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Le duecento società che controllano il mondo |
vedi
anche la lista delle 100
maggiori economie mondiali
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Mentre i 50.000 operai
siderurgici di Thyssen manifestavano a Francoforte, la Krupp rinunciava a
lanciare la sua offerta pubblica di acquisto, in conflitto con la sua concorrente.
In compenso, le due imprese tedesche annunciavano la creazione di una società
comune dell'acciaio, decisione che dovrebbe tradursi in migliaia di licenziamenti.
E d'altra parte, anche la chiusura dello stabilimento di Vilvoorde (Belgio)
da parte della Renault contribuisce a illustrare il disprezzo nel quale sono
tenuti i lavoratori. Due esempi, tra molti altri, del ruolo giocato dalle
200 principali imprese multinazionali su scala planetaria, mosse da interessi
particolari che si discostano sempre più dall'interesse generale. Dall'inizio
degli anni 80, queste "prime duecento" hanno conosciuto, attraverso le fusioni
e i riscatti di imprese, un'espansione ininterrotta, grazie alla quale esercitano
un dominio per così dire totalitario non solo sull'economia, ma anche sull'informazione
e sulle menti (leggere, qui a fianco, l'articolo di Ignacio Ramonet).
di Frédéric F. Clermont *
Si cercherebbe invano, nei discorsi elettorali o in quelli
degli adepti della teoria neoclassica, la minima allusione al fatto che le
concentrazioni di imprese sono oramai il principale motore dell'accumulazione
del capitale. Certo, si è trattato di una costante nella storia del capitalismo,
se non di una condizione della sua sopravvivenza come modalità di dominio
di classe; ma il suo ritmo non era mai stato così rapido.
Dalla metà degli anni 70 l'accumulazione del capitale si realizza essenzialmente
tramite le annessioni di imprese, i riscatti e le fusioni, Combinata alla
colossale espansione dei flussi finanziari, speculativi e non, essa agisce
direttamente sulle decisioni di investimento: ma nulla di tutto ciò viene
spiegato chiaramente ai lavoratori, benché sia in gioco il loro destino. Si
insiste invece sul ruolo dinamico del "mercato", che dovrebbe guidare le decisioni
delle grandi società. Ma a sette anni dallo smembramento dell'Unione sovietica,
con la colonizzazione massiccia dell'Est europeo, il rallentamento della crescita,
l'aggravarsi degli antagonismi in seno alle nazioni e all'interno stesso del
mondo imperialista, dove sono le gloriose promesse del "libero mercato?" (1) Intravista
per qualche attimo alla fine degli anni 80, la tanto vantata "ripresa economica"
non ha mantenuto le sue promesse. Le industrie manifatturiere mondiali (a
eccezione di quelle cinesi) lavorano soltanto al 70-75% della loro capacità.
Il debito mondiale (che comprende quello delle imprese, degli stati e delle
famiglie) ha superato 33.100 miliardi di dollari, pari al 130% del prodotto
interno lordo (Pil) mondiale, e progredisce a un tasso del 6-8% l'anno vale
a dire oltre il quadruplo della crescita del Pil mondiale. Queste disparità
dei tassi sono insostenibili e hanno conseguenze disastrose (2). Dovunque,
in tutti i settori, i salari reali diminuiscono sotto i colpi delle ristrutturazioni,
delle chiusure di fabbriche e delle delocalizzazioni. Nelle sole economie
capitaliste "avanzate", il numero dei disoccupati supera i 41 milioni, e non
è finita ...
Ma la crisi, con le sue centinaia di milioni di vittime, non colpisce le compagnie
transnazionali. Cantando le lodi delle realizzazioni delle 500 imprese globali
censite da Fortune, gli autori di questo elenco notano con compiacimento che
"esse hanno travolto le frontiere per impossessarsi di nuovi mercati e inghiottire
i concorrenti locali. Più sono i paesi, più aumentano i profitti. I guadagni
delle 500 maggiori imprese sono cresciuti del 15%, mentre l'aumento dei loro
redditi ha raggiunto l'11% (3)" All'inizio
degli anni 90, circa 37.000 compagnie transnazionali, con le loro 170.000
filiali, stringevano nei loro tentacoli l'economia internazionale. Ma il vero
potere si concentra nella cerchia più ristretta delle "prime duecento", che
dall'inizio degli anni 80 hanno conosciuto un'espansione ininterrotta (4) attraverso
le fusioni e i riscatti di imprese.
