SGUARDI MIGRANTI: TRACCE DI RIFLESSIONI. POSSIBILE APPROCCIO ETNOPSICHIATRICO IN UN S.P.D.C.
(a cura di Carlo Scovino)

PREMESSA

La domanda sull’universalità delle forme psicopatologiche anima uno dei principali vettori e delle possibilità dell’etnopsichiatria: verificare grazie all’opportunità di confrontare manifestazioni di popoli tra loro diversi e lontani, quanto delle "malattie della psiche" appartenga all’invariante natura umana, e quanto sia invece prodotto da situazioni, condizioni, influenze locali.

Da lì nasce un percorso ricco di osservazioni e considerazioni preziose che continua ancora oggi.

La posta in gioco è ovvia: se un disturbo psichico apparisse in un popolo e non in un altro, si potrebbe allora pensarlo come determinato, o facilitato, da caratteristiche sociali, ambientali o culturali specifiche. Allora, chi fa una buona pratica socio-educativa, non potrebbe porsi il problema della "cura" della persona senza mettere immediatamente in discussione il contesto che la ammala: gli operatori (siano essi psichiatri, psicologi, educatori, ecc.) dovrebbero porsi il problema della salute della comunità di cui curano i membri.

Che le diverse culture e situazioni possano colare in specifiche forme la sofferenza psichica è oggi un dato acquisito dopo che diverse fonti hanno documentato in determinate culture sindromi specifiche non riscontrabili in altre (il terrore dei fantasmi di ghiaccio antropofagi dei Nativi Canadesi, i genitali maschili che si ritirano nel ventre a Singapore, la compulsione femminile a ripetere le parole altrui e proferire oscenità in Malesia, ecc.).

Ma, a parte queste lontane sindromi che coinvolgono un piccolo numero di persone e non riguardano direttamente l’Occidente, l’insopportabile dubbio di fondo è che certe società e culture non solo mettano in forma, ma addirittura determinino, alcune delle sofferenze psichiche più diffuse, e che questo riguardi anche il nostro mondo (per es. la depressione e la schizofrenia vengono considerate da alcuni sindromi legate alle moderne culture occidentali, e da queste in parte determinate).

Su questa pista, percorsa dallo stesso fondatore della classificazione delle cosiddette "malattie psichiche" agli inizi del ‘900 (Emil Kraepelin),hanno continuato a lavorare alcuni psichiatri coraggiosi (vedasi lo studio su una varietà di disturbi psichici, presenti nei campi profughi della II guerra mondiale, effettuato da Henry B. Murphy).

Egli cercò di chiarire le determinanti sociali, culturali ed economiche delle psicopatologie considerate da altri come date, biologiche, naturali spingendo la sua ricerca non solo in aree geografiche lontane ma anche a ritroso nella storia ( per es. sostenne che la depressione, così come oggi la conosciamo, nacque in Inghilterra dalle trasformazioni legate alla rivoluzione industriale. Infatti era chiamata "malattia inglese" spleen, da curare con svaghi e spaesamenti).

Il contributo maggiore, in termini di scoperte, innovazioni e riflessioni metodologiche nel campo dell’’etnopsichiatria, proviene da George Devereux (che era fisico, etnologo e psicanalista). Egli, insieme ad altri studiosi e allievi (tra i quali il più conosciuto è Tobie Nathan), è il motore dell’etnopsichiatria, quello di matrice etnografica, che ricerca sui saper -fare altri, li studia e li descrive con attenzione anche per scoprire cosa contengono di utile per il mondo della Scienza. E sempre grazie al suo straordinario esempio che altri, dopo di lui, si troveranno a lavorare gomito a gomito con altre e diverse discipline, in relazioni non sempre pacifiche ma ricche di spunti e di analisi.

Oggi che la c.d. "emergenza migratoria" ha assunto più i contorni di un fenomeno globalizzato e globalizzante: la questione del come far coesistere culture e saper-fare diversi pone i Servizi socio-sanitari e le Agenzie educative (in primis la Scuola) di fronte a scelte difficili.

Tali scelte andranno pensate ed effettuate con un contributo multidisciplinare e multiculturale, che nasca dal vedere dall’alto e in parallelo i vari sistemi culturali e quindi i vari modelli antropologici e saper-fare terapeutici: un saper-fare universalmente umano e capace di rispettare, e contenere, differenze e specificità, in grado di servire anche da mediazione nei conflitti tra gli inevitabili, ma anche auspicabili perché portatori di diversità.

La diffusione dell’etnopsichiatria può servire ad allargare gli orizzonti degli operatori, ad approntare servizi davvero multiculturale, a dare forza alla costruzione di nuovi saper-fare che si traducano immediatamente in interventi preventivi e terapeutici efficaci e tendenzialmente meta-culturali, così necessari alle società che si vanno disegnando.

