Nuovissima sofistica di Maurizio Di Bartolo (Fonte)

"Nemo Socrates pro domo sua"?
   
Nell'Apologia Socrate non nasconde affatto una certa paradossalità della sua autodifesa contro le accuse di Meleto e compagni: la sua presunta empietà è causata proprio dal suo desiderio di saperne di più intorno ad un responso dell'Oracolo di Delfi. Quest'ultimo avrebbe sentenziato a Cherefonte (toh, guarda caso discepolo fedele di Socrate) che l'uomo più sapiente (σοφωτερος) fosse Socrate medesimo [Apolog., 20 e 8 – 21 a 8]. E l'Oracolo (come il Bruto shakespeariano) è uomo d'onore. Ed in effetti, se fosse vero – com'è di fatto vero! – che Socrate sia l'uomo più sapiente, allora la cosa richiede uno statuto di ricerca speciale: una cura per la propria anima ed un ascolto per il proprio "demone" di fronte ai quali le accuse di Meleto & Co. appaiono del tutto ridicole.
   La giustizia ateniese la pensa ben diversamente al riguardo, ma Socrate non sembra (in apparenza) particolarmente toccato dal fatto che la sua brillante performance teatrale si stia per concludere con la condanna a morte. La morte stessa, ossia il risultato concreto a cui vogliono giungere i suoi accusatori, è infatti la cosa che meno spaventa il filosofo, anche dopo le due votazioni che lo condannano inesorabilmente: la morte rappresenta semplicemente un "cambio d'indirizzo". Un trasferimento dal suo paese terreno ad un "altro luogo" [Apolog., 40 c 8-9], dal quale presumibilmente non si torna indietro, ma anche nel quale difficilmente si verrebbe calunniati.
   Socrate pare intendersene di traslochi. O, per meglio dire, sembra costantemente impegnato nel lanciarci un messaggio pubblicitario "subliminale": volete essere davvero inattaccabili, benché la vostra condanna stia per giungere inesorabile? Mostrate come la vostra cura per l'anima, ovvero la cosa che più vi dovrebbe stare a cuore, stia per esser "facilitata" da quella sentenza ingiusta. Impunità terrena? No, grazie! Piuttosto "cambio aria", anzi, ora che ci penso per me era già ora...

   ...nel 1981 un socrate tedesco, Gerd Achenbach (ancora in vita), coniò il concetto di "consulenza filosofica", anche se, a voler esser pedanti, l'espressione tedesca "philosophische Praxis" andrebbe tradotta intendendo il luogo in cui questa "prassi" viene espletata, ossia con: "Gabinetto per pratica filosofica". In Germania il medico, lo psicologo, il dentista "esercitano" in una Praxis. L'aspetto della "consulenza" è chiaramente connesso, ma in sé non implica l'esistenza di un luogo appositamente imputato alla professione del "consulente filosofico". D'altra parte, per quel che ne sappiamo noi, Socrate non faceva che gironzolare per strada e tutt'al più banchettava qua e là. A casa sua invitava ben poco.
   Nel 1982 sempre Achenbach fondò una "Società per la consulenza filosofica" il cui fine mirava alla diffusione di una "pratica" dialogica, fondata essenzialmente su un sapere di "tipo" filosofico e che si poneva in esplicita "alternativa" alle attuali tecniche psicoterapeutiche. In breve: non di sola psico-terapia vive l'uomo (che soffre), ora è giunto il momento di offrire pura terapia filosofica.
   Ci resta solo da augurarci che alla fine di una tale terapia il consiglio del consulente non sia tuttavia di stretta osservanza socratica: insomma, che non si debba cioè, per curare la nostra anima e per seguire il nostro demone, dover tutti traslocare nell'aldilà. Sembrerebbe un aspetto secondario, ma in effetti perché mai un filosofo (con tanto di pedigree socratico) non dovrebbe (poter) consigliare la morte?