La quota del capitale transnazionale nel Pil mondiale è infatti passata dal
17% della metà degli anni 70 al 24% nel 1982 a oltre il 30% nel 1995. Le "prime
duecento" (5) sono conglomerati
le cui attività coprono, senza distinzioni, i settori primario, secondario
e terziario: grandi aziende agricole, produzioni manifatturiere, servizi finanziari,
commercio ecc.
Geograficamente si ripartiscono tra 10 paesi: Giappone (62) Stati uniti (53)
Germania (23) Francia
(19), Regno unito (11), Svizzera
(8), Corea del Sud (6) Italia
(5) e Olanda (4). Se si eccettuano alcune società anglo-olandesi a capitale
misto (i gruppi Shell e Unilever), restano in corsa soltanto 8 paesi, che
totalizzano il 96,5% delle "prime duecento" e il 96% del loro fatturato. Ma
in realtà la concentrazione è ancora maggiore di quanto non facciano pensare
queste statistiche. Infatti, le compagnie appartenenti alla categorie delle
"prime duecento" non sono tutte società autonome, come è dimostrato dagli
esempi ben noti della Mitsubishi, della Sumitomo e della Mitsui, per citarne
solo alcune. Esistono cinque imprese Mitsubishi tra le "prime duecento", il
cui fatturato aggregato supera i 320 miliardi di dollari. Queste entità in
seno all'impero Mitsubishi, benché dotate di un elevato grado di autonomia,
sono strategicamente intrecciate le une alle altre in materia di amministrazione,
di prezzi, di commercializzazione e di produzione. Lo stesso vale per quanto
riguarda le loro comuni reti economiche, politiche e di spionaggio. Il loro
agente politico è il partito liberal-democratico (Pld) le cui spese di funzionamento
sono coperte nella misura del 37% dall'impero Mitsubishi. Tra le "prime duecento",
le disparità di potere non hanno cessato di accentuarsi durante il processo
di espansione che hanno conosciuto in questi due ultimi decenni, in particolare
in ragione della guerra in atto tra loro per aggiudicarsi quote sempre maggiori
del mercato mondiale. In effetti, tra il 1982 e il 1995 il numero delle compagnie
americane è sceso da 80 a 53, mentre quello delle società giapponesi è aumentato,
durante lo stesso periodo, da 35 a 62.
Un tempo prima potenza imperiale, il Regno unito ha visto il numero delle
sue società crollare da 18 a 11. In compenso è emerso un nano geografico e
demografico, la Svizzera. Ma l'aspetto più sorprendente è stata la rapida
ascesa delle società sudcoreane, il cui numero è passato da 1 a 6 in un periodo
di tempo relativamente breve. In testa figura la Daewoo, uno dei gruppi transnazionali
di più aggressivo espansionismo, punta di lancia dell'imperialismo coreano.
Con un fatturato di oltre 52 miliardi di dollari, ha superato colossi quali
la Nichimen, la Kanematsu, la Univeler o la Nestlé.
L'espansione planetaria della Daewoo è abbastanza sintomatica della potenza
dei chaebol, i conglomerati coreani. Gli attivi dei trenta primi chaebol sono
aumentati da 223 miliardi di dollari del 1992 a 367 miliardi nel 1996, e rappresentano
oltre quattro quinti del Pil coreano (6). Inoltre, sono le compagnie che occupano i quattro primi posti Daewoo,
Sandgong, Samsung e Hyundai a spartirsi la metà di questi attivi (185 miliardi
di dollari). Nel gennaio scorso, la rivolta operaia ha fatto volare in frantumi
il mito del "miracolo coreano", ma non è affatto detto che il risultato sia
un rallentamento dell'espansione di questi giganti, all'interno del paese
e fuori.
