La parola e la città
La democrazia ateniese nell'età di Pericle, assieme alla nascita
di una ricca classe borghese, spiega la nascita del fenomeno sociale
di professionisti itineranti della cultura: essi offrono per la
prima volta un'istruzione superiore, che oltrepassa il semplice
apprendimento della scrittura e della poesia tradizionale. Tale
istruzione attraversa tutti i campi del sapere (facendo spazio anche
alla matematica e alle contemporanee indagini sulla natura), ma
prevedibilmente fornisce i suoi risultati più originali nel campo
dello studio dell'uomo e della società. Così facendo dedica una
particolare attenzione alla «parola», lo strumento tramite cui l'uomo
può rendersi presente ed efficace sulla scena cittadina. La denominazione
«sofista» («esperto di sapienza») entrò gradualmente nell'uso come
termine tecnico per denominare questi professionisti della cultura.
I due più celebri sofisti, ciascuno pioniere nel suo campo, furono
Gorgia e Protagora. Gorgia fu rinomato come inventore della prosa
artistica. Dietro alle sue spumeggianti invenzioni verbali si trova
una raffinata riflessione sul linguaggio, che non è considerato
un'immagine della realtà ma piuttosto lo strumento per foggiare
opinioni vere o false in tutti i numerosi casi in cui una conoscenza
diretta è assente. Protagora si propone esplicitamente come formatore
dei cittadini. La diversità delle opinioni nella scena della polis
va spiegata osservando gli uomini e le loro differenze: tutte le
opinioni sono a loro modo «vere». Ma in tale contrasto il sofista
fornisce gli strumenti per dare forza al discorso «migliore» e più
utile; ciò suppone la fiducia che nei confronti della virtù politica
ci sia negli uomini una predisposizione naturale, la quale giustifica
gli ordinamenti democratici in cui ognuno ha il diritto di esprimere
il proprio punto di vista.
Nel variegato panorama della sofistica, particolare è la posizione
di Socrate. Egli, pur condividendo molti atteggiamenti e interessi
con i suoi interlocutori, rifiuta tuttavia di presentarsi come insegnante,
in base alla consapevolezza della povertà della «sapienza umana»:
la massima saggezza consiste nella coscienza della propria ignoranza.
Il dialogo non è quindi più uno strumento di confronto e di competizione,
ma piuttosto la strada per ricercare una verità mancante. Se tale
punto di partenza spiega il grande interesse di Socrate per i temi
morali, giustifica anche la sua ostilità alla democrazia: in essa
i meccanismi di persuasione non lasciano spazio alla ricerca onesta
della verità. Fu questa avversione che giocò la parte maggiore nel
processo che si concluse con la messa a morte di Socrate. Simile
sorte toccò ad Antifonte, anche lui di sentimenti aristocratici.
Egli fu autore di una riflessione sul rapporto tra «legge» e «natura»,
fondata sulla costatazione che ciò che in natura permane è solo
la «materia» informe: analogamente, solo le caratteristiche «naturali»,
e non le prescrizioni convenzionali, hanno un carattere permanente
e possono indirizzare l'uomo verso ciò che è vantaggioso.
1. Gorgia di Lentini
Lentini (Sicilia), circa 490 a.C.
-- luogo ignoto, circa 390 a.C.
Vissuto in Tessaglia, lì divenne celebre per la novità del suo stile
oratorio, che successivamente fece conoscere itinerando per l'intera
Grecia e partecipando ai raduni dei giochi panellenici. Particolare
impressione destò la sua visita nel 427 a.C.
ad Atene, come capo di un'ambasceria della città natale che chiedava
aiuto contro l'attacco dei Siracusani. Dei suoi discorsi sono conservati
soltanto alcuni composti per scopi didattici: l'Encomio di Elena,
la Difesa di Palamede, due parafrasi di Su ciò
che non è ovvero sulla natura. Le altre opere, tra cui un trattato
di Arte retorica, sono andate perdute.
1.1 La potenza della parola
Le testimonianze antiche sono concordi nell'assegnare a Gorgia un'abilità
anzitutto letteraria: egli fu il primo a creare uno stile ricco e
sorprendente che, benché molto presto venne ritenuto sovrabbondante
e perfino «infantile», fornì a tutti i retori seguenti gli strumenti
con cui abbellire i propri discorsi. Inoltre per la prima volta con
lui l'abilità letteraria consente l'improvvisazione: «fu lui infatti
che presentandosi in teatro agli Ateniesi, osò dire: "Proponetemi
un tema", e fu il primo a pronunciare questa frase arrischiata, mostrando
così che sapeva tutto e che poteva parlare su tutto, affidandosi all'estro
del momento (kairós)» (DK 82 A 1a). Un passo di Platone
gli attribuisce la consapevolezza di un interesse esclusivo in questo
campo:
Socrate: Allora? Questi «sofisti» (i quali sono gli unici
a presentarsi come tali) ti sembrano essere maestri di virtù?
Menone: Socrate, di Gorgia questo soprattutto mi piace,
che non lo potrai mai ascoltare promettere questa cosa, anzi deride
gli altri quando li sente promettere. Egli crede invece che è necessario
rendere abili a parlare (deinóus légein) (Menone,
95 b9-c4 = DK 82 A 21 [greco]).
Più che ad una limitazione della propria competenza, tali parole
sembrano però alludere ad uno scetticismo sulla capacità di insegnare
una virtù che sia diversa dalla capacità di ben parlare, la quale
costituirebbe la necessità prima del cittadino. Tale impressione è
confermata da una lettura soprattutto dell'Encomio di Elena,
un «gioco» retorico (páignion) in cui Gorgia intende
difendere la donna che con la propria infedeltà fu la causa della
guerra di Troia.
Integrazione: Elena, bellissima moglie di Menelao, re di
Sparta, durante un'assenza di questi fugge con Paride, figlio di
Priamo re di Troia. Per riconquistarla i Greci dichiarano guerra
ai Troiani. Il comportamento consenziente di Elena viene presentato
come riprovevole fin dai poemi omerici, addirittura nelle stesse
parole della donna. A Priamo che le chiede chi sia un guerriero
greco che appare da lontano, così ella risponde:
«Reverenza e timore m'infondi, suocero caro;
così mi fosse piaciuta pur brutta la morte, allorquando
qui tuo figlio seguii, la stanza nuziale lasciando,
gli amici, la figlia diletta, le mie amabili amiche.
Purtroppo ciò non avvenne: perciò nel pianto mi struggo.
Ma voglio risponderti a ciò che mi chiedi e che tu vuoi sapere:
quello è il figlio d'Atreo, il molto potente Agamennone,
prudente sovrano a un tempo e valoroso guerriero:
mio cognato era inoltre, se lo fu mai, di me cagna» (Iliade,
3,172-180 [greco]).
Fine dell'integrazione
Gorgia distingue quattro diverse spiegazioni del comportamento di
Elena: ella agì così per decreto degli dèi, oppure perché costretta,
oppure perché convinta con la forza della parola, oppure perché sovraffatta
da Eros. Il caso più difficile da trattare è il penultimo, che dà
vita ad un lungo e importante excursus sui poteri del linguaggio.
Il punto di partenza è costituito dalla costatazione degli effetti
psicologici multiformi della parola, resi evidenti soprattutto nel
suo uso poetico:
Se poi fu la parola a persuadérla e a illuderle l'animo, neppure
questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi così: la parola
è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo,
divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmare la paura,
e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare
la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò. Perché bisogna anche
spiegarlo all'opinione degli uditori: la poesia nelle sue varie
forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l'ascolta
è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa
le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l'anima patisce,
per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune
e sfortune di fatti e di persone straniere. Ma via, torniamo al
discorso di prima. Dunque, i divini incantesimi di parole sono apportatori
di piacere, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti, all'opinione
dell'anima, la potenza dell'incanto, questa la blandisce e persuade
e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create
due arti, consistenti in errori dell'anima e in inganni dell'opinione
(DK 82 B 11, 8-10).
Esiste però anche un altro campo in cui la parola esercita il suo
dominio: quello delle opinioni (dóxai),
che sostituiscono la conoscenza certa nella maggior parte dei casi.
Per la propria fragilità, le opinioni sono facilmente influenzabili
da un discorso adatto che esercita persuasione (peithó):
E quanti, a quanti, di quante cose persuasero e persuadono, foggiando
un falso discorso! Perché se tutti avessero, circa tutte le cose,
delle passate ricordo, delle presenti coscienza, delle future previdenza,
non simile sarebbe il medesimo discorso, qual è invece per quelli
che appunto non riescono né a ricordare il passato, né a meditare
sul presente, né a divinare il futuro; sicché nella maggior parte
dei casi i più offrono consigliera all'anima l'opinione. La quale
opinione, essendo fallace e incerta, in fallaci e incerte fortune
coinvolge chi se ne serve. Quale motivo ora impedisce di credere
che Elena sia stata trascinata da lusinghe di parole, e così poco
di sua volontà, come se fosse stata rapita con violenza? Così si
costaterebbe il potere della persuasione, la quale, pur non avendo
l'apparenza della necessità, ne ha tuttavia la potenza. Infatti
un discorso che abbia persuaso un'anima costringe l'anima che ha
persuaso e a credere nei detti e a consentire nei fatti. Perciò
chi ha persuaso, in quanto ha esercitato una costrizione, è colpevole;
mentre chi fu persuasa, in quanto costretta dalla parola, a torto
viene diffamata (DK 82 B 11, 11-12).
Da altre testimonianze sappiamo che Gorgia collegava l'efficacia
della persuasione in gran parte alla scelta del «momento opportuno»
(kairós): anche esso viene individuato non con la
conoscenza ma con l'opinione, dunque in maniera solo probabile, ma
solo la sua corretta individuazione assicura il «successo sull'anima»
degli ascoltatori (psychagogía). Con tre esempi particolarmente
significativi Gorgia mostra quanto sia ampio il potere della persuasione
e insieme prende le distanze dalle pretese di verità della sapienza
contemporanea:
E poiché la persuasione, congiunta con la parola, riesce anche
a dare all'anima l'impronta che vuole, bisogna apprendere anzitutto
i discorsi degli astronomi, i quali sostituendo ipotesi a ipotesi,
distruggendone una, costruendone un'altra, fanno apparire agli occhi
dell'opinione l'incredibile e l'oscuro. In secondo luogo, i dibattiti
oratori di pubblica necessità [politici e giudiziari], nei quali
un solo discorso non detto con verità, ma scritto con arte, suole
dilettare e persuadére molta folla. In terzo luogo, le battaglie
di discorsi dei filosofi, nelle quali si rivela anche con che rapidità
l'intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell'opinione. C'è
tra la potenza della parola e la disposizione dell'anima lo stesso
rapporto che tra l'ufficio dei farmaci e la natura del corpo. Come
infatti certi farmaci eliminano dal corpo certi umori, e altri,
altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; così anche
dei discorsi, alcuni producono dolore, altri diletto, altri paura,
altri ispirano coraggio agli uditori, altri infine, con qualche
persuasione perversa, avvelenano l'anima e la stregano (DK 82 B
11, 13-14).
Ovviamente ciò non significa che la parola abbia una funzione soltanto
ingannatrice: Gorgia intende piuttosto affermare che essa è uno strumento
multiforme che può essere usato non solo per fini buoni, ma anche
per fini cattivi, come appunto è avvenuto nella vicenda di Elena.