"Volontà di consulenza"
   Gerd Achenbach è tutt'oggi considerato non solo il fondatore, ma anche una delle figure più carismatiche di quella che, nel giro di poco più di vent'anni, si è imposta come una nuova "disciplina" o, piuttosto, come una nuova veste professionale dell'antico mestiere di Socrate. Non v'è sito su Internet che riguardi la cosiddetta "consulenza filosofica" e che non inizi a raccontare la propria storia, partendo proprio da lui. Basta poi digitare su Google nome e cognome e subito appare nella Home page il suo volto rassicurante, un po' da ingegnere, un po' da cardinale dimesso per altri e più elevati servigi. I suoi libri e le sue interviste sono ben costruiti intorno a quest'idea cristallina per cui "la forma concreta della filosofia è il filosofo", a cui segue l'immancabile corollario socratico: "La pratica filosofica è un libero dialogo (...), non prescrive alcun filosofema, non somministra alcuna conoscenza filosofica...". Queste regole auree sono poi, con le variazioni del caso, ripetute con estremo garbo e discrezione praticamente in ogni altro sito dedicato a questa nuova "pratica" paraprofessionale.
   Se ci volgiamo all'ipotetico target, alcune considerazioni sorgono spontanee. Per un laureato in filosofia, fresco di titolo, la possibilità d'arruolarsi in questo nuovo esercito della salvezza noetica parrebbe la panacea a tutti i suoi angosciosi dubbi sul suo futuro materiale. Per un laureato in filosofia invece, un po' più attempato e da tempo costretto a nascondere il busto di Socrate magari nel cassetto del suo ufficio all'INPS, potrebbe rappresentare quasi una piccola rivincita personale, vissuta tra lo struggimento dei bei tempi passati e un impercettibile moto d'invidia per chi, appunto con qualche anno in meno, potrà permettersi di "dialogare" senza "somministrare".
   L'idea di Achenbach è pertanto semplice ed accattivante: riportare i "filosofi" nell'Agorà, dotandoli di patentino per socratizzare il disagio della civiltà. Che Freud ci perdoni. I vari siti (non possiamo qui che "riunirli" in un unico fascio paracorporativistico, benché ci siano chiaramente molti distinguo) sottolineano con estrema prudenza ma con estrema persuasività i due principi poc'anzi ricordati:
1. la filosofia è incarnata dal filosofo (come era già nell'antica Grecia, vedi per l'appunto papà Socrate);
2. il dialogo tra "consulente" e "consultante" non ha né l'aspetto di una noiosa lezione liceale di storia della filosofia né la pretesa di operare nelle strutture della psiche attraverso tecniche che sono proprie alle terapie psicologiche e/o psicoanalitiche.
   Sul primo punto, va da sé, gioca chiaramente una forte componente motivazionale il fatto che per tanta mitologia professionale c'è sempre un'età dell'oro da rimpiangere: allo stalliere non pare vero che la gente smetta di comprar macchine e torni a cavallo. Al filosofo, nell'accezione di Achenbach & Co., probabilmente non parrebbe vero se noi tutti, improvvisamente, iniziassimo a sentirci dei piccoli Alcibiade o Pericle del quotidiano, desiderosi di lungimiranti consigli. Contrariamente alla imprescindibile vocazione politica (nel senso pieno del termine) che Platone attribuiva al filosofare, è tuttavia chiaro che ai nuovi socrati basta un giardinello molto paraellenizzato: in nessun sito, infatti, nessuno di questi consulenti rivendica una qualche propensione alla "virtù" politica, ossia proprio quella per cui Atene era Atene, a prescindere che Sparta piangesse o ridesse.
   Privata della sfera pubblica, e pubblicamente privatizzata, la philosophische Praxis non può quindi che rivendicare una "volontà di consulenza", tanto per parafrasare il baffone di Naumburg.
   Anche qui, occorre dirlo a onor del vero, non si può dare tutti i torti a chi ritiene che un'indiretta forma di azione politica avverrebbe proprio attraverso la proliferazione di una "prassi" paraterapeutica di questo genere: se molti politici attuali, visto che si guardano bene dal visitare i gabinetti degli analisti, prendessero almeno la "buona" abitudine di farsi dare una controllatina da un onesto laureato in filosofia alle insulsaggini che poi propinano con enfasi sotto il nome di "programmi", forse erediteremmo un Paese più decente di questo. Ma non ci sembra che un machiavellico fine si nasconda sotto le tuniche di queste nuove Scuole di Atene.

"Facilitator"
   Poi c'è il secondo punto, ossia quell'aspetto "dialogico" così liberalmente improntato al reciproco rispetto tra "consultante" e "consulente-consolante". I vari siti declinano la merce "dialogo" attraverso un crescendo di convincimenti e di opinioni sostanzialmente "razionalizzatici". Domenico Massaro nella sua pagina elettronica ad esempio scrive:

"Il campo di azione specifico della CF [CF = consulenza filosofica], dunque, va riposto nell'obiettivo di incidere non solo e non tanto sulle idee (e la filosofia spontanea) del consultante, ma principalmente sulle procedure logiche di risoluzione dei problemi."

