qui è garantita all’uomo la libertà sua e quella dell’essere».156 L’esperienza della reciprocità, che si fa nell’a tu per tu, in quel porsi uno a fronte dell’altro vicendevolmente liberi, racchiude in sé un’inviolabile genuinità: «Solo quando ho a che fare con un altro in modo essenziale, così che egli non è più un fenomeno del mio io, ma è invece il mio tu, conosco la realtà del parlare-con-uno nell’inviolabile genuinità della reciprocità».157
«Certo -- scrive Buber in Distanza originaria e relazione -- gli altri uomini vivono intorno a noi come componenti di un mondo autonomo che ci sta di fronte, ma appena comprendiamo ciascuno di loro come un esistente-uomo, non è più una componente, ma esiste, come me, nel suo essere personale, e il suo carattere di essere distanziato da me non esiste solo nei miei riguardi: non è separabile dal fatto che anch’io sono distanziato da lui».
Nella relazione io, infatti, intendo l’altro «non semplicemente come questo qui, ma […] vengo a conoscenza dell’esperienza che appartiene a lui in quanto lui».158 Nella relazione io mi pongo di fronte al mio tu non «come se non ci fosse nient’altro che lui: ma tutto il resto vive nella sua luce».159
Questo ci indirizza all’ontologia. Il mondo della parola-base Io-Tu è, infatti, caratterizzato «dal fatto che l’essere vi assume il carattere dell’alterità», il carattere dell’interlocutore che sta di fronte. Quest’alterità non è il portato dell’intenzionalità del soggetto, di una sua rappresentazione, ma si mostra come indeducibile. «È qualcosa di primario, che mi si dischiude nel fatto che l’Altro, che é come me, mi si dischiude».160
E se nell’esperienza, «l’ente, nel suo stesso essere, é già sempre mediato dalla mia modalità di farne esperienza»,161 nell’incontro, «il suo essere si rapporta con il mio essere».162 Ed il segno di questo rapportarsi è proprio nella «reciprocità dell’essere stesso».163«All’inizio è la relazione»164 -- scrive Buber in un passo-chiave. L’io è incluso nell’evento primitivo della relazione, sovrastato, trasceso. Perché originario non è l’Io isolato, irrelato, bensì il rapporto Io-Tu. Gli uomini non sono autosufficienti, destinati ad entrare in contatto con l’alterità solo in seguito, ma sono inseriti sin dall’inizio nell’evento della relazione. Pertanto, «divento io nel tu» e, «diventando io, dico tu». Pertanto «ogni vita reale è incontro».165
Ne consegue che le due coppie di parole fondamentali sono asimmetriche: «La prima parola fondamentale si divide certamente in io e tu, ma non è sorta dalla loro unione, precede 1’io; la seconda è sorta dall’unione di io ed esso, segue l’io».166 Nella coppia Io-Tu è riconoscibile un’antecedenza, una differenza ontologica, rispetto alla coppia Io-esso. All’inizio, per Suo volere (per volere di Dio), scrive Buber: «c’è un io e un tu, c’è un dialogo, c’è un linguaggio, c’è lo spirito, di cui il linguaggio è atto originario, c’è la Parola per l’eternità».167
Copyright © 2016 Clemente Sparaco
Clemente Sparaco. «Martin Buber, dall’Io al Tu, la svolta del rivolgersi. ». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 18 (2016) [inserito il 30 luglio 2016], disponibile su World Wide Web: <https://mondodomani.org/dialegesthai/>, [60 KB], ISSN 1128-5478.
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