A sua volta, la difesa di Elena che Gorgia sta pronunciando è evidentemente
un esempio (benché fittizio) di un uso buono della parola nei dibattiti
giudiziari, intesa a scagionare da un'accusa ingiusta. La retorica
è dunque una tecnica in sé neutrale e ciascun uomo è responsabile
dell'uso che ne fa (vedi Platone, Gorgia, 456 a7 -- 457
c3 [greco]).
1.2 Linguaggio e realtà
Le idee di Gorgia sul linguaggio si ritrovano approfondite nel suo
scritto Su ciò che non è o sulla natura. In esso vengono
successivamente dimostrate tre affermazioni: nulla è; se anche qualcosa
fosse, sarebbe incomprensibile; se anche fosse comprensibile, sarebbe
incomunicabile. Le tesi hanno un suono paradossale e hanno fatto spesso
sostenere che quella di Gorgia sarebbe una semplice esercitazione
letteraria scherzosa. Tale interpretazione è resa poco sostenibile
se non altro dal fatto che Isocrate (15,268 = DK 82 B 1 [greco]),
discepolo diretto di Gorgia, allinea l'opinione del maestro con quella
degli altri sapienti che hanno sostenuto la pluralità (Empedocle
e Anassagora) o l'unità (Parmenide,
Zenone, Melisso)
delle cose. Le intenzioni di Gorgia in realtà diventano molto più
comprensibili quando vengono viste in un contesto culturale in cui
viene riconosciuto e posto per la prima volta in maniera critica il
problema del linguaggio.
Il primo passo di Gorgia consiste nel notare le conseguenze in cui
si cade quando si tenti di affermare che qualcosa «è»: ogni applicazione
del verbo «essere» a fenomeni porta a contraddizioni. Ciò era stato
mostrato proprio dai precedenti sapienti, che erano giunti a risposte
contraddittorie rispetto agli stessi problemi («ciò che è» è uno o
molti? è generato o ingenerato? e così via). Un argomento sembra però
originale di Gorgia e pone per la prima volta temi che saranno in
seguito molto importanti:
Se il non essere è non essere, «ciò che non è» per nulla
sarà meno di «ciò che è»; perché «ciò che non è» è «ciò che non
è», e «ciò che è» è «ciò che è», cosicché le cose per nulla sono
più di quanto non siano. Se tuttavia il non essere è, allora,
egli afferma, l'essere, che è il suo opposto, non è; perché se il
non essere è, all'essere si addice il non essere. Nulla
pertanto, egli afferma, può essere, se l'essere e il non essere
non sono la stessa cosa. E se fossero la stessa, anche così nulla
sarebbe; poiché «ciò che non è» non è, e così anche «ciò che è»,
dal momento che è la stessa cosa di «ciò che non è». Questo, pertanto,
è il suo stesso discorso (DK 82 B 3a, 4-6).
In breve, anche solo attribuire la non esistenza a qualcosa
significa riconoscere che essa in qualche modo è, e questo
porta a contraddizioni insolubili che vanno ad investire ogni uso
del verbo «essere». Benché originale, questa argomentazione usa gli
strumenti dialettici elaborati da Zenone.
La contestazione dunque avviene all'interno di una tradizione filosofica
consolidata, della quale Gorgia vuole mostrare i vicoli cieci. Come
dichiarato nell'Encomio di Elena, le «schermaglie filosofiche»
mostrano la facilità di capovolgere ogni cosa nel
suo opposto, e dunque il fatto che esse veicolano solo «opinioni»,
ma non la verità delle cose che il verbo «essere» vorrebbe significare.
Il secondo passo di Gorgia consiste nel mostrare che qualcosa che
«è» sarebbe in ogni caso inconoscibile:
Se dunque nulla è, egli dice che le dimostrazioni finiscono tutte.
Poiché tutte le cose pensate devono essere, e «ciò che non è», se
non è, neppure deve esser pensato. Se questo è vero, non esisterebbe
il falso, neppure se, egli afferma, si dicesse che dei carri corrono
sul mare; poiché tutte le cose sarebbero uguali. E infatti le cose
viste e udite sono per il fatto che ciascuna di esse è
pensata; e se non è questo il motivo, pure, come nulla esiste più
di quel che vediamo, così nulla esiste più di quel che pensiamo.
E come nel primo caso molti vedrebbero le stesse cose, anche nel
secondo molti penserebbero le stesse cose. Ma quali siano le vere,
è oscuro; sicché, se anche sono, le cose per noi sarebbero
inconoscibili (DK 82 B 3a, 17-20).
Con queste argomentazioni Gorgia mostra come il pensiero, se da una
parte è l'unico a poter affermare l'esistenza di qualcosa, dall'altra
non possiede la capacità di poterla concludere con certezza: il che
significa appunto che nulla è inconoscibile, e che qualsiasi «dimostrazione»
razionale è in realtà intrinsecamente fragile. Il terzo e ultimo passo
consiste nel mostrare che le cose sono comunque incomunicabili:
E se anche fossero conoscibili, in che modo, egli osserva, uno
potrebbe manifestarle ad un altro? quello che uno ha visto, come,
egli si chiede, potrebbe esprimerlo con la parola? o come questo
potrebbe divenir chiaro a chi ascolta senza averlo veduto? Come
infatti la vista non conosce i suoni, così neppure l'udito ode i
colori, ma i suoni; e chi parla, pronunzia, ma non pronunzia né
un colore né una cosa. Quello dunque di cui uno non ha un concetto,
come potrà chiederlo ad un altro mediante la parola o concepirlo
con un qualche segno di natura diversa dalla cosa, o non dovrà piuttosto,
se è un colore, vederlo, se è un rumore, udirlo? Infatti chi parla
non usa un rumore o un colore, ma una parola; perciò neppure è possibile
pensare un colore, ma solo vederlo, né pensare un suono, ma udirlo.
E se anche è ammissibile conoscere ed esprimere quello che si conosce,
come poi, chi ascolta, concepirà la stessa cosa? Infatti non è possibile
che una stessa cosa sia contemporaneamente in più [menti], fra loro
distinte, perché allora l'uno sarebbe due. E se anche fosse vero,
egli dice, che la stessa cosa sia in più [menti], nulla impedisce
che non appaia loro uguale, poiché esse non si somigliano in tutto
fra loro, né si trovano nella stessa condizione, perché se fossero
nella stessa condizione, sarebbero uno e non due. Né poi lo stesso
uomo, evidentemente, prova sensazioni simili nel medesimo tempo,
ma altre con l'udito, altre con la vista; e in modo differente ora
e in passato. Dunque difficilmente uno potrebbe avere sensazioni
uguali a quelle d'un altro.
E così, nulla è; e se anche fosse, nulla sarebbe conoscibile; se
poi anche fosse conoscibile, nessuno potrebbe farlo conoscere ad
un altro, per la ragione che le cose non sono parole, e che nessuno
concepisce le cose nel modo stesso d'un altro (DK 82 B 3a, 21-26).
Queste ultime affermazioni sembrano quello determinanti: con esse
infatti si è concluso che il linguaggio possiede un'autonomia dalla
realtà, e non può essere creduto ingenuamente un mezzo per trasmettere
la verità. L'interesse letterario di Gorgia è quindi in ultima analisi
fondato su una riflessione linguistica originale e raffinata.
2. Protàgora di Abdèra
Abdera, circa 480 a.C.
-- mar Ionio, circa 410 a.C. Di
origini popolari e dapprima dedito a lavori manuali, si dedicò successivamente
alla ricerca intellettuale, proponendosi per la prima volta come insegnante
a pagamento presso i giovani desiderosi di una formazione superiore.
Presente spesso ad Atene, si acquistò la stima di Pericle, che nel
440 a.C. circa lo incaricò di scrivere
la costituzione democratica della novella colonia di Turi. Accusato
di empietà da un esponente del governo oligarchico dei Quattrocento,
venne condannato a morte; scelta l'alternativa dell'esilio, morì facendo
naufragio mentre si dirigeva verso la Sicilia. Delle sue opere oltre
a pochissimi frammenti rimangono alcuni titoli: Contraddizioni,
Sugli dèi, Sull'essere (sezioni delle Antilogie?),
Verità (o Discorsi sovvertitori), Grande
trattato (ulteriore nome della Verità?). In tale
situazione molto importante per la ricostruzione del suo pensiero
è la testimonianza (peraltro ostile) di Platone, soprattutto nei dialogi
Teeteto e Protagora.
2.1 La contraddizione
Importanti testimonianze attribuiscono a Protagora una particolare
abilità nell'arte della discussione, in particolare nell'individuare
la «contraddizione (antilogía)» in qualsiasi argomento
fosse proposto. A lui va attribuita l'importante dichiarazione secondo
cui «Intorno ad ogni oggetto ci sono due ragionamenti contrapposti»
(DK 80 B 6a). A questo tema doveva essere evidentemente dedicata l'opera
Contraddizioni. Una testimonianza di Platone suggerisce
quali dovevano essere gli argomenti trattati in questa maniera: «le
cose divine, che restano oscure ai molti», «le cose manifeste della
terra e del cielo e di ciò che le riguarda», «il divenire e l'essere
di tutte le cose», «le leggi e tutti i temi politici» (Sofista,
232 c1-d1 [greco]):
dal mondo divino a quello umano, ogni tema può essere quindi affrontato
in maniera da giungere a due conclusioni contrarie.
È quindi nel quadro delle Contraddizioni che va intesa
anche la trattazione Sugli dèi, che fu il pretesto della
condanna di Protagora e della quale possediamo soltanto la dichiarazione
iniziale:
Riguardo agli dèi non posso sapere né che sono, né che non sono,
né come siano d'aspetto, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità
dell'argomento e la brevità della vita umana (DK 80 B 4).
Dobbiamo immaginare che il seguito del discorso portasse argomenti
sia a favore sia contro l'esistenza degli dèi (o forse le loro caratteristiche
specifiche), concludendo circa l'impossibilità di una conclusione
sicura. Nella trattazione Sull'essere Protagora affrontava
poi i temi del pensiero di Parmenide, portando argomenti contro l'unità
dell'essere. Il contenuto esatto di queste Contraddizioni
di Protagora, in questo e negli altri temi, è tuttavia perduto.
È possibile però formarsi un'idea più precisa soprattutto delle discussioni
di carattere politico grazie ad uno scritto anonimo, i Discorsi
duplici, che usa il metodo della contraddizione e certamente
riecheggia temi di Protagora. Una discussione verte ad esempio Sul
bello e sul brutto: in essa si mostra come presso diversi popoli
gli stessi comportamenti sono giudicati come lodevoli o riprovevoli,
al punto che non esiste neppure un caso su cui ci sia unanimità di
vedute. Gli esempi, che in gran parte hanno paralleli nei resoconti
dello storico Erodoto, rivelano quanta parte dovette avere nel ripensamento
operato dalla sofistica la nuova disponibilità di informazioni sul
mondo non greco. Una tra le discussioni più significative è Sul
bene e sul male:
Discorsi duplici si fanno in Grecia da parte dei cultori di filosofia
intorno al bene e al male. Gli uni sostengono che altro è il bene,
altro è il male; altri invece, che sono la stessa cosa; la quale,
per alcuni sarebbe bene, per altri, male; e per lo stesso individuo,
sarebbe ora bene, ora male.
