Teologia e potere: Nicolò Cusano di Antonio David

 

L'incomprensibilità di Dio e del potere

Alla profonda crisi attraversata dalla Chiesa tra il Trecento e il Quattrocento non si poteva più ovviare con le tradizionali armi teoretiche, anch'esse messe in discussione dall'evoluzione della tarda scolastica che aveva sganciato la logica dalla teologia. L'emergere in tutti i campi culturali di una mentalità razionale che assegnava il primato alla comprensibilità e al calcolo ha come ripercussione una filosofia profondamente laicizzata nei cui termini andavano poste le questioni della legittimazione del potere. Di fronte all'alternativa tra assertori del primato del Papa e del primato del Concilio, Nicolò Cusano si schiera tra i primi, affermando che nel Papa è «complicata», cioè concentrata e riassunta, la realtà dell'intera Chiesa. 

Con il concetto di «complicazione» Cusano connette la sua teoria politica al cuore della speculazione filosofica. Ispirandosi alla tradizione della mistica neoplatonica, egli ritiene che Dio sia al di là della possibilità di comprensione dell'uomo, in quanto in lui si trovano riassunte le determinazioni contraddittorie: egli è il tutto perché ogni realtà è «complicata» in lui, è il nulla perché non si identifica con nessuna delle cose determinate. Il modello speculativo per eccellenza è offerto dalla matematica, che nel suo tentativo di pensare l'infinito si scontra già in paradossi simili. Ma questi sono anche gli stessi paradossi che si incontrano quando si tenta di comprendere il senso del potere del Papa. Ricevuto direttamente da Dio a servizio dell'armonia di tutta la Chiesa, esso dunque si autolegittima e può essere solo valutato realisticamente in base ai suoi effetti. 

L'Autore: Antonio David dal 1991 insegna Filosofia e Storia nel liceo linguistico, sezione sperimentale del liceo scientifico «Archimede» di Messina.. 

 

1. La legittimazione del potere

Nicolò Cusano (Kues 1401 -- Todi 1454) fa la sua comparsa come teologo ufficiale della Chiesa di Roma nel 1433 con la pubblicazione del De concordantia catholica, durante la sua partecipazione al concilio di Basilea (1431-1449). In verità, Cusano si era recato a Basilea per perorare la nomina come arcivescovo di Treviri del suo protettore, il conte Ulrico di Manderscheid [p], ma finì per rimanere invischiato nel travagliato dibattito che opponeva i conciliaristi ai sostenitori del primato del pontefice.

Nello scritto citato sopra, Cusano paragonava la Chiesa ad un organismo, il quale poteva mantenere la sua sanità solo se nessuna delle parti che lo costituivano avesse preso il sopravvento a detrimento delle rimanenti: una volta che un organo della Chiesa avesse preso una deliberazione, i restanti organi l'avrebbero dovuta accettare pacatamente. Solo così l'organismo ecclesiale avrebbe potuto ottenere un equilibrio armonico. Ma qual era l'organo, all'interno della Chiesa, che avrebbe dovuto prendere le decisioni e quali gli apparati ecclesiali che avrebbero dovuto accettarle? Da ciò che Cusano aveva scritto pareva che il futuro vescovo di Bressanone si fosse schierato dalla parte dei conciliaristi. Le perplessità, però, scompaiono alla luce di una lettera scritta il 20 maggio 1442, che Cusano aveva indirizzato al filosofo e canonista spagnolo, Rodrigo Sánchez de Arévalo [p], dalla dieta di Francoforte, in cui il filosofo sosteneva la causa del primato del papa. In questa lettera Cusano sostiene:

La Chiesa sensibile deve avere un capo sensibile. Il capo di questa Chiesa è il pontefice, che viene assunto dagli uomini. E la Chiesa è in lui in maniera complicata come nel primo e solo confessore di Cristo [...]. L'esplicazione di Pietro, così chiamato da pietra che complica la Chiesa, è quella Chiesa una che partecipa alla medesima confessione nell'alterità della molteplicità dei credenti.