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza i miliardi di dollari forniti
dagli Stati uniti durante la fase della crescita coreana, negli anni tra il
1947 e il 1955; dopo di che subentrarono decine di miliardi di dollari di
sovvenzioni pubbliche. Nella Corea del Sud, come del resto in Giappone, non
esiste una linea di demarcazione ben definita tra i chaebol e lo stato (7). Alle
sovvenzioni pubbliche andrebbe poi aggiunta la repressione spietata della
classe operaia e la liquidazione dei diritti della persona. Tutti i politici,
senza eccezione alcuna, così come i membri delle alte gerarchie militari,
sono azionisti di primo piano, che siedono nei consigli di amministrazione
delle grandi compagnie. Nella confraternita dei chaebol, tutti si conoscono
e i matrimoni si combinano all'interno.
Chi non ricorda la frase pronunciata dal grande industriale tedesco Walter
Rathenau nel 1909: "Trecento uomini, che si conoscono tutti tra loro, dirigono
i destini dell'Europa e cooptano al loro interno i propri successori (8)?" Helmut
Maucher, direttore generale della Nestlé oltre che "impresario" del Forum
di Davos, presiede La tavola rotonda europea degli industriali, il Club delle
élites appartenenti a 47 società nel novero delle "prime duecento". Avversario
implacabile della carta sociale europea, è un militante attivo della flessibilità
del lavoro, come tutti i membri della sua casta. Dal 1986 al 1996 le fusioni
di imprese si sono moltiplicate al ritmo del 15% l'anno, e non si vedono segni
di rallentamento nel prossimo futuro. Se dunque le cose non cambieranno da
qui al 2000, il costo cumulato di questo genere di transazioni raggiungerà
circa 10.000 miliardi di dollari (a titolo di confronto, il Pil degli Stati
uniti era, nel 1996 e a livelli di prezzi correnti, di 7.600 miliardi di dollari).
Evidentemente, in questo periodo contrassegnato dalla deflazione e dal rallentamento
della crescita, dalla sottoccupazione e dall'indebitamento, le società transnazionali
non hanno altro mezzo, per promuovere la propria espansione, che quello di
assorbire le loro concorrenti per conquistare così nuovi mercati.
Le fusioni di imprese permettono inoltre la realizzazione di economie di scala
sul mercato mondiale. Vi fanno ricorso molte compagnie transnazionali, quali
la Boeing e le tre grandi società automobilistiche degli Stati uniti, oppure,
in Giappone e nella Corea del Sud, i giganti dell'automobile, dell'elettronica
e delle costruzioni navali. Cinque tra le maggiori imprese transnazionali
hanno messo le mani su oltre la metà del mercato mondiale nei settori chiave
dell'aerospaziale, delle forniture elettriche, delle componenti elettroniche
e del software; altre due hanno fatto altrettanto nella ristorazione rapida,
e cinque nei settori delle bibite, del tabacco e delle bevande alcooliche.
L'ascesa delle transnazionali è incoraggiata non solo dai governi dei rispettivi
paesi, ma anche dalle enormi sovvenzioni e dai privilegi fiscali offerti da
paesi d'accoglienza quali il Regno unito e l'Irlanda, così come dai governi
dell'Europa dell'Est, che stanno svendendo il patrimonio nazionale a colpi
di privatizzazioni e di incentivi fiscali di ogni genere.
Fusioni e alleanze di società (come l'alleanza tra la Shell e la Bp) contribuiscono
all'edificazione di un complesso economico totalitario. "Liberalizzazione",
"privatizzazione", "deregulation", "sistema del libero commercio internazionale",
sono altrettanti argomenti razionali che dovrebbero giustificare quest'evoluzione.
In questo movimento di concentrazione, le grandi banche di investimenti, i
fondi mutui e i fondi pensione giocano un ruolo preponderante (leggere l'articolo
a pagina 18). Wall Street, dal canto suo, esercita pressioni per gonfiare
i guadagni dei "valori di portafoglio"; e le banche di investimenti trovano
in tutto questo il loro tornaconto.