Quanto a me, io mi associo a questi ultimi; e ne ricercherò le
prove nella vita umana, le cui cure sono il mangiare, il bere, e
i piaceri sessuali; poiché questi soddisfacimenti per l'ammalato
sono un male, ma per chi è sano e ne ha bisogno, un bene. Pertanto,
l'abuso di essi è male per gl'incontinenti, ma per chi li vende
e ci guadagna, è un bene. E così la malattia per i malati è un male,
ma per i medici è un bene. E ancora, la morte per chi muore è un
male, ma per i venditori di tombe e per i becchini è un bene. E
che l'agricoltura dia abbondante raccolto, è un bene per gli agricoltori,
ma per i commercianti è male. Così pure, che le navi onerarie si
scontrino e si fracassino, per l'armatore è male, ma per i costruttori
è bene. E ancora, che il ferro si corroda e si ottunda e si spezzi,
è male per gli altri, ma per il fabbro è bene. E che stoviglie si
rompano, per gli altri è male, ma per i vasai è bene. E che le scarpe
si logorino e si lacerino, per gli altri è male, ma per il calzolaio
è bene (DK 90 1,1-5; vedi Platone, Protagora, 334 a3-c6
= DK 80 A 22 [greco]).
La duplicità di punti di vista deriva quindi dalle diverse situazioni
personali e dai conflitti presenti nella vita della città. Affermare
che la contraddizione è ineliminabile non significa quindi identificare
astrattamente il bene e il male:
Si fa poi un altro discorso, come cioè altro sarebbe il bene, altro
il male; e come differiscono di nome così differirebbero anche di
fatto.
Ed io, quanto a me, mi spiego questo modo di vedere: poiché mi
pare che neppure apparirebbe chiaro quale sia il bene e quale il
male, qualora fossero ambedue la stessa cosa, e non due diverse;
e ci sarebbe poi da stupire. Perché credo che uno [che sostenesse
tale cosa] non saprebbe neppure come rispondere se gli si chiedesse:
«Dimmi, fin qui i tuoi genitori t'han fatto delle cose buone?» E
lui: «Sì, molte e grandi». «Tu dunque sei loro debitore anche di
grandi e molti mali, se è vero che il bene è la stessa cosa del
male». ... E questo si dica per tutti i casi. E ritorno anche ai
singoli esempi addotti in principio, cioè il mangiare, il bere e
i piaceri sessuali. Perché il soddisfarli per gl'infermi, è male;
ma se è vero che bene e male sono la stessa cosa, allora il farlo,
per essi, è insieme anche bene. E così, per i malati, la malattia
è insieme un male e un bene, se è vero che il bene è lo stesso del
male. E secondo quest'esempio, così anche per tutti gli altri di
cui s'è detto più sopra.
Così non dico che cos'è il bene, ma questo tento d'insegnare, che
il bene e il male non sono la stessa cosa, ma ciascuno dei due può
essere anche l'altro (DK 90 1,11-12.15-17).
Il bene è insomma (come Platone farà dire a Protagora), multicolore
(poikílos) (Protagora, 334 b6 [greco]),
così come «multicolore» è la costituzione della città democratica
(Repubblica, 557 c5 [greco]).
Nel concetto di contraddizione sembrano dunque confluire differenti
elementi: la consapevolezza della debolezza della conoscenza umana
nell'affrontare argomenti troppo lontani o astratti, la possibilità
di formulare ipotesi contraddittorie riguardo al cosmo, la presenza
di punti di vista e interessi differenti. Certamente la contraddizione
non è più soltanto come in Zenone uno strumento
di competizione verbale, ma la conclusione inevitabile di ogni
discorso, che mostra il carattere ambiguo che la realtà assume agli
occhi dell'uomo.
Integrazione: La concezione della contraddizione e l'interpretazione
fisica (che ora vedremo) ricorda sia le
idee di Eraclito, sia il modo in cui tale idee furono sviluppate
da Cratilo. Non meraviglia
dunque che tra questi nomi già i contemporanei stabilirono una stretta
associazione. È del resto evidente come contesto e soprattutto scopi
della riflessione di Protagora siano completamente diversi e adempiano
a funzioni culturali e sociali nuove. Fine dell'integrazione
2.2 L'uomo misura delle cose
La spiegazione ultima delle contraddizioni va quindi ricercata nell'uomo
e nelle sue varie condizioni. Questo è il senso della frase iniziale
(l'unica giunta) dell'opera di Protagora sulla Verità:
Di tutte le cose misura è l'uomo: delle cose che sono così come
sono, di quelle che non sono così come non sono (Teeteto,
152 a2-4 = DK 80 B 1 [greco]).
Una testimonianza ci informa sul modo effettivo in cui secondo Protagora
la diversità delle disposizioni dell'uomo causa la differenza delle
percezioni:
Dice dunque quest'uomo che la materia è fluida, ma via via che
fluisce di continuo delle aggiunte compensano le perdite, e le sensazioni
si trasformano e cambiano a seconda dell'età e delle altre condizioni
del corpo. Dice poi anche che le ragioni di tutti i fenomeni sussistono
nella materia, di modo che la materia, per quanto è in sé, può essere
tutto ciò che appare a chicchessia. Gli uomini poi percepiscono
ora l'una ora l'altra apparenza, secondo le diverse disposizioni
in cui si trovano. Così un uomo in condizioni naturali percepisce,
tra le ragioni insite nella materia, quelle che possono apparire
a chi è in condizioni naturali, e così l'uomo in condizioni innaturali
quelle per chi è in condizioni innaturali. Lo stesso discorso si
faccia riguardo all'età, e secondo che si dorme o si è svegli, e
insomma, secondo ogni specie di disposizioni.
Secondo lui dunque, criterio delle cose è l'uomo. Infatti, tutto
ciò che appare agli uomini, anche è; e ciò che non appare a nessun
uomo, neppure è. Vediamo pertanto che egli ammette come postulati
la fluidità della materia e il sussistere in essa delle ragioni
di tutti i fenomeni (DK 80 A 14).
È facile ravvisare una grande vicinanza con la teoria
fisica di Anassagora, che afferma la presenza in ogni cosa dei
«semi» di tutte le qualità. In modo parimenti simile a lui tale teoria
viene sostenuta sulla base del principio che una cosa non può nascere
dal suo contrario:
Non tutti vengono a conoscere le medesime cose circa i medesimi
oggetti, ma a questi una cosa pare dolce, a quelli il contrario.
Ora, è opinione si può dire comune riguardo alla natura che nulla
nasce da ciò che non è, e tutto da ciò che è. Se dunque si nega
che il bianco nasca solo dal perfettamente bianco, e in nessun modo
dal non bianco, si avrà che, dato per esempio come esistente il
non bianco, se nasce il bianco, verrà a nascere dal non bianco;
vale a dire che nascerebbe dal non essere, secondo costoro, se non
si ammette che la stessa cosa sia insieme bianca e non bianca (Aristotele,
Metafisica, 1062 b22-30 = DK 80 A 17b [greco]).
Se ogni percezione va giudicata con il metro dell'uomo che la compie,
essa è dunque sempre vera. Ciò non significa però che tutto è relativo
ed è impossibile pronunciare qualsiasi giudizio. Quale fosse la posizione
in merito di Protagora ci viene riferito con sufficiente esattezza
da Platone (cosa significativa considerando l'avversione di questi
alla sofistica):
Ricòrdati quanto si diceva prima, che per al malato il cibo appare
amaro -- e lo è, e al sano appare il contrario -- e lo è. Ora, non
bisogna stimare nessuno dei due più sapiente dell'altro, perché
è impossibile, né si deve affermare che il malato sia un ignorante,
perché gli paiono quelle cose, e che il sano sia sapiente, perché
gli paiono altre cose; ma il primo stato è da scambiare col secondo:
perché la seconda situazione è migliore. ... Poiché non avviene
che ad uno che opina cose false poi un altro gli fa opinare cose
vere; perché non è possibile opinare né cose che non sono, né cose
diverse da quelle che si altrimenti da quel che si è percepito,
e queste cose sono sempre vere. Ma credo che una buona disposizione
dell'anima fa opinare cose conformi a sé e diverse da quelle che
si opinano per una dannosa disposizione d'animo, e sono rappresentazioni
che alcuni, per inesperienza, chiamano «vere»; ma io, dico queste
«migliori» delle altre, ma per nulla «più vere» (Teeteto,
166 e1 -- 167 a4; 167 a6-b4 = DK 80 A 21a [greco]).
Il giudizio che può e deve essere pronunciato non è quindi teorico,
ma pratico. Proprio qui per Protagora c'è lo spazio per l'autentica
sapienza (sophía) dell'esperto (sophistés).
Egli non ha affatto una «verità» superiore, ma piuttosto la capacità
d'insegnare ad intervenire in maniera positiva sulla condizione degli
uomini:
Che esistano la sapienza e l'uomo sapiente, sono lungi dal negarlo;
anzi, chiamo appunto «sapiente» chi ad uno di noi, a cui le cose
appaiano e siano cattive, capovolgendo la situazione le faccia apparire
ed essere buone. ... I sapienti e i buoni retori fanno apparire
come giuste alle città le cose utili invece delle dannose. Perché
quanto appare giusto e bello a ciascuna città, tale anche è per
essa finché lo reputi tale; ma il sapiente, invece di ciascuna cosa
dannosa per i cittadini ne fa essere e apparire una utile. Secondo
lo stesso discorso anche il sofista, essendo capace di educare in
questo modo i discepoli, è sapiente e degno di grande ricompensa
per quelli che ha ammaestrato (Teeteto, 166 d5-8; 167
c2-d1 = DK 80 A 21a [greco]).
Insomma: il sofista è colui che insegna a trasformare le apparenze
delle cose, a «rendere più forte il discorso più debole» (DK 80 B
6b), come in termini tecnici si esprimeva Protagora. È evidente con
quanta facilità tale obiettivo potesse essere frainteso come l'insegnamento
di un'arte dell'inganno (come nella parodia delle Nuvole
di Aristofane). Per Protagora in realtà si tratta di conferire
maggiore forza e credibilità a quelle opinioni «buone» che altrimenti
rischiano di rimanere «deboli» e risultare perdenti nel dibattito
pubblico. Il sofista è quindi colui che imparte una formazione superiore
ai cittadini che vogliono essere presenti ed efficaci nella vita pubblica
della città. Platone riassumerà questo intento ponendogli in bocca
questa dichiarazione:
La materia di studio è un retto discernimento (euboulía)
nelle cose domestiche -- quale sia il miglior modo di amministrare
la propria casa -- e nelle cose della città -- in che modo si divenga
capacissimi in esse sia nell'agire sia nel parlare (Protagora,
318 e5 -- 319 a2 = DK 80 A 5 [greco]).
2.3 Educazione e città
È naturale che la pratica di Protagora abbia dato l'occasione per
una riflessione sui processi d'insegnamento. Le testimonianze gli
attribuiscono la prima introduzione di un metodo basato sul dialogo,
che sarà poi spesso associato a Socrate: si tratta
evidentemente di uno slittamento della dialettica dall'ambito agonistico
a quello educativo. Tale metodo non escludeva tuttavia il ricorso
ai discorsi lunghi nello stile di Gorgia. I Discorsi
duplici riassumono le due abilità che venivano richieste nella
prassi inaugurata da Protagora:
Reputo proprio [del medesimo uomo] e della medesima tecnica poter
dialogare a domanda e risposta (e conoscere la verità delle cose,
e saper giudicare rettamente), ed essere capace a parlare al popolo
(e conoscere le tecniche dei discorsi, e capace di istruire sulla
natura e di tutte le cose, come sono e come nascono).