   E subito dopo rincara la dose:

"La CF tende a far guadagnare un punto di vista nuovo e a produrre un cambiamento nella prospettiva logica del soggetto. Il più delle volte, infatti, il conflitto (o il malessere delle persone "sane") nasce dal fatto che la persona si sente prigioniera della situazione che lei stessa ha contribuito a determinare e da cui non sa come venirne fuori."

   Per rendersi ancora più esplicito su questo punto, egli cita Wittgenstein, il quale, alla domanda su quale fosse il suo scopo in filosofia, avrebbe risposto che era quello d'indicare alla mosca la via d'uscita dalla bottiglia. Benissimo, giochiamo a mosca cieca.
   In Massaro, come in molte considerazioni del medesimo tenore di altri consulenti, permane vivo il mito che, alla cosiddetta "soluzione dei problemi" – questi chiaramente non di mera natura accademica bensì prosaicamente esistentivo – non vi sia che una sorta di "procedura logica": Massaro avrebbe dovuto raccontarla al pubblico ateniese di Socrate. Anche ammesso che sia possibile identificare, attraverso una canonizzazione piuttosto scolastica, queste prodigiose "procedure logiche" non si capisce bene perché, una volta applicate, queste debbano prodigiosamente spalancare il Mar Rosso delle angherie quotidiane.
   Quasi che ad Edipo abbia giovato il giungere alla rigorosa conclusione logica che quel tale, che aveva ucciso uno che gli incrociava il passo, e quell'altro tale, che aveva risolto gli enigmi della Sfinge, possedevano il medesimo riferimento: Frege si sfregherebbe le mani e nel frattempo Edipo si è fregato con le sue stesse mani. Via, siamo seri: personalmente ci sarebbe da vergognarsi un tantino all'idea di poter spacciare i paradossi di Russell come sciroppo di ricostituente mentale.
   Ma l'aspetto para-razionalizzante è solo prolusivo. In fondo è perfino giusto che i filosofi, dopo anni di onorato "sevizio" alle dipendenze della Scienza della logica di Hegel o dopo nottate insonni sul Parmenide di Platone si sentano un tantino orgogliosi di affermare di saper ragionare bene. Peccato solo che tanta dedizione non abbia ingenerato anche il sospetto che tutto ciò, forse proprio perché ha terribilmente a che vedere col reale, non possiede alcuna funzione messianica. La prolusione si risolve così nell'idea che la pertinenza dia-logica competa al professionismo del "facilitatore" – è questa l'espressione che compare in un sito e che contraddistingue in parte il ruolo del "consulente filosofico".
   Ma il "dialogo", di cui si fa oggetto tra consulente e consultante, ha un peso specifico piuttosto ambiguo: da un lato sembra essere il leggiadro turacciolo di sughero, eternamente galleggiante in barba alle intemperie dell'oceanico Es (per carità, non si tratta di terapia); dall'altro lato assume le sembianze del tappo di gomma con il quale, in fin dei conti, speriamo che la nostra tinozza trattenga l'acqua sino alla fine del nostro pediluvio: e che dopo di noi venga pure il diluvio! (che c'importa del mondo?).
   Il dialogo platonico-socratico è quindi evocato per essere immediatamente esorcizzato: togli che non deve assolutamente servire per curare chicchessia, togli inoltre che deve esser pronto a dare ai ricchi quel che forse è stato tolto ai poveri, togli infine che non viene condotto per ricollocare al centro dell'interesse filosofico-politico l'idea del Bene. In definitiva esso viene rabbassato a "tecnica", e nemmeno tanto lieta di apparentarsi alla Sofistica combattuta da Socrate.
   Si tratta di un vero ri-posizionamento del dialogo in quella "fetta" del mercato delle anime sulla quale non avevano ancora pensato di metter le mani né i meccanici della psiche né gli informatici dello spirito santo. Tra il lettino ed il confessionale lo spazio è illimitato, ed è questo in effetti l'elemento di verità a cui forse inconsapevolmente attingono i consulenti filosofici attraverso questa riedizione del dialogare: c'è sempre, che lo si voglia o meno, uno spazio nel quale ri-posizionare l'immagine di noi stessi.
   Il recente successo, tra l'altro proprio in terra teutone, delle cosiddette Bildwissenschaften (ossia delle "scienze dell'immagine") confermano, nemmeno tanto indirettamente, il fatto che anche la tradizionale opposizione tra "sano" e "malato" ha smesso di avere un confine reale per darsi definitivamente un confine virtuale. Non potendo ri-costruire la nostra persona tanto vale ri-produrne l'ologramma. È perfettamente lecito, o meglio non v'è alcun sistema filosofico che lo vieti o che possa ergersi a giudice in un'operazione di questo genere. I tratti "barocchi", quasi da dramma shakespeariano o alla Calderon de la Barca sono minuziosamente ricomposti nella rassicurante cornice di un aspetto "paritario" tra i due dialoganti: la vita è sogno, per cui io t'aiuto a sognare e nel frattempo tu m'aiuti a vivere. La mosca esce dalla bottiglia e si crede una farfalla. Nel frattempo non s'accorge che la bottiglia non era mai esistita.