La risposta alla domanda, che avevamo lasciato in sospeso -- anzi che Cusano non aveva ben chiarito -- a proposito del primato sulla Chiesa al tempo del De concordantia catholica, la troviamo proprio nella lettera citata. In quanto la Chiesa è, innanzitutto, «complicata» nel Papa e successivamente esplicitata nell'alterità della molteplicità degli organismi ecclesiastici e dei fedeli, il papa assumeva una rilevanza e un primato indiscutibili. Cusano si schiera perciò esplicitamente per il primato del papa. E lo fa utilizzando termini (complicazione, esplicazione), che erano elementi fondanti della sua teologia, che aveva compiutamente trattato nelle sue due opere più significative: il De docta ignorantia e il De coniecturis, la prima opera datata 1440, la seconda 1442. Il che significava che le considerazioni espresse nella lettera avevano dietro il supporto di una legittimazione teoretica di ordine teologico-filosofico.

Il fatto era che la Chiesa sembrava avere percorso la medesima parabola dell'altra istituzione universalistica, che era l'impero, e che, ai tempi del concilio di Basilea, pareva essere entrata in coma: il potere che le era stato contestato nel temporale prima dai vari imperatori, ma soprattutto dai liberi Comuni, dalle Signorie e dalle monarchie nazionali, come quella francese a partire da Filippo il Bello o quella inglese a partire da Edoardo I, quello stesso potere cominciava ad essere messo in discussione nello spirituale (John Wyclif [p], Jan Hus [p]). E la Chiesa del XV secolo non era più né quella di un Gregorio VII, né quella di un Innocenzo III, i quali non avevano bisogno delle armi della logica per legittimare un potere che dava le vertigini. Nel XV secolo nemmeno le armi della logica, anche se sempre in soccorso della fede, bastavano più per difendere il potere della Chiesa. Da Duns Scoto ad Occam la filosofia si era sganciata dalla teologia per mettersi, magari, al servizio delle nuove scienze borghesi. A Padova, per esempio -- dove Cusano segue i corsi di diritto, conseguendo il titolo di «doctor decretorum», -- si proclama che la Medicina è il sapere, che nella Medicina sta la «philosophia» intera. La cultura si era profondamente laicizzata ed era con questa che bisognava fare i conti.

L'originaria struttura del capitalismo è mutata nel Tre-Quattrocento. Sulla primitiva avidità di guadagno è venuta prevalendo l'idea della convenienza, del metodo, del calcolo, e il razionalismo, che sin dagli inizi distingueva l'economia di profitto, si è fatto assoluto. Di qui, in ogni ramo dello scibile, l'avversione per tutto ciò che sfugge al calcolo e alla prova. Basti pensare all'introduzione nella pittura della «prospettiva centrale», che, rigettando la raffigurazione psico-fisiologica dello spazio, dava di questo una raffigurazione matematicamente esatta, ma irreale, perché il nostro occhio vede curve, non rette. La matematica, infatti, fa progressi straordinari. Alla fine del Medioevo, nel 1494, fra Luca Pacioli scrive la sua famosa Summa de Arithmetica, compendio della conoscenza aritmetica e matematica del mondo del commercio.

In un momento in cui la Chiesa aveva perso la sua forza materiale e le sue tradizionali armi teoretiche non le soccorrevano più per difenderla, bisognava allora fare i conti col presente, trovare nel presente gli strumenti teorici per legittimare l'antico. La Chiesa supererà il tracollo. I vari sovrani, che armeggiavano dietro le quinte del concilio, una volta rassicurati che avrebbero ottenuto dal papa la concessione di un diretto controllo finanziario e amministrativo sulle proprie chiese, appoggeranno il papa e il suo primato nella Chiesa e, così, il pontefice uscirà vincitore. Ma, al tempo del concilio di Basilea, il papato era in uno stato di profonda debolezza politica: bisognava perciò dargli un forte supporto teoretico. A questo scopo sarà rivolto lo sforzo intellettuale di Cusano.