E in primo luogo, colui che conosce la natura di tutto come non
sarà capace anche di agire rettamente in tutto? In secondo luogo,
colui che conosce le tecniche della parola, saprà anche parlare
rettamente su tutto. Poiché chi si propone di parlar rettamente,
deve parlare di ciò che sa. Ed egli sarà capace di parlare su tutto.
Appunto perché conosce l'arte di tutti i discorsi, e tutti i discorsi
riguardano le cose che sono. Deve poi, chi vuole parlare rettamente,
conoscere bene le cose di cui vuol parlare, e con giusto metodo
insegnare alla città a compiere le azione buone e distoglierla da
quelle cattive. Se saprà far queste due cose, saprà anche le altre;
poiché egli sarà esperto di tutte, dal momento che queste equivalgono
a tutte; al loro momento opportuno poi, farà quel che è da fare,
se occorre (DK 90 8.1-7).
Anche se il passo non è esplicito al proposito, i due metodi del
«discorso breve (brachylogía)» e del «discorso lungo
(makrología)» hanno palesemente uno scopo differente:
il dibattito deve appurare i pro e i contro in una questione, mentre
l'esposizione lunga ed effettuata al momento opportuno è destinata
a creare quel consenso pubblico che convinca la città a compiere le
azioni che le sono utili.
Più ancora di un metodo, agli intenti di Protagora era però necessaria
una teoria sulla possibilità dell'insegnamento. Essa doveva giustificare
quella situazione sociale in cui non la nascita, ma piuttosto le proprie
capacità, liberamente confrontate ed esibite, permettevano l'accesso
alle cariche pubbliche. L'unica citazione testuale che possediamo
afferma che «due cose l'insegnamento richiede: disposizione naturale
ed esercizio» (DK 80 B 3). Già nella sua brevità si esprime la consapevolezza
della possibilità di differenti esiti a seconda delle diverse doti
naturali possedute: l'insegnamento non può essere dunque respinto
con il pretesto che esso non è sempre efficace. Sia la discussione
che Platone immagina nel Protagora, sia il resoconto
dei Discorsi duplici (DK 90 6) precisano, contro questa
possibile obiezione, che le diverse qualità individuali possono o
vanificare ogni sforzo (quindi i figli di persone capaci non sempre
lo sono altrettanto malgrado gli sforzi dei genitori) o viceversa
renderlo pressoché superfluo (quando una grande intelligenza consente
di afferrare da sé gli argomenti più complessi). Del resto, nel caso
della «virtù politica» avviene qualcosa di simile alla lingua: essa
sembra conosciuta spontaneamente perché in realtà tutti la insegnano,
più o meno consapevolmente.
Per giustificare ulteriormente la possibilità dell'insegnamento della
virtù politica, Platone mette in bocca a Protagora un mito sull'origine
della civiltà che probabilmente è ispirato a suoi scritti autentici.
In esso, rielaborando liberamente il mito tradizionale, si narra che
gli dèi, al momento di formare le specie animali, dànno ordine ai
due titani Prometeo («Provvidente») ed Epimeteo («Improvvidente»)
di ripartire le diverse facoltà. Il secondo svolge il lavoro da solo,
e solo alla fine si accorge di aver dotato di sufficienti difese tutte
le specie viventi tranne l'uomo, rimasto completamente inerme. È a
questo punto che il fratello tenta di rimediare:
Non sapendo dunque Prometeo quale salvezza trovare per l'uomo,
ruba da Efesto ed Atena la sapienza tecnica insieme con il fuoco
(perché senza il fuoco era impossibile a chiunque acquistarla o
servisene) e così ne fa dono all'uomo. In tal modo l'uomo ebbe sì
la sapienza per la vita, ma non aveva quella politica, perché questa
era presso Zeus; a Prometeo del resto non era più lecito entrare
nell'acropoli, dimora di Zeus (e inoltre le guardie di Zeus erano
spaventose), ma nell'abitazione comune di Atena ed Efesto, in cui
coltivavano la tecnica, entra di nascosto, e rubata l'arte del fuoco
di Efesto e l'altra di Atena le dà all'uomo. Da qui vennero all'uomo
le risorse della vita, ma più tardi a Prometeo, a quanto si racconta,
giunse per colpa di Epimeteo la pena del furto. Dopo che dunque
l'uomo divenne partecipe della sorte divina, anzitutto, unico tra
gli animali, credette negli dèi, ed eccolo costruire altari e statue
di dèi; poi con la tecnica ben presto articolò la voce e le parole,
e scoprì case, vestiti, calzature, giacigli e gli alimenti che ci
dà la terra (Protagora, 321 c7 -- 322 a8 = DK 80 C
1 [greco]).
La sapienza tecnica (éntechnos sophía) non è tuttavia
sufficiente all'uomo, che rimane incapace di difendersi dagli attacchi
esterni:
In tali condizioni da principio gli uomini vivevano sparsi e non
c'erano città; sicché venivano uccisi dalle fiere, perché erano
da ogni punto di vista più deboli di loro; e la tecnica artigianale
era sì un aiuto adeguato per il cibo, ma era insufficiente per combattere
le fiere (infatti non avevano ancora la tecnica politica, di cui
quella bellica è parte). Cercavano allora di radunarsi e salvarsi
fondando città; ma ogni volta che si radunavano, si recavano offesa
l'un l'altro appunto perché non possedevano la tecnica politica;
cosicché dispersisi di nuovo venivano uccisi.
Allora Zeus, temendo che la nostra specie morisse tutta, invia
Ermes a portare agli uomini rispetto (aidós) e
giustizia (díke), perché fossero ordinatori della
città e vincoli apportatori di amicizia. Dunque Ermes domanda a
Zeus in quale modo dare giustizia e rispetto agli uomini: «Debbo
distribuire anche essi così come sono state assegnate le tecniche?
E queste sono state assegnate così: uno solo che ha la tecnica medica
è sufficiente per molti ignoranti di medicina; e così gli altri
artigiani. Anche giustizia e rispetto debbo porli negli uomini in
questo modo, o debbo assegnarle a tutti?» «A tutti -- disse Zeus
-- e che tutti ne partecipino; le città infatti non potrebbero esistere
se pochi di loro li avessero, come le altre tecniche. E fa' pure
una legge da parte mio, che chi non è capace di partecipare di rispetto
e giustizia, sia ucciso come una malattia della città» (Protagora,
322 a8 -- 322 d5 = DK 80 C 1 [greco]).
Il mito evidentemente non vuole affermare che gli uomini abbiano
naturalmente la virtù politica, ma piuttosto che sono in qualche modo
predisposti ad apprenderla, perché il suo possesso da parte di tutti
è necessario alla convivenza. Da una parte quindi è giusto che tutti
vengano consultati nelle questioni della vita cittadina (diversamente
da come avviene per qualsiasi altra questione tecnica): in questo
modo Protagora ritiene il regime democratico il più adeguato alla
natura stessa della città. D'altra parte però è opportuno che un insegnamento
specialistico sviluppi nei più capaci le loro potenzialità: e questa
è la giustificazione della professione del sofista.
Integrazione: Il tema dell'origine della società, o forse
meglio della sua natura, doveva essere uno dei più dibattuti all'epoca
di Protagora. Una teoria completamente diversa la conosciamo da
una spregiudicata narrazione messa in bocca al semidio Sìsifo in
un omonimo dramma di non sicura attribuzione (Crizia o Euripide).
La tendenza aristocratica di tale teoria traspare dal rifiuto di
attribuire agli uomini una capacità naturale alla giustizia, la
cui mancanza va surrogata con il timore degli dèi:
Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini,
e ferina, e strumento di violenza,
quando premio alcuno non c'era per i buoni,
né alcun castigo ai malvagi.
In seguito, mi pare che gli uomini sancissero leggi
punitive affinché fosse Giustizia Díke assoluta
signora
[egualmente di tutti,] e avesse ad ancella la Prepotenza (Hýbris);
ed era punito chiunque peccasse.
Ma poi, giacché le leggi distoglievano sì gli uomini
dal compiere aperte violenze,
ma di nascosto le compivano, allora, suppongo,
[dapprima,] un qualche uomo ingegnoso e sapiente di mente
inventò per gli uomini il timore [degli dèi], affinché
uno spauracchio ci fosse ai malvagi anche per ciò che di nascosto
facessero o dicessero o pensassero.
Dunque introdusse la divinità
sotto forma di dèmone, fiorente di vita imperitura,
che con la mente ode e vede, e con somma saggezza
sorveglia le azioni umane, mostrando divina natura;
il quale dèmone udirà tutto quanto si dice tra i mortali
e potrà vedere tutto quanto da essi si compie.
E se anche tu mediti qualche male in silenzio,
ciò non sfuggirà agli dèi; che troppa
è la loro saggezza. Facendo di questi discorsi,
divulgava il più gradito degli insegnamenti,
avvolgendo la verità in un finto racconto.
E affermava gli dèi abitare colà, dove
ponendoli, sapeva di colpire massimamente gli uomini,
là donde sapeva che vengono gli spaventi ai mortali
e le consolazioni alla loro misera vita:
dalla sfera celeste, dove vedeva esserci lampi, e orrendi rombi
di tuoni, e lo stellato corpo del cielo,
opera mirabilmente varia del sapiente artefice, il Tempo;
là donde s'avanza fulgida la massa rovente dell'astro,
donde l'umida pioggia sovra la terra scende.
Tali spaventi egli agitò dinanzi agli occhi degli uomini,
e servendosi di essi, costruì abilmente con la parola
la divinità, ponendola in un luogo a lei adatto;
e spense così l'illegalità con le leggi.
..........................................................
Per tal via dunque io penso che in principio qualcuno inducesse
i mortali a credere che vi sia una stirpe di dèmoni (DK 88 B 25;
vedi Platone, Leggi, 889 e3-5 [greco]).
Fine dell'integrazione
- Graham Maddox, «Religious
Dissent and Political Opposition: Thoughts on Ancient and Modern
Democracy», Electronic
Antiquity, vol. 1, n. 2 (July 1993), http://scholar.lib.vt.edu/ejournals/ElAnt/V1N2/maddox.html.
- Douglas H. Kelly, «Athenian
Popular Ideology», Electronic
Antiquity, vol. 1, n. 7 (February 1994), http://scholar.lib.vt.edu/ejournals/ElAnt/V1N7/kelly.html.
3. Socrate
Atene, 470 -- 399 a.C.
Interessatosi dapprima alla fisiologia di Anassagora, affrontò poi
temi di morale tramite uno spregiudicato stile di dialogo, che aveva
come interlocutori soprattutto i giovani nobili di Atene. Le sue critiche
alla democrazia e la vicinanza con personaggi della cerchia dei Trenta
tiranni (Crizia, Alcibiade) contribuirono ad attirare su di lui un
procedimento penale per empietà, al termine del quale venne condannato
a morte. Ad essa andò incontro rifiutando l'alternativa dell'esilio.