"Su ciò di cui non si può parlare..."
   Probabilmente è tempo che in questo articolo dal generico "noi" si passi alla prima persona. Che si passi alle in-competenze del "filosofo" Maurizio Di Bartolo.
   Una strana forma di autolesionismo parrebbe animare colui che scrive queste righe, il quale oltretutto rischia di passare per il classico signore che sputa sul piatto in cui mangia. In fondo anche chi scrive è impegnato a leggere testi filosofici da circa vent'anni. A quelle letture sono poi conseguiti alcuni titoli, ed il "gioco" di diventare "filosofi" sembrerebbe fatto: oggi posso anche insegnare a degli studenti, non vedo allora cosa m'impedisca di offrire "consulenze". Anche quanto sto scrivendo è una "prestazione" intellettuale e culturale che, in qualche modo, potrebbe anche esser indirettamente utile come "consulenza".
   Inoltre non mi sentirei sminuito d'importanza nel pensarmi prestato ad un dialogo simile a quello ideato da Achenbach, ma il punto non è affatto questo. Mi risulta peraltro anche chiaro che, se una società esprime dei "bisogni", nulla vieta anche a chi ha una formazione simile alla mia di andare incontro a quei bisogni e non solo per spirito samaritano.
   Il punto non è nemmeno qui. Il punto è: perché dovrei chiamare quelle consulenze "filosofiche"? Che cosa c'entra la filosofia con tutto ciò? Perché svendere al migliore offerente un prodotto senza nemmeno poi chiamarlo con il proprio nome? E quale deontologia professionale mi salvaguarderebbe, in tutta onestà, se mi sentissi di consigliare una donna incinta che venga da me per sapere attraverso quale "procedura logica" è bene che abortisca o meno, visto che il feto è malformato? Quale "maieutica" socratica mi renderebbe immune dal dire criminose stupidaggini?
   Achenbach ha probabilmente tutte le risposte pronte, ed i suoi seguaci italiani hanno già sicuramente un prontuario tecnico per risolvere i miei interrogativi. Certo è che per una "professione" che nasce, c'è una "vocazione" che muore. Che l'allestimento di un programma di decodificazione istituzionale del "filosofo-consulente" è francamente piuttosto avvilente, visto che alcuni millenni or sono qualcuno tentò di pensarci a capo della polis. La lettura più becera (e me la consento allegramente) sarebbe allora che, dato che non tutti possono avere tanta "grazia" quanta il sindaco-filofoso Massimo Cacciari, tanto vale governare un manipolo di anime desiderose di cittadinanza in questa famigerata società dell'immagine.
   Personalmente non credo che questa società esprima né mosche che debbano uscire dalla bottiglia né persone che sappiano seguire con la giusta apprensione quel folle volo. Probabilmente al Massaro sfuggiva una certa ironia kafkiana implicita in quella affermazione.
   E probabilmente l'unica frase di Wittgenstein a cui verrebbe spontaneo appoggiarmi non è quella relativa alla mosca, bensì quella posta come settima proposizione nel Tractatus: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Adorno la considerava di una "volgarità indicibile", proprio perché il filosofare richiederebbe esattamente lo sforzo contrario.
   Difficile metter d'accordo Wittgenstein ed Adorno su questo punto, e guarda caso sul punto in cui è proprio di "competenza del fare filosofia" che occorre ineluttabilmente trattare. Ho così l'impressione che il fare filosofia, sotto forma di "consulenza", abbia un aspetto terribilmente edulcorante. Al punto tale che, ripeto, non capisco francamente perché debba pensare di fare "della" filosofia: detto sempre sinceramente, a chiunque venisse da me per una siffatta consulenza non potrei che consigliare di fare esattamente il contrario di quel che gli starei per dire.
   Altrimenti faccio il cartomante, chissà che qualcuno nel frattempo non mi disegni un mazzo con Heidegger fante di picche e Kierkegaard re di cuori. Infranti.