2. Possibilità e impotenza della ragione

Il potere del papa non può essere messo in discussione. Questo era il primo punto da dimostrare. Parlare del potere del papa significava parlare del «potere» per eccellenza, significava parlare della «natura» di Dio, da cui, come suo vicario in terra, il pontefice riceveva il «sacerdotium» pontificale. Se imperscrutabile, arcana, era la natura di Dio, arcano e imperscrutabile era il potere del papa. Del resto, lo stesso Cusano, inviato da Eugenio IV a Costantinopoli per tentare di sanare lo scisma d'Oriente del 1054, e riuscito nell'impresa, probabilmente era effettivamente convinto che il papa interpretasse la volontà di Dio: lo dimostrava il fatto che egli aveva condotto a termine una missione che sembrava impossibile, ma che il papa era sicuro che si sarebbe risolta positivamente. Non era questa forse una prova indiretta della speciale e incomprensibile relazione tra il successore di Pietro e Dio? La natura segreta del potere del pontefice era, quindi, direttamente legata alla natura altrettanto segreta di Dio. Bisognava, perciò, dimostrare l'indecifrabilità razionale di questa natura o meglio l'inconsistenza della sua determinazione secondo l'ottica della ragione e del principio di non contraddizione su cui si basava ogni suo ragionamento. Il che non comportava solo la rottura con i metodi di indagine tradizionali della filosofia, ma rompeva anche con la tradizione della teologia razionale. A Dio, dice Cusano, sulla scorta dello Pseudo Dionigi, le affermazioni non si adattano:

Se dici, infatti, che è verità, gli sta contro la falsità. Se dici che è virtù, gli sta contro il vizio. Se dici che è sostanza, gli sta contro l'accidente; e così via. Ma poiché egli non è una sostanza che non sia tutto e a lui non si oppone nulla, e non è una verità che non sia tutto senza opposizione, questi nomi particolari non possono convenire a Dio se non molto approssimativamente e a distanza infinita. Tutte le affermazioni, che pongono in Lui una parte del loro significato, non possono adattarsi a Dio che non è qualcosa piuttosto che tutto.

Allora, parlare di Dio ha senso solo se vado sopra il gradino delle opposizioni in cui si aggroviglia la ragione. Ma perché la ragione con i suoi mezzi non è in grado di afferrare, di dimostrare la natura di Dio, insomma, di conoscerlo? Perché la conoscenza è innanzitutto «proporzione». Ogni oggetto è conosciuto dalla mente in quanto può essere rapportato a ciò che essa già sa e ha concepito in base a questa comparazione. Da ciò discende perciò che la mente non può conoscere Dio, perché Dio è infinitamente lontano da ogni ente noto e perciò non può essere stabilita nessuna proporzione. Di Dio si può affermare solo ciò che non è, e ammettere, nei suoi confronti, la propria ignoranza. Ma tale consapevolezza, al pari di quella socratica, diventa scienza, scienza di ignoranza: insomma, un'ignoranza dotta, un'ignoranza che, proprio perché consapevole, può spalancare le porte ad un sapere superiore, inattingibile sul piano della pura ragione. Noi possiamo in qualche modo arrivare alla natura di Dio servendoci della «congettura», cioè di un pensiero basato sull'ipotesi, sulla similitudine. Ma qual è lo strumento che mi permette di «congetturare» su Dio? La matematica. Se pensare Dio in termini di teologia negativa significa pensarlo come «coincidenza degli opposti», allora solo la matematica è in grado, per analogia, «congetturando», a farmi figurare approssimativamente la natura di Dio. Solo che devo abbandonare il terreno della ragione e il principio di non contraddizione su cui si basa la stessa matematica, quando si tratta di enti matematici finiti e imboccare il terreno dell'intelletto e della sua conoscenza intuitiva, che non si cura del principio di non contraddizione in quanto va oltre esso. Cioè,

se vorremo elevarci al massimo semplice, servendoci, come di esempi, degli oggetti finiti, bisogna in primo luogo considerare le figure matematiche finite con tutte le loro proprietà e ragioni, quindi trasferire corrispondentemente queste ragioni alle figure infinite e, in terzo luogo, trasferire in modo traslato e più profondo, le ragioni delle figure infinite all'infinito semplice, sciolto da ogni riferimento alle figure. Solo allora la nostra ignoranza farà in modo incomprensibile comprendere a noi, che ci affatichiamo sugli enigmi, che cosa dobbiamo pensare in modo più vero e più preciso dell'Altissimo.