Non avendo egli composto opere scritte, il contenuto del suo insegnamento
può essere conosciuto, e solo con difficoltà, attraverso le testimonianze
dei contemporanei: soprattutto il commediografo Aristòfane, lo scrittore
Senofonte (che ci informa anche sull'importante Accusa
di Policrate), il discepolo diretto Platone e il discepolo indiretto
Aristotele. L'immagine che avrà più eco lungo i secoli sarà quella
di Platone, in cui Socrate appare come un martire della coerenza morale
e il simbolo stesso della filosofia.
3.1 La vicenda
Anche se la documentazione che possediamo su Socrate è molto più
ampia di quella di qualsiasi altro componente del suo stesso ambiente
culturale, le difficoltà di ricostruirne la figura e il pensiero non
sono affatto minori. Tutte le testimonianze sono infatti interessate
anzitutto a difenderne (Platone e Senofonte) o attaccarne (Aristofane
e Policrate) l'opera nella città, che fu oggetto di aspre controversie
culminate con il suo processo e condanna a morte. L'esecuzione di
quest'ultima (che costituisce un caso raro nella storia ateniese del
tempo) contribuì a creare attorno a lui quell'aura di martire del
pensiero che gli assicurò una fama grandissima ma spesso scarsamente
connessa al suo oggettivo significato storico.
Dalla più antica testimonianza che possediamo è difficile ricavare
precise informazioni: si tratta della commedia di Aristofane, Le
nuvole, in cui Socrate viene usato come simbolo delle tendenze
culturali ateniesi percepite come malamente innovatrici: lo studio
della natura e la sofistica.
Integrazione: La commedia racconta di un uomo, Strepsiade,
che rovinato dai debiti procuratigli dal figlio spendaccione, Fidippide,
decide di ricorrere all'insegnamento di Socrate per apprendere l'arte
di aver ragione (sui creditori). Socrate è messo in scena come un
bizzarro scienziato, circondato da fedeli allievi e sospeso in un
canestro, il «pensatoio (phrontistérion)», per
poter stare più vicino alle Nuvole sue divinità e insegnare trucchi
verbali:
Strepsiade: Vieni qui, guarda.
Vedi questa porticina e questa casetta?
Fidippide: Vedo. Ma che cos'è veramente, padre?
Strepsiade: Questo è il pensatoio delle anime sapienti.
Qui abitano uomini che parlando
convincono che il cielo è un forno,
e che ci sta attorno, e noi siamo i carboni.
Questi insegnano, se uno dà loro denaro,
a vincere con la parola sia le cause giuste sia quelle ingiuste
(91-99 [greco]).
Vista tuttavia la propria incapacità, Strepsiade decide di inviare
il figlio stesso. Questi ha più successo, ma ritornato presso il
padre inizia a picchiarlo, dimostrandogli, con le armi dialettiche
apprese, che si tratta di un atto giusto e lodevole. Il padre, esasperato
e pentito, ritorna presso la dimora di Socrate e la dà alle fiamme.
Il momento culminante della commedia si trova nel serrato dibattito
tra il «Discorso giusto» e il «Discorso ingiusto», che personificano
il primo gli ideali tradizioni di Atene, il secondo la nuova cultura.
Quest'ultimo riesce infine a vincere mostrando come la decadenza
sia ormai dilagante e riguardi tutti i membri più eminenti della
società (e anche gli spettatori della commedia). Fine dell'integrazione
La commedia di Aristofane dipinge quindi bene il risentimento e la
diffidenza che dovevano circolare nei confronti delle novità culturali,
ma aiuta poco ad appurare i motivi specifici che portarono all'avversione
nei confronti di Socrate. Essi possono essere però facilmente ricavati
da Senofonte, il quale nei Memorabili riferisce (per
respingerle) le accuse avanzate da Policrate in un discorso composto
poco dopo la morte di Socrate:
Diceva l'accusatore che egli faceva disprezzare ai suoi familiari
le leggi costituite, affermando che era da pazzi trarre a sorte
i capi delle città, mentre nessuno vuole affidarsi a un timoniere,
a un architetto, a un flautista eletto a sorte, né ad altri, insomma,
per azioni più o meno simili, le quali, se non riescono, portano
conseguenze assai meno disastrose di uno sbaglio politico: tali
discorsi, diceva l'accusatore, spingono i giovani a tenere a vile
la costituzione vigente e li rendono violenti (1.2.9 [greco]).
Crizia e Alcibiade -- continuava l'accusatore -- che furono amici
di Socrate, hanno causato moltissimi mali alla città: Crizia fu
il più ladro e il più violento di tutti gli oligarchici, Alcibiade,
a sua volta, il più intemperante e tracotante di tutti i democratici
(1.2.12 [greco]).
Socrate -- diceva l'accusatore -- insegnava a ingiuriare i genitori,
perché persuadeva i suoi amici che li avrebbe resi più saggi di
loro e sosteneva che secondo la legge era permesso legare anche
il padre quando lo si fosse convinto di demenza: e giustificava
questo, osservando come la legge ammetteva che il più ignorante
fosse legato dal più saggio (1.2.49 [greco]).
Diceva poi l'accusatore che Socrate, scelti i versi peggiori dei
poeti più celebri, se ne serviva come prova per insegnare agli amici
ad essere malvagi e dispotici. Per esempio, Esiodo ha scritto: «Nessun
lavoro è vergogna, l'inerzia, invece è vergogna» (Opere,
311 [greco]);
e questo avrebbe ripetuto lui nel senso che il poeta consiglia di
non astenersi da nessun lavoro, ingiusto o turpe che sia, bensì
di compiere anche questi pur di trarne guadagno (1.2.56 [greco]).
Anche i versi di Omero, diceva l'accusatore, Socrate soleva spesso
recitare, quando Odisseo
qualunque re o personaggio insigne incontrava, accostatosi,
con persuasive parole cercava di trattenerlo:
«Signore, a te non si confà come un vile disanimarti,
ma fermati tu stesso e trattieni le loro schiere». ...
Qualunque gregario poi vedeva o coglieva ad urlare
con lo scettro batteva e sgridava con le parole:
«Stattene fermo, tristaccio, e gli ordini ascolta dei capi,
che sono migliori di te, e tu sei un imbelle e un dappoco,
non calcolabile in guerra e senza importanza in consiglio» (Iliade,
2,188-91; 198-202 [greco]).
Questi versi Socrate li avrebbe spiegati nel senso che il poeta
approvava chi picchiasse i popolani e i poveri (1.2.58 [greco]).
I dati che si trovano dietro questa esposizione polemica vengono
sostanzialmente confermati dalle fonti favorevoli, cioè Platone e
Senofonte, seppure interpretati ovviamente in modo differente: secondo
loro Socrate mette in evidenza le contraddizioni della democrazia
e le insufficienze della cultura tradizionale, portando avanti in
maniera più o meno esplicita un benefico progetto politico aristocratico,
palesemente filo-spartano, che proprio Platone poi preciserà come
punto culminante della sua filosofia.
Ciò non solo spiega bene la vicenda del processo a Socrate, ma aiuta
anche a chiarire il peculiare rapporto di Socrate con gli altri sofisti:
da una parte egli è uno di loro, propugnatore com'è di un nuovo modello
educativo che prende le mosse dalla parola; dall'altra è avversario
della loro tendenza prevalentemente a favore della formazione culturale
di una classe attiva nei processi di decisione democratica. È per
questo che l'accusa contro Socrate poteva riecheggiare le formule
dei processi per «empietà»: «Socrate è colpevole di corrompere i giovani
e di non considerare gli dèi che la città considera, ma altri nuovi
esseri demonici» (Platone, Apologia, 24 b8-c1 [greco]);
ma la «corruzione» dei giovani qui intesa riguarda proprio un atteggiamento
scettico e corrosivo nei confronti delle tradizionali istituzioni
democratiche, che facilmente poteva degenerare (e di fatto degenerò,
come in Crizia e Alcibiade) nell'ambizione di potere personale.
Integrazione: Nell'esporre il pensiero di Socrate seguiremo
soltanto, a preferenza di quella di Senofonte, la testimonianza
di Platone, la quale peraltro presenta l'immagine che eserciterà
maggiore influenza nel resto della storia della filosofia. Un notevole
problema consiste però nel fatto che Platone utilizza regolarmente
la figura del maestro, protagonista in quasi tutti i suoi dialoghi,
come portavoce simbolico delle proprie idee. Tale difficoltà può
essere in parte superata attribuendo al Socrate storico le idee
che
- sono espresse nei dialoghi giovanili di Platone e differiscono
da quelle sicuramente attribuibili a Platone stesso nella maturità;
- sono riferite come «abituali» di Socrate, facendo dunque riferimento
a ciò che ci si poteva attendere come comunemente noto (Antonio
Capizzi);
- rappresentano un'innovazione rispetto ai luoghi comuni dell'epoca
(John Burnet).
Tale tre criteri, aiutati con il confronto con le altre fonti (Aristofane,
Sernofonte, Aristotele), fortunatamente si confermano in gran parte
a vicenda. Alla «questione socratica» sono state peraltro date le
soluzioni più differenti, che oscillano tra i due estremi di attribuire
al Socrate storico tutto il contenuto dei dialoghi di Platone (John
Burnet) e di negare qualsiasi possibilità di ricostruirne le idee
(Olof Gigon). Fine dell'integrazione
3.2 La sapienza umana
In un brano ambientato nell'ultimo colloquio con i suoi discepoli
prima della morte, Platone mette in bocca a Socrate una significativa
autobiografia intellettuale:
Da giovane ... , Cebete, -- disse -- desideravo in maniera incredibile
quella sapienza che chiamano indagine
sulla natura (perí phýseos historía). Mi pareva
infatti straordinario conoscere le cause di ciascuna cosa, perché
ciascuna nasca e perché muoia e perché sia. ... Ma sforzandomi d'investigare
i fenomeni del cielo e della terra, finii per convincermi d'essere
per natura completamente inetto a queste indagini. E te ne dirò
una prova sufficiente: anche in quelle cose, dove prima sapevo chiaramente
(almeno come pareva a me e agli altri), per effetto di quelle indagini
divenni addirittura cieco, tanto da disimparare perfino ciò che
prima credevo di sapere. ...
Però, avendo un giorno sentito un tale leggere un libro (come disse)
di Anassagora, e dire che c'è un intelletto
ordinatore e causa di ogni cosa, questa causa mi piacque, e
mi parve in un certo senso giusto che l'intelletto fosse causa di
tutto, e credetti che, se così è, l'intelletto, nell'ordinare tutte
le cose, dovesse ordinarle e disporle il meglio possibile. Se dunque
uno vuole trovare la causa di ciascuna cosa, come nasca o muoia
o sia, è necessario che trovi questo: quale sia il modo migliore
o d'essere o di subire o di fare qualsiasi cosa. ...
Ma da una meravigliosa speranza, amico, mi allontanavo quando,
procedendo nella lettura, vedevo che quell'uomo, non avvalendosi
per nulla dell'intelletto, non gli attribuiva neanche una causa
nell'ordinare le cose, ma indicava l'aria, l'etere, l'acqua e tante
altre cose strane. ... Ora io, per comprendere come sia questa causa,
molto volentieri sarei diventato discepolo di chicchessia; ma poiché
me ne vidi privo, e non fui in grado né di trovarla da me né d'impararla
da altri, vuoi che ti esponga, Cebete, come mi sia messo «a forza
di remi» alla ricerca della vera causa?
Certo che lo voglio, Socrate, con molto piacere! -- rispose Cebete.