Il caso della Goldman Sachs, una delle principali banche di investimenti,
al primo posto nel mondo per il consolidamento delle società transnazionali,
è esemplare a questo riguardo. I suoi profitti sono raddoppiati nel giro di
un anno, passando da 931 milioni di dollari nel 1995 a 1,9 miliardi nel 1996.
Applicando le sue ricette, questa banca ha ridotto del 20% i suoi effettivi
in questi ultimi anni, per non essere handicappata da un "costo del lavoro
troppo elevato". Il che non le impedisce di pagare oltre 200.000 dollari di
dividendi annui a ciascuno dei suoi 175 associati, in aggiunta ai profitti
sul loro capitale.
Alla Morgan Stanley (9), il presidente ha percepito oltre 14 milioni di dollari di dividendi
nel 1996, pari a un aumento del 30% rispetto all'anno precedente. Ma queste
banche, non contente di incoraggiare le fusioni di imprese, si impegnano direttamente
sulla stessa strada. La fusione tra la Morgan Stanley e la Dean Witter ha
dato origine a una delle più grosse società di investimenti e titoli del mondo,
il cui valore di mercato è di oltre 24 miliardi di dollari (10). E
quest'evento ha scatenato una reazione a catena tra le altre banche di investimenti
e le società di intermediazione.
Quanto potrà durare questo gioco? "Francamente, nessuno lo sa, dichiara un
commissario ai conti della City. Le banche impegnano somme molto rilevanti.
Stiamo spingendo all'impazzata alle fusioni, che sono il nostro nutrimento".
Questo esperto altamente qualificato riconosce così senza mezzi termini che
quest'orgia di annessioni di imprese si finanzia mediante l'indebitamento.
Né più né meno dell'economia mondiale. La Novartis, nata nel 1996, occupa
il secondo posto tra i giganti dell'industria farmaceutica, Questa società
è il prodotto di una fusione tra la Sandoz e la Ciba-Geigy: si è trattato
della maggiore operazione del genere nella storia delle transnazionali, che
in commissioni e onorari di legali ha fruttato circa 95 milioni di dollari,
ripartiti tra la Morgan Stanley e l'Union de Banque Suisse (Ubs). Da un giorno
all'altro, il capitale della Novartis è balzato da 63 miliardi di dollari
a 82 miliardi. Quando una manna del genere cade nei forzieri di un ristrettissimo
gruppo di finanzieri, come parlare di crisi del capitalismo? Tuttavia la medaglia
ha il suo rovescio: la nascita della Novartis ha comportato massicce liquidazione
di posti di lavoro, prontamente eseguite in nome delle abituali "economie
dei costi" e "ristrutturazioni". Di colpo, le azioni delle due società hanno
conosciuto un rialzo senza precedenti.
Il 10% della forza lavoro sarà eliminato in una prima fase. E le conseguenze
in termini di aggravamento della miseria non impediscono agli ambienti della
finanza di presentare l'operazione come una vittoria della razionalità di
mercato.
Allo stesso modo si esulta, a Wall Street e su tutti i mercati finanziari,
per l'assorbimento da parte della Boeing della McDonnell Douglas (14 miliardi
di dollari). Ma stavolta c'è stata una differenza nella strategia dell'annessione,
dato che quest'acquisto non è solo il risultato di una decisione del consiglio
d'amministrazione della Boeing, ma era stato vigorosamente incoraggiato dal
Pentagono e dal dipartimento del commercio, preoccupato di favorire la penetrazione
del settore aerospaziale americano sui mercati internazionali. Le conseguenti
liquidazioni di posti di lavoro sono state massicce. Peraltro, dal 1992 il
numero degli stabilimenti che lavorano per la difesa è crollato da 32 a 9,
con la perdita di oltre 1 milione di posti di lavoro (11).