Non si tratta di dotare la psichiatria di sensibilità "culturale" permettendole di essere più convincente e spendibile ovunque e per celare (psicologizzando e esotizzando) dinamiche di potere e sopraffazione così frequenti nelle relazioni tra gruppi umani e culture. Una buona pratica sociale (clinica, preventiva, terapeutica, riabilitativa) deve saper mantenere viva la ricerca di senso e di significato in una dimensione interlocutoria e di reciprocità.

IL SERVIZIO PSICHIATRICO DIAGNOSI E CURA: ATTUALE CONFIGURAZIONE

Prima di iniziare la riflessione sul tema di questo intervento, credo sia utile declinare gli obiettivi e le finalità di un SPDC così come si è caratterizzato nel corso degli ultimi 20 anni diventando sempre più strutture polivalenti con le seguenti caratteristiche:

    • luoghi contenitivi della crisi;
    • strumenti per la promozione e lo sviluppo dell’informazione e del consenso, sia per gli utenti che per le famiglie;
    • ambienti atti a creare le condizioni favorevoli per la presa in carico di utenti che devono proseguire le cure;
    • centri per effettuare valutazioni cliniche;
    • aree di impostazione farmacologica, sia in acuto che a medio e lungo termine;
    • ambiti per il recupero funzionale cognitivo, per la riabilitazione e per la reintegrazione sociale.

Il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura si colloca nell’ambito dell’ospedale, in una peculiare situazione all’incrocio tra area psichiatrica e area sociologica.

Per questa connotazione esso rappresenta qualcosa di innovativo rispetto alla tradizionale bidimensionalità degli ambienti di ricovero, in cui il paziente perde in buona misura la sua identità sociale.

Il collegamento stretto con le strutture territoriali, di cui il tempo della degenza rappresenta solo un breve momento di una più articolata presa in carico, garantisce il soggetto nella sua realtà psicosociale, senza interrompere il suo collegamento con la famiglia e con il territorio.

Da queste considerazioni scaturiscono due possibilità:

    • l’ambiguità tra aspetti psichici e somatici si configura come un rischio di essere fagocitati dalla logica obiettivante della tradizione ospedaliera, inflazionando gli aspetti passivizzanti della degenza;
    • il discorso alternativo volto a configurare la specificità del discorso psichiatrico e al limite ad "iniettare" nel corpo ospedaliero un "virus", rappresentato dalla necessità di una visione integrata della sofferenza, e non solo dello stretto ambito psichiatrico.

LA RIABILITAZIONE IN UN S.P.D.C.

L’idea di scrivere a proposito della pratica riabilitativa, con un sguardo etnopsichiatrico, nasce da diverse motivazioni. Due tra le più importanti: la prima è connessa al fatto che la letteratura, sulla riabilitazione all’interno un Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura è quasi inesistente; la seconda è in relazione alla riflessione che la gran parte della letteratura esistente –a proposito dell’approccio etnopsichiatrico- è scritta e pensata solo in riferimento al territorio e alle comunità.

Ognuno con le proprie competenze, ruoli e specificità può meglio contribuire alla creazione, oltre che alla tenuta, di una rete in grado di sostenere/accompagnare le persone che si trovano ad affrontare un disagio psichiatrico in una società sempre più multiculturale.

Il SPDC, almeno nel pensiero e nell’operare degli educatori, è stato escluso dal quel progetto di "presa in carico" che deve necessariamente tener conto anche dei ricoveri ospedalieri sia in regime di TSV e sia di TSO.

Le pagine che seguiranno sono, inoltre, un tentativo di rispondere alle nuove domande e alle sempre nuove sfide che la follia pone, oltre a quelle che la nuova legge in approvazione imporrà.

Già all’interno di un Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura italiano i termini "riabilitazione", "relazione d’aiuto" ed, eventualmente, "presa in carico" assumono connotazioni diverse; diventa molto difficile, se non addirittura impossibile, ipotizzarlo in un Servizio (laddove esistono) non occidentale.

Si può immaginare che in un SPDC l’educatore sperimenta il suo sostare "dentro", "fuori", "sulla soglia" di uno spazio e di un tempo che, pur essendo scanditi da un’organizzazione a priori, mette in crisi certezze e saperi.

La relazione d’aiuto con i pazienti acuti riapre altri spazi/interstizi, dove costruire empaticamente altri mondi e altri codici.

Non è possibile alcuna autentica riabilitazione in psichiatria se non realizzando quella rivoluzione metodologica che, ponendo tra parentesi ciò che è patologico, inserisce nel contesto della "malattia" il campo sociale nelle sue diverse articolazioni interpersonali e ambientali, proponendosi di integrare ogni discorso farmacoterapeutico, psicoterapeutico e culturale.