Dopo di ciò -- riprese -- sfiduciato di osservare le cose che sono,
mi parve che io dovessi starne in guardia per non subire ciò che
subiscono quelli che guardano e osservano il solo durante un'eclissi.
Alcuni infatti si rovinano gli occhi, se non ne guardano l'immagine
o nell'acqua o in qualcosa di simile. Di un tale pericolo mi preoccupai
anch'io, e temetti di diventare completamente cieco nell'anima,
guardando le cose con gli occhi e tentando di raggiungerle con ciascuno
dei sensi. Così mi parve di dovere rifugiarmi nei discorsi (lógoi)
e indagare in essi la verità delle cose che sono. Forse il modo
in cui raffiguro in un certo senso non è adeguato: perché non ammetto
molto che colui che osserva in immagini le cose
che sono le osservi di più di colui che le guarda in realtà.
Ma comunque in questo modo presi le mosse e, supponendo ogni volta
il discorso che giudico più forte, le cose che mi paiono d'accordo
con esso, le considero veramente esistenti, si tratti di cause o
di qualsiasi altra cosa; le cose che non mi paiono tali, non vere
(Fedone, 96 a6 -- 100 a7 [greco]).
La delusione nei confronti della fisiologia di Anassagora convince
dunque Socrate che è necessaria un'indagine fondata sui discorsi e
sulla loro coerenza. Il discorso (lógos) appare qui
come un ripiego nei confronti di una presunta «sapienza» che in realtà
non riesce a mantenere le proprie promesse e si mostra insufficiente
ad un'analisi più attenta. L'insoddisfazione di Socrate non riguarda
tuttavia soltanto le «nuove» sapienze, ma coinvolge tutte le pretese
conoscitive: i dialoghi di Platone lo mostrano scettico anche nei
confronti della sapienza poetica
e religiosa. Le ultime parole dell'Apologia (l'autodifesa
di fronte al tribunale di Atene) lo dipingono incerto perfino sull'eventuale
sorte dopo la morte: «Ormai è venuta l'ora di andare: io a morire,
voi a vivere. Ma chi di noi vada verso ciò che è meglio, è oscuro
a tutti tranne che al dio» (42 a2-5 [greco]).
Proprio questo scetticismo viene tuttavia rivendicato da Socrate come
la qualità che lo rende migliore dei propri interlocutori. Nella stessa
Apologia tale carattere viene presentato (probabilmente
in modo romanzato) come una conseguenza di un enigmatico responso
dell'oracolo di Delfi:
Io, o Ateniesi, per nient'altro mi sono acquistato questa fama,
se non per una certa sapienza. Ma quale sapienza? Forse una sapienza
umana. E in questa temo davvero d'essere sapiente. ... E di questa
mia sapienza -- se è davvero tale -- vi porterò a testimone il dio
che sta a Delfi. Cherefonte [un amico di Socrate] ... una volta,
andato a Delfi, osò interrogare l'oracolo su questo -- e, come ho
detto, non fate chiasso, cittadini -- e domandò se ci fosse qualcuno
più sapiente di me. Ebbene, la Pizia rispose che più sapiente non
c'era nessuno. ...
Io, udito ciò, cominciai a pensare così: «Che cosa mai intende
il dio e che cosa mai significa il suo enigma? Perché, quanto a
me, so bene di non essere sapiente né molto né poco. Che cosa dunque
vuol dire, quando afferma che io sono il più sapiente? Che menta
non è possibile, perché non gli è lecito». E per lungo tempo rimasi
in dubbio che cosa mai volesse dire. Poi, molto a malincuore, cominciai
a cercare il significato delle sue parole in questo modo: me n'andai
da uno di quelli che sembrano sapienti, fiducioso di potere almeno
così dimostrare l'errore dell'oracolo e dire chiaramente al responso:
«Quest'uomo è più sapiente di me, e tu dicevi che ero io!» Esaminando
dunque a fondo quest'uomo (è inutile farne il nome: era, o Ateniesi,
uno degli uomini politici con cui mi capitò di parlare e ragionare)
mi sembrò che quest'uomo sembrasse sapiente a molti altri e soprattutto
a sé stesso, ma in realtà non lo fosse. E allora mi sforzai di dimostrargli
che egli credesse d'essere sapiente, ma non lo fosse; e perciò mi
inimicai lui e molti dei presenti. Così, andandomene via, pensavo
tra me e me: «Io sono più sapiente di quest'uomo. Infatti temo che
nessuno di noi due sa nulla di eccellente; ma costui crede di sapere
chissà che e non sa, mentre io, come non so, non credo neanche di
sapere. E perciò forse io sono almeno in questa piccola cosa più
sapiente di lui: ciò che non so, neanche credo di saperlo». E di
lì me ne andai da un altro di quelli che sembravano essere anche
più sapienti del primo, ed ebbi la stessa impressione, e così mi
inimicai anche lui e molti altri (Apologia, 20 d6 --
23 c1 [greco]).
Il «sapere di non sapere» delimita dunque per Socrate i limiti della
«sapienza umana», al confronto della quale la «sapienza divina» viene
accantonata non perché inesistente, ma perché di fatto non raggiunta
dall'uomo. È ovvio dunque che Socrate non pretendesse alcuna ricompensa
per il proprio «insegnamento», che egli per primo non riteneva tale.
La polemica contro la presunta venalità dei sofisti è probabilmente
opera del suo discepolo Platone ed è mossa molto più da motivi politici
che da generiche remore morali: l'insegnamento a pagamento non solo
è quello che permette di essere esercitato per professione a chi non
vive di rendita, ma anche quello che apre le porte della cultura superiore
a chiunque abbia sufficienti possibilità.
Le testimonianze paiono attendibili nel riconoscere a Socrate l'uso
di una particolare tecnica linguistica: quella che richiede la spiegazione
del significato di un termine tramite la domanda «che cos'è?». Tale
domanda nei dialoghi di Platone la si vede applicata soprattutto ai
nomi del lessico morale: che cos'è il coraggio? che cos'è la virtù?
che cos'è l'amicizia? che cos'è la bellezza? Nel dibattito che segue,
Socrate si mostra sempre insoddisfatto delle risposte effettuate tramite
esempi: l'unica vera soluzione sarebbe quella che indica un carattere
universale, quello cioè grazie al quale le cose possono essere dette
coraggiose, virtuose, amiche, belle e così via. Ma proprio l'impossibilità
di raggiungere un risultato soddisfacente mostra quanto siano illusorie
le pretese della sapienza umana. Ecco i termini tecnici con cui Aristotele
riassumerà questo importante aspetto del metodo di Socrate:
[Socrate] con buone ragioni cercava il «che cosa». Cercava infatti
di dedurre, e il principio della deduzione è il «che cosa» (infatti
il vigore dialettico allora non era tale da poter indagare anche
indipendentemente dal «che cosa» i contrari e se dei contrari fosse
unica la scienza). Due sono infatti le cose che si possono attribuire
a Socrate: i discorsi induttivi e la definizione dell'universale;
entrambe queste cose infatti riguardano il principio della scienza.
Ma Socrate [diversamente da Platone] non considerava separati gli
universali e neppure le definizioni (Metafisica, 13.4,
1078 b23-31 [greco]).
La dichiarazione d'ignoranza di Socrate, benché sviluppi alcuni elementi
tipici della religiosità greca («Conosci te stesso [gnóthi
sautón]», il motto di Delfi,
era anzitutto un invito al riconoscimento dei propri limiti), costituisce
tuttavia anche una novità in un panorama culturale iin cui si sottolineava
la possibilità dell'insegnamento. Tutto ciò spiega
il fraintendimento che meritò a Socrate la frequente accusa di operare
«dissimulazione» (eironéia), cioè di tenere segreto
un sapere che egli fingerebbe solo di non avere:
Dunque, da questa indagine, o Ateniesi, mi giunsero tante inimicizie,
e così aspre e gravi, da nascerne molte calunnie e questa fama secondo
cui sarei sapiente. Perché ogni volta i presenti credono che io
sappia quelle cose riguardo alle quali dimostro che gli altri sbagliano,
mentre, o cittadini, temo che il sapiente sia in realtà il dio,
e che con quel sua responso egli abbia voluto dire questo: che la
sapienza umana vale poco o niente; e pare evidente che non intenda
parlare di me Socrate, ma si valga del mio nome a mo' d'esempio,
quasi volesse dire: «Il più sapiente tra voi, o uomini, è uno che
come Socrate abbia capito di non valere assolutamente nulla quanto
a sapienza». E perciò questa ricerca e questa indagine secondo l'intenzione
del dio io vado intorno tuttora a farla su chiunque, cittadino o
straniero, io creda sapiente; e dopo che non mi sembra, venendo
in aiuto del dio dimostro che non è sapiente. E per questa occupazione
mi è mancato il tempo di far nulla di cui meriti parlare, tanto
nella vita pubblica quanto nella privata, ma vivo nella maggiore
povertà per onorare il dio (Apologia, 20 d6 -- 23 c1
[greco]).
3.3 Il dialogo
Il ricorso al discorso come «ripiego» per cercare la verità, o perlomeno
per dissolvere le false certezze, implica una profonda innovazione
nello spirito della dialettica che Socrate peraltro condivide con
l'ambiente sofistico. La dialettica di Socrate non è più uno strumento
agonistico per dimostrare la propria superiorità sull'interlocutore,
ma piuttosto un mezzo per chiarire l'oggetto della discussione:
Credo, Gorgia, che anche tu sia esperto di molti discorsi e abbia
osservato in essi una tale cosa: che non è facile che abbiano la
capacità, dopo aver definito l'uno all'altro ciò su cui intendono
dialogare, di sciogliere gli incontri dopo aver imparato e insegnato
a sé stessi; ma se disputano su qualcosa e l'uno afferma che l'altro
non parli correttamente né chiaramente, la prendono a male e ritengono
che ciò che dicono nasca per invidia (katá phthónon),
poiché amano la vittoria (philonikóuntas) ma non
cercano ciò che ci si è proposti nel discorso. E taluni finiscono
per congedarsi nella maniera più vergognosa, dopo essersi insultati
e aver pronunciato e aver ascoltato a proposito di essi stessi cose
tali che anche i presenti se la prendono con sé stessi, per aver
giudicato bene divenire ascoltatori di uomini tali.
E per quale scopo dico queste cose? Perché ora tu mi pari dire
cose né un granché consequenziali né coerenti con quelle che dicevi
prima sulla retorica. Temo dunque di confutarti, che tu non supponga
che io non sia amante di vittoria nei confronti della cosa stessa,
perché diventi chiara, ma nei confronti tuoi (ou pros
to prágma philonikóunta ... allá pros sé). Io dunque, se anche
tu sei di quella specie di persone delle quali sono anch'io, t'interrogherei
volentieri; altrimenti, lascerei stare.
E io a che specie di persone appartengo? A quelli che con piacere
si lasciano confutare (se dico qualcosa di non vero) e che con piacere
confutano (se qualcuno dice qualcosa di non vero); e non hanno meno
piacere d'essere confutati che di confutare. Infatti ritengo l'essere
confutato bene maggiore quanto è bene maggiore essere liberati che
non liberare dal più grande dei mali. E penso che niente sia per
l'uomo un male tanto grande quanto una falsa opinione su ciò di
cui ora ci troviamo a ragionare. Se dunque anche tu ti riconosci
di essere a questo modo, allora discorriamo; se invece ti pare che
si debba smettere, lasciamo perdere e sciogliamo il discorso (Gorgia,
457 c4 -- 458 b3 [greco]).