In quest'ultimo esempio, le considerazioni strategiche non sono dissociabili
dalla ricerca del profitto, dato che i titolari della Boeing e i dipartimenti
della difesa e del commercio degli Stati uniti miravano a qualcosa di più
di un'estensione delle quote di mercato aperte alle esportazioni americane.
Era venuto per loro il momento di emarginare, se non di liquidare l'Airbus.
Grazie all'apporto della McDonnell Douglas, la Boeing detiene ormai il 64%
del mercato. L'impresa beneficierà inoltre degli ordinativi della difesa che
in precedenza andavano alla McDonnell Douglas. E infine, il suo accesso ai
finanziamenti del settore pubblico federale risulta rafforzato . Per il 1997
la Boeing ha previsto entrate per 51 miliardi di dollari, di cui il 40% proveniente
dagli ordinativi della difesa. Dove sono i criteri di mercato in tutto questo?
Acquistando la McDonnell (e altri acquisti seguiranno inevitabilmente su questa
scia) la Boeing si assicura enormi sovvenzioni. Quest'impresa vende i suoi
beni e servizi molto al disotto dei costi di mercato. Le sue attività di ricerca
e sviluppo sono sovvenzionate dal Pentagono fin dalla fine della guerra, a
colpi di decine di miliardi di dollari oltre che attraverso l'acquisto di
aerei.
Per il momento, il peso schiacciante delle società transnazionali nell'economia
mondiale non ha un contrappeso equivalente in campo politico. Cosa avverrà
nel prossimo secolo? Queste imprese potranno conservare le loro strutture
totalitarie di dominio e di sfruttamento? Una crescita infinita non può esistere
in un mondo finito: questa legge almeno vale per tutti, e si applica anche
alle megaimprese. Nessuno può dire dove si fermerà il movimento di concentrazione
capitalistica, né se e quando troverà un suo limite. Ma fin d'ora, i guasti
sociali e politici determinati dalle fusioni e dai riscatti in serie stanno
aprendo numerose crepe nell'edificio ...
note:
* Economista.
torna al testo (1)
Cfr. Frédéric F. Clairmont e John H. Cavanagh, The World in their Web: the
Dynamics of Textile Multinationals, Zed, Londra, 1981.
torna al testo (2)
Ad esempio, il debito del governo federale americano (vale a dire, i debiti
contratti dallo stato per finanziare le sue spese) è aumentato da 910 miliardi
di dollari nel 1980 a 3.210 miliardi nel 1990 e a 4.970 miliardi nel 1995;
alla fine del 1997 dovrebbe raggiungere i 6.200 miliardi.
torna al testo (3) Fortune, New York, 5 agosto 1996.
torna al testo (4) Tra le "prime duecento" non è compreso un certo numero di megaimprese
private (non quotate in borsa) quali la Cargill, la Koch, la Mars, la Goldman
Sachs, la Marc Rich ecc.
torna al testo (5) Leggere Frédéric F. Clairmont, "Sous les ailes du capitalisme planétaire,
le Monde diplomatique, marzo 1994.
torna al testo (6) Cfr. The International Herald Tribune, 18-19 gennaio 1996.
Leggere inoltre Laurent Carroué, "I lavoratori coreani all'assalto del dragone",
le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 1997.
torna al testo (7) Il legame tra stato e oligarchia finanziaria è stato posto in luce
ancora una volta dalla decisione del ministero delle finanze di impegnare
7,2 miliardi di dollari (di denaro dei contribuenti) per porre termine ai
fallimenti provocati dal crollo del gruppo Hanbo (acciaio e costruzioni).
torna al testo (8)
Neuen Freien Presse, dicembre 1901, citata in Tilmann Buddensieg, Ein Mann
vieler Eigenschaften, Verlag Klaus Wagenbach, Berlino, 1990. Leggere inoltre
The German great Banks and their Concentration, documenti del Senato americano,
vol.
XIV, n503, Washington D.C., 1911.
torna al testo (9)
Cfr. Financial Times, Londra, 6 febbraio 1996.
torna al testo (10) Ibid.
torna al testo (11) Cfr. The Economist, Londra, 21 dicembre 1996.
(Traduzione di P.M.)