E Cusano applica subito il suo metodo al concetto di «massimo», che domina tutta La dotta ignoranza. Il «massimamente grande» e il «massimamente piccolo» sono la prima lampante dimostrazione della coincidenza degli opposti. Se mettiamo in evidenza il termine in comune tra «grande» e «piccolo», abbiamo l'avverbio superlativo «massimamente», cioè l'infinito che, in quanto tale, non è né piccolo né grande: di qui la coincidenza dei due termini opposti. E la matematica ci dimostra, ricorrendo al concetto di infinito, la stessa cosa. Così un cerchio e un poligono si possono dire opposti, in quanto opposti sono gli archi e le corde che in essi si determinano; ma, se si moltiplicano all'infinito i lati del poligono inscritto nel cerchio, questi vengono a sovrapporsi alla circonferenza, a coincidere con essa. Ecco una delle tante dimostrazioni della coincidenza degli opposti che Cusano ricava dalla matematica. Egli non fa, in fondo, che usare il metodo di esaustione, noto a tutta la matematica medioevale: aumentando all'infinito i lati del poligono in un cerchio, il lato avrebbe finito per coincidere con il cerchio. Del resto su questo punto Cusano è esplicito. Ne Il berillo egli afferma esplicitamente: «Nel libro La perfezione matematica ho spiegato in che modo coincidono l'arco minimo e la corda minima». Però Cusano finiva per cadere in un tranello. Se, infatti, i procedimenti di esaustione sono corretti, allora elemento caratteristico del procedimento matematico è quello di rendere immediatamente calcolabile, e perciò visualizzabile, quello che a prima vista risulta impossibile e contraddittorio, come la coincidenza tra finito e infinito.

Col sussidio della matematica si può intuire in che modo in Dio si verifichi l'unità di tutte le qualità e cose che in esso trovano la propria ragione. Così Dio è il massimo, cioè tutto, perché tutto in sé comprende, ma anche il minimo, cioè nulla, in quanto, come totalità, non si identifica in nulla di determinato. Avvalendosi del principio di congettura, fornito appunto dalla matematica, la mente può applicare a Dio il principio della coincidenza di tutte le proprietà che nel mondo sono distinte e opposte. Naturalmente, con le sue analogie Cusano non pretendeva di spiegare la natura di Dio (diversamente sarebbe incappato negli stessi errori che imputava alla teologia razionale); indicava solo una strada attraverso cui la mente umana poteva superare i limiti di un pensiero basato sul principio di non contraddizione.

Tuttavia, mostrare la matematica come nuova ancella teologica, non solo dava una legittimazione più forte ad una scienza che trovava in se stessa le norme di convalidazione, ma schiudeva autentiche possibilità, non semplicemente esplicativo-illustrative, ma anche operative, di ricostruire in termini di calcolo quel mondo in cui la divinità si era esplicata. E, così, sulla base congetturale della matematica, Cusano può proporre una sua spiegazione del rapporto tra mondo e Dio. In quanto contiene in sé tutto ciò che si dispiega nel mondo, Dio, infatti, può essere definito, secondo Cusano, un universo implicito e il mondo, viceversa, un universo esplicito o un Dio contratto. Il generarsi delle cose da Dio è analogo all'unità numerica. Questa complica tutti i numeri, cioè li implica, perché li contiene in sé, nella propria potenza; o anche i numeri esplicano l'unità, perché il loro essere non è che l'unità stessa, determinata in questo o quel numero. Così accade per il punto, che complica ed esplica la linea e le varie figure geometriche. Così Dio è complicazione ed esplicazione del mondo. Presentato l'universo quale Dio contratto, l'universo acquista caratteristiche divine: esso è incommensurabile, infinito. Come tale esso non avrà né un alto, né un basso, né un centro, né una circonferenza: ogni punto del cosmo può essere assunto come centro e come periferia.