Mentre dunque il metodo fondamentale della dialettica (la riduzione
all'assurdo tramite il principio di non contraddizione) viene mantenuto,
l'intero processo della discussione risulta spersonalizzato, essendo
privato della spinta dell'«amor di vittoria (philonikía)».
La discussione non termina quindi con un vincitore e un perdente,
giacché dell'eventuale conclusione del dialogo entrambi si gioveranno
allo stesso modo:
Socrate: Almeno io credo che sia necessario che tutti
facciamo a gara nel sapere che cosa è vero e che cosa è falso riguardo
a ciò che diciamo: infatti è un bene comune per tutti che ciò divenga
chiaro. Proseguirò dunque nel discorso, come mi pare che stiano
le cose: e se ad uno di voi sembrerà che io mi contraddica riguardo
al nostro tema, bisogna che interrompa e confuti. Infatti neanche
io dico ciò che dico perché lo so, ma cerco insieme a voi, cosicché,
se apparirà che chi discute con me dica qualcosa di importante,
io per primo vi consentirò (Gorgia, 505 e4 -- 506 a6
[greco]).
Bisogna però osservare che nel «dialogo» di Socrate non c'è nulla
che consenta di rispettare e valorizzare le opinioni in quanto tali
degli interlocutori. La coerenza deve essere l'unico criterio, e l'obiettivo
finale non può che essere la demolizione delle concezioni false, proprie
o altrui:
Socrate: Queste cose che, come dico, ci sono prima apparse
nei discorsi precedenti, sono tenute insieme e legate -- anche se
è un po' duro da dire -- con discorsi ferrei e adamantini, così
come almeno sembra; e se tu (o altri più giovanile di te) non riesci
a dissolverli, non è possibile che uno, dicendo cose diverse da
quelle che ora affermo io, dica bene. Poiché il mio discorso è sempre
lo stesso: io non so come stiano le cose, ma in verità, tra tutti
coloro che come adesso ho incontrato, nessuno è capace, parlando
diversamente, di non essere ridicolo. Io dunque ancora ritengo che
queste cose stiano così (Gorgia, 508 e6 -- 509 b1 [greco]).
È ovvio dunque che anche il consenso di un uditorio più vasto non
possa giocare alcun ruolo:
Polo: Non credi di essere già confutato, Socrate, quando
dici cose tali che nessun uomo affermerebbe? Domanda infatti ad
uno qualsiasi di questi!
Socrate: Polo, io non sono un politico, e l'anno scorso,
estratto a sorte come membro del Consiglio, quando la mia tribù
ebbe la pritania e io dovevo far votare, feci ridere e non sapevo
far votare. Dunque non mi chiedere neanche ora di far votare i presenti.
Ma se non hai una confutazione migliore di queste, come ti ho detto
poco fa, lascia a me questo ruolo, e sperimenta quale dev'essere
secondo me una confutazione. Io infatti delle cose che dico so produrre
un solo testimone: proprio colui al quale di volta in volta è rivolto
il discorso. I molti li lascio in pace, e so far votare una sola
persona. Con i molti neanche dialogo (Gorgia, 473 e5
-- 474 b1 [greco]).
La notazione di metodo si intreccia qui con una chiara
presa di posizione politica: i «molti (pollói)»
non sono soltanto gli uditori occasionali di una discussione, ma anche
il «popolo» cui spettano le decisioni nella città democratica. L'impossibilità
di condurre una discussione serrata con il popolo, per accertare la
verità su un oggetto, è dunque un motivo essenziale di critica verso
l'ordinamento politico di Atene. Da qui anche l'avversione di Socrate
nei confronti del «parlare lungo» (makrología),
il quale è tipico dei discorsi orientati alla ricerca di consenso,
e la preferenza nei confronti del «parlare breve» (brachylogía),
che consente un'analisi serrata fatta di domande e risposte:
Socrate: Caro Protagora, mi trovo ad essere un uomo smemorato,
e se mi parla a lungo dimentico pure l'argomento del discorso. Come
dunque, se io fossi un po' sordo, per ragionare con me crederesti
necessario alzare la voce più che con gli altri, così anche ora,
poiché ti sei imbattuto in uno smemorato, riassumi le risposte a
fàlle più brevi, se ti devo seguire (Protagora, 334
c8-d5 [greco]).
3.4 L'arte ostetrica e la cura dell'anima
Il carattere personale del dialogo di Socrate sposta l'accento dalla
«persuasione (peithó)» ad altri
effetti che rivestono carattere contemporaneamente conoscitivo e morale.
Il primo (tanto tipico di Socrate da essere messo in burla già da
Aristofane) è descritto con la metafora dell'«arte ostetrica (maieutiké)»:
La mia tecnica ostetrica in tutto il resto somiglia a quella delle
levatrici, ma ne differisce in questo: che si esercita non sulle
donne, ma sugli uomini, e riguarda non i corpi, ma le anime che
partoriscono. Ma la cosa più importante della mia tecnica è che
può esercitare ogni tipo di tortura per vedere se la mente del giovane
partorisce fantasma e menzogna, o qualcosa di vitale e vero. Poiché
io ho anche questo in comune con le levatrici: che sono sterile
di sapienza, e ciò che già molti mi rimproverano, che cioè io interrogo
gli altri ma non rivelo nulla perché non ho nulla di sapiente da
esporre, è rimprovero giusto. E la ragione di ciò è questa: il dio
mi costringe a fare da ostetrico, ma mi ha impedito di generare.
Per conto mio, dunque, io non sono affatto sapiente, né c'è alcuna
scoperta che sia parto della mia anima; di quelli però che mi frequentano,
dapprima alcuni paiono anche molto incolti, ma tutti poi, continuando
la compagnia, ne traggono -- quelli a cui il dio lo concede -- qualcosa
di meraviglioso, come pare a loro stessi e agli altri. Ed è evidente
che ciò avviene senza che abbiano imparato mai nulla da me, bensì
perché da loro stessi hanno trovato e partorito molte belle cose.
Ma dell'averli aiutati a partorire, di questo certo il merito è
del dio e mio (Teeteto, 150 b6 -- 150 e1 [greco]).
Alla non sapienza corrisponde dunque la capacità che egli possiede,
tramite il dialogo, di condurre l'interlocutore alla verità che perfino
Socrate stesso non possiede. Un secondo carattere risiede nella esigenza
di onestà intellettuale che il dialogo impone:
Nicia: Chiunque s'avvicina a Socrate ed entra in discorso
con lui, qualunque sia l'argomento di cui si comincia a dialogare,
trascinato dalle sue parole non riesce in nessun modo a liberarsene,
se prima non giunge a rendergli conto di sé stesso, di come ora
viva e di come abbia prima vissuto; e che, quando l'altro ci sia
giunto, Socrate non se lo lascia sfuggire dalle mani prima d'averlo
torturato ben bene su tutte queste cose. Io ho consuetudine con
lui, e so che è necessario subire da lui queste cose, e so bene
che anche ora le subirò (Lachete, 187 e6 -- 188 a5
[greco]).
L'esigenza di onestà trova la sua più tipica espressione nell'invito
alla «cura dell'anima (epiméleia tes psychés)»:
Ateniesi, vi onoro e vi voglio bene, ma obbedirò più al dio che
a voi, e finché avrò respiro e ne sarò in grado non smetterò certo
di far filosofia e di esortarvi e di esporre il mio pensiero a chiunque
di voi io incontri, dicendogli come sono solito: «O Ateniese, migliore
tra gli uomini, della città più grande e più illustre per sapienza
e forza, non ti vergogni di curarti delle ricchezze, come averne
il più possibile, e dell'opinione e e degli onori, mentre della
saggezza, della verità e dell'anima, come renderla migliore possibile,
non ti curi né ti dài pensiero?» ... Per nessun altro scopo io vado
intorno, se non per persuadère sia i giovani sia gli anziani tra
voi a non curarsi né dei corpi né della ricchezze, prima e con altrettanto
ardore che dell'anima, per far sì che sia la migliore possibile,
dicendovi che non da ricchezza nasce virtù, ma da virtù nasce agli
uomini ricchezza e tutti gli altri beni, sia in privato che in pubblico
(Apologia, 29 d3-e3; 30 a7-b4 [greco]).
Benché tali parole sicuramente risentano anche delle idee di Platone
(che le riferisce), la centralità del concetto di «anima (psyché)»
è probabilmente originaria di Socrate. Sulla sua bocca infatti sembra
realizzarsi per la prima volta in tale termine la fusione tra il concetto
religioso-morale di «spirito di origine divina» e il concetto
naturalistico di «consapevolezza intellettuale». Proprio questa
fusione può essere all'origine della decisione con cui Socrate sostiene
il cosiddetto «intellettualismo etico», cioè la coincidenza tra moralità
e conoscenza. Il male, così egli spesso argomenta, può essere commesso
solo per ignoranza, cioè perché la ragione non valuta esattamente
quale sia la reale natura di un'azione. Questa equivalenza viene esplicitamente
testimoniata anche da Aristotele, il quale attribuisce a Socrate l'idea
che «ciascuna virtù fosse scienza, cosicché per lui era tutt'uno conoscere
la giustizia ed essere giusto. Nello stesso momento infatti che abbiamo
appreso la geometria e l'architettura noi siamo geometri e architetti.
Per questo egli indagava che cos'è la virtù, ma non come si genera
e da quali cose» (Etica Eudemia, 1.5, 1216 b2-10 [greco]).
Ecco come si esprime Socrate in una discussione con Protagora e altri
sofisti:
Tutte le azioni dirette a procurarci una vita priva di dolori e
piacevole non sono forse belle? E l'azione bella non è anche buona
e utile?
Furono d'accordo.
Se dunque -- dissi -- il piacere è bene, non ci sarà nessuno il
quale, sapendo o credendo che ci sono cose migliori di quelle che
egli fa, e possibili, faccia poi quel che fa, potendo far meglio;
e l'essere vinto da sé non è che ignoranza, come il vincere sé non
è che sapienza.
Tutti furono d'accordo.
E allora? L'ignoranza non dite voi che consiste nell'avere un'opinione
falsa e nell'ingannarsi nelle cose di molta importanza?
Anche su ciò furono tutti d'accordo.
Dunque -- dissi -- ai mali nessuno va incontro di sua iniziativa
(hekón), né a quelli che crede mali; e non è, pare,
nella natura umana il volere andare incontro a ciò che si reputa
male invece che al bene; e quando uno sia costretto a scegliere
uno tra due mali, nessuno sceglierà il maggiore, potendo scegliere
il minore?
Su tutte queste cose tutti noi fummo d'accordo (Protagora,
358 b3-d4 [greco]).
Oltre all'equivalenza tra virtù e conoscenza spicca qui la grande
importanza data al piacere e al dolore come criteri di moralità. Essi
possono svolgere questo ruolo proprio perché la ragione è in grado
di soppesare correttamente le conseguenze di un'azione, riconoscendo
che a volte cose sul momento piacevoli o spiacevoli conducono in realtà
alla lunga a condizioni contrarie.