Ogni agire/pensare riabilitativo deve sì avere a che fare con il paziente, ma contemporaneamente e permanentemente con il suo mondo: il mondo delle relazioni interpersonali e dell’abisso vertiginoso e mutevole della reciprocità comunicazionale.

Nel 1996 tre educatori - due uomini e una donna, con esperienze e background professionali diversi - furono incaricati, per sei mesi e con una impegnativa di 40 ore mensili pro-capite, di intraprendere un percorso i cui confini temporali e spaziali erano incerti.

Quell’esperienza continua ancora…

RIABILITAZIONE: UNA TERRA DI MEZZO

Il concetto di riabilitazione è fondato sul presupposto che, nonostante il disagio psichico, la sofferenza e le disabilità indotte dalla malattia, il malato mentale possa riacquisire e sviluppare capacità perdute e recuperare quindi ruoli adeguati nel proprio ambito familiare e sociale, che gli consentano di integrarsi nel modo migliore possibile nella vita di comunità.

La riabilitazione non punta l’accento sulla patologia, ma su ciò che rimane di sano dell’individuo.

È utile sottolineare come, tra i vari autori che hanno trattato il tema da un punto di vista psichiatrico, vi siano posizioni divergenti rispetto al concetto di riabilitazione.

Se da un lato diventa ancor più difficile trattare il tema da un punto di vista etnopsichiatrico, dal punto di vista più educativo/riabilitativo esso fornisce elementi di riflessione che ben si coniugano con l’approccio flessibile, di reciprocità e di riconoscimento di cittadinanza che gli educatori agiscono nella loro pratica quotidiana. Questi minimi comuni denominatori hanno rappresentato (e ancora continuano a rappresentare) la bussola che mi aiuta nell’orientamento della prossimità relazionale con l’altro da me (prima ancora che paziente e/o immigrato).

Oggi la riabilitazione psichiatrica sta acquisendo un ambito di intervento sempre più ampio, divenendo più un "approccio" che un insieme di tecniche specifiche. È opinione comune, sostenuta da numerosi studi, che le determinanti del disturbo psichiatrico, della sua gravità e dei suoi siti, dipendano da numerosi fattori attinenti a campi diversi dell’esperienza umana.

Si devono così prendere in considerazione aspetti biologici, aspetti psicologici individuali o del gruppo familiare di appartenenza, fattori sociali e culturali. La costruzione del programma terapeutico si fonda sull’analisi della costellazione di questi fattori in relazione al singolo individuo, alle risorse di cui dispone l’équipe curante e alle risorse dell’ambiente di riferimento.

Tra le riflessioni che, nel corso di questi dieci anni, mi hanno più o meno accompagnato c’è il pensiero costante che l’alleanza va costruita con i bisogni del malato, anche e, forse soprattutto, in SPDC, non nel senso di intrattenere (tenere dentro) ma di accompagnarlo, sostenerlo e tutelarlo nei suoi diritti di cittadino/malato.

Altro rischio molto forte è quello che si crei una sorta di piccolo manicomio all’interno dell’ospedale dove il focus è la cura farmacologica. L’ospedale esiste ed è opportuno che questa realtà non venga negata per far scomparire la possibile angoscia che esso determina lasciando così immodificata la realtà del ricovero, sia esso in regime di TSV o di TSO.

Infondere e mantenere la speranza è di importanza decisiva nel momento in cui si stabilisce un contatto empatico con il paziente ricoverato: il sentimento della speranza condiviso aiuta il paziente a proseguire il trattamento psico/farmacologico con una sufficiente compliance restituendogli fiducia.

Molti pazienti quando approcciano l’evento del ricovero sono convinti di essere senza uguali nella loro disgrazia, di avere certi problemi, pensieri, impulsi e fantasie spaventosi e inaccettabili.

In un certo senso questo è vero per ognuno di noi, ma per molti pazienti il senso di unicità è spesso intensificato dal loro isolamento sociale. Si può ben immaginare come questo senso di isolamento, di straniamento e di spaesamento sia amplificato nei pazienti provenienti dall’Africa o dall’Asia - con o senza permesso di soggiorno - con ripercussioni talvolta molto evidenti non solo da un punto di vista psicopatologico ma anche fisico.

Un altro elemento da tenere in considerazione e quello che io chiamo la mutualità tra pazienti ricoverati. Spesso mi è capitato di osservare come tra alcuni pazienti si instauri una sana relazione di reciprocità fatta di consigli, suggerimenti e rassicurazioni. Tale mutualità resta pressoché immutata anche in presenza di pazienti appartenenti a differenti etnie: in tutti questi anni non ricordo episodi di intolleranza e/o xenofobia.

Se il SPDC diventa un luogo dove le differenze vengono annullate a favore di un’uniformità di trattamento e prestazione, e quindi di riconoscimento di un diritto di cittadinanza che afferisce a tutti gli esseri umani, dall’altro le specificità culturali e identitarie di ognuno talvolta rischiano di smarrirsi tra le maglie organizzative e burocratiche.

