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PSICOLOGIA
O RICERCOLOGIA?
Un dubbio riportato da oltre oceano
Per
più di un secolo andare in America ha significato realizzare il sogno di
tutta la vita, finirla con gli stenti e le privazioni, raggiungere la terra
promessa dove, chi voleva, poteva rifarsi una vita.
Con uno spirito simile a questo ho partecipato alla 98° Convention dell'APA
(American Psychological Association) svoltasi a Boston dal 10 al 14 agosto
1990. Più di 10.000 psicologi si sono riuniti per 5 giornate ricche di seminari,
conferenze, lezioni; 40 diverse divisioni di psicologia a confronto, circa
20 relazioni simultanee iniziavano in ogni ora in altrettante sale di un
centro convegni grande quanto, e forse più, di un centro universitario.
Come l'emigrante del piccolo paese che negli anni 20 si guardava attorno
spaesato ed incredulo una volta sbarcato a Manhattan, così anche io mi sono
trovato incredulo ed emozionato alla grande kermesse della Convention. Poi
sono iniziati i lavori e si sono susseguiti dibattiti e relazioni svariatissime:
"il comportamento verbale dei trentacinquenni", "lo sviluppo
adolescenziale in un'ottica ecologica", "i fattori umani nei programmi
spaziali", "i piccoli gruppi come tecnica di lavoro" ed infiniti
altri. Il programma dei lavori consisteva di un volume di oltre 150 pagine.
Mentre il tempo passava e le relazioni si susseguivano, allo stupore si
sostituivano in me le prime riflessioni. Come sono democratici ed efficienti
questi colleghi americani. In 5 giorni di lavoro circa 1.000 occasioni di
incontro e di scambio culturale si sono svolte in un clima ordinato e puntuale.
Centinaia di psicologi, da tutti gli Stati Uniti, hanno potuto parlare ai
loro colleghi per riferire, illustrare, spiegare ciò che avevano fatto,
scoperto o sperimentato nelle loro piccole o grandi realtà.
Mi è subito venuta alla mente la difficoltà, la formalità direi,
coniando un termine nuovo, la cattedraticità con cui in Italia ogni convegno,
ogni incontro, ogni simposio, si trasforma in una occasione in cui pochi
(e quasi sempre gli stessi) hanno la possibilità di dire la loro ai molti
(anche questi quasi sempre gli stessi) che sono chiamati ad ascoltare. Poi
ci sono i coffee-break, i tempi di lavoro mai rispettati, gli atti che,
quando arrivano, arrivano dopo uno o due anni; erano tutte cose che vedevo
ampiamente superate da una efficiente organizzazione congressuale che permetteva
a tutti i partecipanti di sfruttare al meglio il tempo disponibile e di
ottenere, in tempo reale (ultimo giorno del convegno) buona parte degli
atti dei lavori.
In mio primo pensiero è stato dunque un moto di invidia per quella
terra promessa in cui uno psicologo, non importa se titolare di cattedra,
poteva parlare e confrontarsi anzitutto con dei colleghi.
Solo il giorno della chiusura mi sono accorto di provare un lieve senso
di insoddisfazione, mi sembrava d sentire una nota stonata. Possibile che
nel paese delle meraviglie qualcosa non funzionasse? Rivisitai il percorso
fatto, le relazioni ascoltate, i documenti che avevo potuto vedere, i contenuti
che avevo percepito.
I contenuti, proprio loro mi lasciavano un po' di amaro in bocca. Avevo
ascoltato o visto esposte le riflessioni e i lavori di quasi 100 differenti
autori e salvo pochissime eccezioni tutti erano stati delle ricerche.
Era come se avessi ascoltato una sola, ininterrotta relazione di
cui cambiavano solo alcuni fattori. Tutti dicevano la stessa cosa: ho fatto
una ricerca su questo particolarissimo tema, con questo numero di soggetti,
usando questo strumento, ne è risultato questo e quello e bisogna fare altre
ricerche perché la mia offre risultati parziali e apre solo dei dubbi. Sia
che si fosse lavorato con un campione di 20 o di 500 soggetti, sia che
si fossero usati test già sperimentati o colloqui all'impronta, sempre e
comunque ciò che avevo sentito o visto erano dei resoconti di ricerche che
non portavano a nessuna precisa affermazione sull'uomo e sul complesso del
mondo psichico interiore.
Qui è scattato il dubbio.
Nulla da ridire contro le ricerche, contro la scientificità e serietà con
cui bisogna attuarle, né intendo negare l'indispensabilità di fare ricerca
per capire, per scoprire, per conoscere. Ma qui sta il punto. La ricerca
è in Psicologia, come in tutte le altre scienze, un mezzo per arrivare ad
un fine: una maggiore conoscenza dell'uomo e del suo mondo psichico.
Per paura di non essere abbastanza scientifici, per timore di assumersi
la responsabilità di affermare qualcosa che il tempo e il progresso potranno
smentire, a volte perché non si saprebbe cosa dire, si corre forse il rischio
di fare della ricerca per la ricerca, di trasformare la ricerca in un fine
per se stesso.
Se è vero che da noi la psicologia è ancora una cenerentola nel tessuto
sociale e culturale, qualcosa di troppo temuto, di troppo formalizzato,
di troppo filosofico, ritorno dalla Convention americana col dubbio che
oltre oceano la Psicologia sia prossima a trasformarsi in Ricercologia capace
di grande, "neutrale" scientificità, ma incapace di farci fare
sostanziali passi in avanti nella scoperta di quel grande continente ancora
pressoché inesplorato che è il mondo psichico dell'uomo.
Stefano Pasqui