Integrazione: L'intellettualismo etico, peraltro coerente
con una vasta tendenza del mondo
greco, pone evidenti problemi quando viene accostato allo scetticismo
espresso dal «sapere di non sapere». Come è
possibile essere veramente virtuosi se la sapienza non è alla portata
dell'uomo? In effetti, in momenti decisivi della vita Socrate attribuisce
le proprie scelte ad un «segno demonico», una sorta di voce interiore
che è una istanza palesemente irrazionale. Ma neppure essa costituisce
fonte di conoscenza, perché il suo ruolo si limita al «trattenere
nel momento di agire» (Fedro, 242 c1 [greco]),
cioè a proibire azioni cattive. L'eredità di Socrate non poteva
essere raccolta senza affrontare questo problema, come farà tra
gli altri Platone. Fine dell'integrazione
- Fabio Polidori, «Socrate
analista», Etica
e politica, vol. 1, n. 1 (luglio 1999), http://www.univ.trieste.it/~dipfilo/etica_e_politica/1999_1/polidori.html.
- Antonio Dalla Libera, «La
dialettica evoluta tra erudizione ed umanesimo», Dialegesthai,
anno 3 (2001).
- W. T. Schmid, «Socratic
Paideia: How It Works and Why It So Often Fails», The
Paideia Project, http://www.bu.edu/wcp/Papers/Teac/TeacSchm.htm.
- Anne-Marie Bowery, «Responding
to Socrates' Pedagogical Provocation», The
Paideia Project, http://www.bu.edu/wcp/Papers/Anci/AnciBowe.htm.
- Menahem Luz, «Antisthenes'
Concept of Paideia», The
Paideia Project, http://www.bu.edu/wcp/Papers/Anci/AnciLuz.htm.
4. Antifonte di Ramnunte
Ramnunte, circa 480 a.C.
-- Atene, 411 a.C. Inaugurò la
grande tradizione retorica ateniese e si procurò fama come scrittore
di discorsi per conto altrui. I suoi molteplici interessi lo portarono
a comporre anche opere di carattere fisico, etico e politico (fino
a poco tempo fa attribuite ad un omonimo «Antifonte il sofista»).
Nel 411 a.C. ispirò la congiura
che portò all'effimero governo oligarchico dei Quattrocento, caduto
il quale fu processato e condannato a morte. Scrisse numerose orazioni
(alcune a carattere didattico, le Tetralogie), Sulla
verità, Sulla concordia, Sull'interpretazione
dei sogni.
4.1 La natura e l'uomo
I pochi frammenti conservati dell'importante opera Sulla verità
consentono solo a fatica di formarsi un'idea del pensiero di Antifonte,
che doveva attraversare tutti i campi del sapere all'epoca coltivati:
fisica, antropologia, teoria della conoscenza, etica, politica. Una
testimonianza di Aristotele può costituire però un buon punto di partenza:
Pare ad alcuni che la natura (phýsis) e l'esistenza
delle cose che sono per natura sia l'elemento primo che inerisce
in ciascuna, che di per sé è informe (arrhýthmiston):
per esempio la natura del letto è il legno, della statua è il bronzo.
Segno di ciò, dice Antifonte, è il fatto che se si seppellisse un
letto e la putredine del legno acquistasse la capacità di mettere
germoglio, non nascerebbe un letto, ma legno, poiché ciò che inerisce
alle cose per accadimento (katá symbebekós) è la
disposizione secondo una norma (ten katá nómon diáthesin)
e la tecnica, mentre l'esistenza (ousía) è quella
che attraversa queste cose e permane costantemente (Fisica
1.1, 193 a9-17 = DK 87 B 15).
Malgrado la somiglianza con le concezioni
di tipo naturalistico diffuse nella nuova cultura ateniese, l'affermazione
di Antifonte non sembra equivalervi. Essa è infatti percorsa da un
deciso pessimismo sulla consistenza delle «cose» così come esse ci
appaiono: tutto ciò che in esse è forma (rhythmós),
norma (nómos), individualità, è destinato a scomparire
dietro ad un'anonima materia «naturale» che rimane sempre identica.
La giustezza di questa interpretazione è confermata da alcuni frammenti
in cui la vita umana viene considerata con malinconia:
La vita assomiglia ad un'effimera vigilia, la lunghezza della vita,
per così dire, ad un solo giorno; nel quale, appena dato uno sguardo
alla luce, lasciamo la consegna agli altri che sopravverranno (DK
87 B 50).
Non ci è permesso giocare un'altra volta la vita come una pedina
(DK 87 B 52).
Mirabilmente si presta ad accusa ogni forma di vita, mio caro,
poiché nessuna ha nulla di elevato, o di grande o di venerando:
ma tutto vi è di piccolo, debole, di breve durata, e mescolato a
grandi dolori (DK 87 B 51).
La consapevolezza della precarietà della vita, se da una parte induce
Antifonte per esempio a considerazioni ironiche sull'accumulo di ricchezze
che non possono essere neppure godute (DK 87 B 53-54), dall'altra
lo spinge a valorizzare quegli elementi nella vita umana più vicini
alla sua dimensione psicologica e naturale. È così che riguardo alla
formazione si sottolinea il valore delle compagnie (DK 87 B 62) e
delle abitudini contratte fin da piccoli (DK 87 B 61), e la stessa
forza dell'educazione viene interpretata in termini naturali:
La cosa principale, credo, negli uomini, è l'educazione. Perché
quando, uno ha compiuto bene l'inizio di qualsiasi cosa, è verosimile
che finisca anche bene; così per la terra, quale è il seme che uno
ha seminato, tali dovrà aspettarsi anche i frutti; e allo stesso
modo per un corpo giovane, quando uno vi abbia seminato una nobile
educazione, questa vegeta e fiorisce per tutta la vita, e né la
pioggia né la siccità la distrugge (DK 87 B 60).
In questo stesso quadro possono essere comprese due testimonianze
che fanno di Antifonte l'inventore di una terapia contro le sofferenze
dell'animo effettuata tramite la parola (della quale poco prima Gorgia
aveva teorizzato il potere) e l'autore di un'opera Sull'interpretazione
dei sogni, in cui probabilmente la tradizionale lettura religiosa
veniva abbandonata a favore di una interpretazione psicologica.
4.2 Natura e legge
L'inserimento di questa visione dell'uomo nel campo politico pone
Antifonte al centro di uno dei dibattiti più acuti nell'Atene contemporanea:
quello riguardante il contrasto tra natura e legge,
tra ciò che è spontaneo e ciò che viene prescritto esteriormente.
In un importante frammento, Antifonte esordisce osservando come il
concetto corrente di «giustizia» sia insufficiente per comprendere
quale sia l'effettivo bene dell'uomo:
«Giustizia» consiste nel non trasgredire alcuna delle leggi della
città di cui uno sia cittadino; e perciò l'uomo applicherà nel modo
a lui vantaggioso la giustizia, se farà gran conto delle leggi,
di fronte a testimoni; ma in assenza di testimoni, delle norme di
natura; perché le norme di legge sono accessorie, quelle di natura,
necessarie; quelle di legge sono concordate, non native: quelle
di natura, sono native, non concordate. Perciò, se uno trasgredisce
le norme di legge, finché sfugge a quelli che le hanno concordate,
va esente da vergogna e da pena; se non sfugge, no. Ma se invece
violenta oltre il possibile le norme poste dalla natura, se anche
sfugge a tutti gli uomini, non minore è il male, né è maggiore se
anche tutti lo sanno; perché è danneggiato non dall'opinione, ma
dalla verità (DK 87 B 44 A).
Insomma, solo la natura, quella che «permane costantemente»,
può essere il punto di riferimento per guidare l'uomo verso ciò che
gli è utile, giacché il più delle volte la legge convenzionale è appunto
contro di essa:
Questo essenzialmente è l'oggetto della nostra indagine, che cioè
la maggior parte di quanto è giusto secondo legge, si trova in contrasto
con la natura; così per legge è prescritto agli occhi ciò che debbono
guardare e ciò che no; alle orecchie ciò che debbono udire e ciò
che no; alla lingua ciò che deve dire e ciò che no; alle mani, ciò
che debbono fare e ciò che no; ai piedi, dove debbono andare e dove
no; e alla mente, ciò che deve desiderare e ciò che no. Eppure alla
natura non sono né più amiche né più appropriate le cose che le
leggi vietano agli uomini, di quelle che esse prescrivono. Perché
tanto la vita che la morte son cose di natura; e la vita proviene
agli uomini da ciò che è utile, la morte da ciò che è dannoso. E
quanto all'utile, ciò che è prescritto dalla legge è una catena
per la natura, ciò che è prescritto da natura è libero; dunque non
è logico che ciò che dispiace giovi alla natura più di ciò che piace;
né, perciò, può essere più utile il dolore del piacere. Perché ciò
che è utile davvero, deve recar giovamento, non danno (DK 87 B 44
A).
Nel seguito del frammento Antifonte esemplifica tale principio grazie
ad un'analisi della procedura giudiziaria. Le sue norme solo apparentemente
sono eque: in primo luogo esse dànno per ovvio che possano essere
perpetrate offese, in secondo luogo non tutelano affatto l'offeso
perché lo costringono a difendere i suoi diritti dinanzi ad un tribunale,
con il pericolo che il discorso dell'offensore risulti più persuasivo,
mentre i testimoni da parte loro rischiano di attirare su di sé ritorsioni
e risentimento.
La prevalenza della natura sulla legge è anche il punto di partenza
per un'affermazione sull'uguaglianza naturale dei popoli. Mentre viene
dato per ovvio che i Greci siano il popolo più intelligente, si sostiene
anche che la loro superiorità non deriva dalla natura (ma -- si può
per esempio intendere -- dall'educazione):
Noi rispettiamo e veneriamo chi è di nobili padri, ma chi è di
famiglia plebea, né lo rispettiamo, né l'onoriamo. In questo, siamo
diventati gli uni verso gli altri come barbari. Per natura infatti
tutti siamo assolutamente adatti ad essere sia Greci sia barbari.
Basta osservare le necessità naturali proprie di tutti gli uomini:
è ugualmente possibile a tutti procurarsele e in tutte queste nessuno
di noi può esser definito né come barbaro né come greco. Tutti infatti
respiriamo l'aria con la bocca e con le narici e tutti noi mangiamo
con le mani (DK 87 B 44 B).
Integrazione: Affermare l'uguaglianza naturale non implica
dunque sposare le tesi della democrazia: pare certo che l'autore
di queste considerazioni è proprio lo stesso Antifonte che venne
condannato a morte per aver sostenuto un colpo di stato aristocratico.
In effetti, lo spazio dell'educazione può creare quelle differenze
che rendono preferibile un sistema politico in cui al governo siano
solo i pochi «migliori». Una posizione analoga si può ravvisare
nel sofista Ippia: anche a lui Platone fa pronunciare una dichiarazione
sull'universale fratellanza degli uomini conclusa da una presa di
distanza dagli uomini «peggiori»:
Uomini qui presenti, io credo che voi siate tutti quanti parenti
e famigliari e cittadini per natura, non per legge; perché per
natura il simile è parente del suo simile, mentre la legge, che
è tiranna degli uomini, commette molte violenze contro natura.
Ora dunque è indecoroso che noi -- pur conoscendo la natura delle
cose essendo i più sapienti dei Greci, e proprio per questo ora
convenuti nel pritaneo stesso della sapienza della Grecia e per
di più nella casa più grande e più nobile di questa città -- non
esprimiamo nulla degno di tanta dignità, ma ci distinguiamo l'uno
dall'altro come fanno i peggiori degli uomini (Protagora,
337 c7-e2 [greco]).
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