Tale meccanismo di smarrimento investe anche gli operatori che non trovano risposte (anche linguistiche) ai bisogni di pazienti che sempre più sono multietnici.

Quando iniziai a lavorare nel SPDC non avevo chiaro cosa avrei dovuto fare e quali fossero le fonti teoriche/empiriche alle quali attingere.

Nel corso di questi anni i miei colleghi ed io abbiamo sperimentato diversi approcci facendo attenzione ai tempi e alle storie dei pazienti.

Le attività venivano modulate e ricalibrate a seconda della situazione e del clima del reparto (gruppi di giochi da tavolo, atelier di arteterapia, feste di compleanno, ecc.).

Se per i pazienti italiani tutte le attività trovavano senso e significato, o anche solo temporaneo svago, per i pazienti extra CEE solo l’atelier di arteterapia riusciva in qualche modo a stimolarli a partecipare. Il tavolo da lavoro esibiva colori, fogli, pennelli, ecc. senza la necessaria intermediazione con l’altro (paziente, operatore, ecc.). L’accesso era libero e gli "strumenti di lavoro" funzionavano da oggetti transizionali.

Molti dei miei approcci riabilitativi sono nati e si sono sviluppati durante le sessioni di arteterapia: hanno rappresentato l’avvio di una relazione educativa. Tale opportunità apriva successivamente percorsi per una maggiore e migliore comprensione relativa non solo ai bisogni cosiddetti primari (richiesta di vestiario, scheda telefonica, ecc.) ma anche di uscita fuori dal reparto. E spesso durante queste brevi passeggiate nei cortili dell’ospedale emergevano storie, vissuti e paure che necessitavano di un riconoscimento di legittimità e di cittadinanza.

Nel mio caso va inoltre segnalato che la conoscenza della lingua inglese, francese e di un po’ di spagnolo hanno contribuito ad una maggiore comprensione linguistica riducendo il loro (ed il mio) senso di incomunicabilità verso un mondo popolato da figure e oggetti talvolta vissuti come minacciosi o meramente assistenziali.

I colleghi educatori con i quali mi sono confrontato e che ho incontrato in reparto, durante alcune visite fatte ad alcuni pazienti, mi sono parsi a tratti perplessi e a tratti un po’ incerti. Le porte chiuse, gli orari, i camici bianchi, ecc. riportano alla mente l’ospedale dove per lungo tempo la malattia mentale è stata negata, reclusa, ferita e cancellata.

La pratica riabilitativa e l’esperienza mi hanno insegnato a mantenere una necessaria mobilità di pensiero e di critica stimolandomi a confrontarmi continuamente con una sofferenza che non inizia e non termina in un luogo preciso, sia esso il SPDC sia esso un qualsiasi servizio territoriale.

Non credo che esista un luogo della riabilitazione, anche se la pratica riabilitativa sul piano normativo nazionale e regionale è prevista solo in strutture diverse dal SPDC: ogni ambito che si occupa del malato mentale può esserne la sede.

Tale riflessione nel corso degli anni mi ha sollecitato a domandarmi e a ricercare i luoghi (se un luogo esiste) della riabilitazione in altri contesti, con diversi gruppi etnici, con quali approcci metodologici, ecc.

E’ iniziata così una ricerca bibliografica, il contatto con il Servizio Stranieri del Comune di Milano, con una psicologa di un Servizio della nostra UOP, con uno psichiatra di un altro DSM della ASL Città di Milano, ecc. .

Ho iniziato a fotocopiare le cartelle dei pazienti extra CEE senza avere in mente un progetto preciso e definito: tale operazione rispondeva al mio bisogno di iniziare a raccogliere dei primi dati clinici e quantitativi cartacei sui quali ragionare successivamente ed inoltre mi dava la possibilità di iniziare a raccogliere del materiale di non facile reperimento qualora ne avessi avuto bisogno successivamente.

Ho iniziato a guardare e osservare l’altro da me con nuove lenti trascrivendo su un diario le informazioni che mi avrebbero consentito di identificarli e riconoscerli in maniera più approfondita (etnia di appartenenza, nucleo familiare allargato, ecc.).

Così facendo iniziavo a scrivere e a comprendere (nel senso etimologico del termine, prendere con me) storie, fughe, desideri e sogni.

La riabilitazione in SPDC non ha solo il compito di far riacquisire al soggetto le abilità compromesse e di sviluppare le sue potenzialità ma può giocare un ruolo importante sul rianimare lo spazio, il tempo e le progettualità.

Il rischio di una scissione tra gli interventi intra/extra ospedaliera rischia di riprodurre il vecchio modello psichiatrico dove l’intervento terapeutico si configura soltanto come risposta a dei bisogni e non, anche, come attivazione di risorse.