Per diradare da sé il sospetto di essere caduto nel panteismo (ci fu infatti chi lo accusò di panteismo e Cusano cercò di difendersi scrivendo l'Apologia della dotta ignoranza, che, per la verità, è poco convincente), il filosofo di Kues dice che il mondo rispetto a Dio è caratterizzato dal «più» e dal «meno», cioè da una maggiore o minore concentrazione della divinità. Del resto, se l'uomo, in quanto contrazione di Dio, potesse averne la totale comprensione non si porrebbe nella cerchia della «dotta ignoranza». Dio è perciò superiore al mondo e si distingue da tutte le sue creature. Di più: l'uomo, le cose possono attuare una sola possibilità tra le tante che sono specifiche; Dio, invece, le attua tutte. In Lui attualità e possibilità coincidono: Egli è tutto ciò che può essere, è il «possest».

Cusano aveva portato a termine il suo compito. Mettendo il vino vecchio della teologia medievale nelle botti nuove della cultura umanistica, Cusano con la sua «dotta ignoranza» aveva cercato con puntigliosità teoretica di dimostrare che Dio, l'ineffabile, lo sconosciuto per eccellenza, non era tale perché solo un atto di fede, ovvero un sentimento irrazionale, poteva accettarne l'esistenza, ma era tale solo perché sfuggiva a tutte le regole della ragione entro cui lo si voleva restringere. Questo è il significato negativo di Dio, definito da lui come «Infinito negativo», appunto, per la possibilità di comprensione della ragione, ma non negativo in sé. Infatti, per Cusano il significato dell'infinità di Dio, intesa positivamente come onnipotenza, o potere assoluto come ribadirà nel Compendio, è anche un concetto positivo da cui tutto si ricava. Ma è proprio questa definizione che gli permette di scardinare il sistema ben ordinato della teologia positiva di stampo aristotelico. Il concetto di Dio deve trascendere totalmente tutte le possibilità della ragione e del principio di non contraddizione e, siccome essa è finita, misurabile, limitata, Dio sarà definito «negativamente», come infinito, immensurabile, immenso (Graziella Federici-Vescovini, «Introduzione» alle Opere filosofiche di Cusano, UTET, Torino 1972, pp. 18-19; dalla stessa opera sono state tratte tutte le citazioni di Cusano).

Così come la ragione nella sua limitatezza non può attingere la natura di Dio, altrettanto impossibile è per essa penetrare il senso del potere che il papa riceve direttamente da Dio. Il potere del pontefice -- e mediatamente qualsiasi potere (scrive G.H. Sabine: «La peculiare legittimità attribuita al potere regio rifiutava l'analisi o la difesa razionale. L'autorità divina che investe il re è qualche cosa di miracoloso, di non razionale, che deve essere accettato per fede», Storia delle dottrine politiche, Milano 1996, pp. 299-300) -- si autolegittima nella imperscrutabilità della fonte da cui discende. Gli «arcani del potere» devono restare tali, proprio perché espressione di un «imperium», che è altrettanto arcano, segreto. Che il papa primeggi sull'intero apparato ecclesiastico, che re, imperatori, signori o principi deliberino appellandosi solo alla maestà del proprio potere è un fatto che Cusano ha teoricamente voluto dimostrare. All'intellettuale, che finge di possedere una libertà nei confronti del potere, cui invece è fortemente subordinato, non resta che una cosa: valutare in maniera distaccata o spregiudicata i risultati di un potere sciolto da ogni vincolo razionale, ma che, provenendo da Dio, dovrebbe essere indirizzato a portare armonia, ordine, pace. È quella visione «realistica», che avrà soprattutto il suo battesimo di fuoco in Italia e che, in qualche modo, starà alla base della concezione politica del Rinascimento.