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GUERRA PSICOLOGICA E PSICOLOGIA DELLA GUERRA
Non
credo si sia mai avuta una guerra, come quella in corso, tanto basata sulla
psicologia. Gli atteggiamenti dei contendenti, l'uso dei simboli e dei
mass-media, l'attenzione alle reazioni emotive, i sali-scendi delle Borse,
gli ostaggi e i prigionieri, gli slogans e le censure: tutto quanto abbiamo
sentito, visto e vissuto in questi mesi sembra assai prima una guerra di
psicologie che una guerra di bombe, di assalti e di morte. Anche quest'ultima
non è tanto considerata per la sua mostruosità intrinseca, ma per le reazioni
che può indurre e per l'uso propagandistico che se ne può fare.
Una spiegazione dei motivi di
questa priorità della guerra psicologica o intangibile, sulla guerra tangibile,
può essere trovata nella trasformazione del mondo in vero sistema globale.
Un sistema sempre più simile ad un "campo", una Gestalt unitaria,
tenuto insieme dalla mole degli scambi simbolici e comunicativi. La planetarizzazione
dell'economia e la frenetica intensificazione delle comunicazioni ha reso
il nostro mondo sempre più simile ad un "gruppo", nel quale razionalità
e realtà si aggrovigliano inestricabilmente con emotività ed immaginario.
Il mondo è un gruppo e come tale si comporta, mescolando in modo sempre
più vistoso e confuso "l'ordine del giorno" con "l'ordine
della notte". Una cosa ha reso chiara questa guerra ed è l'illusione
illuministica della progressiva razionalità trionfante.
Proprio la metafora del giorno e della notte, suggerita dal compianto Fornari,
mi richiama quanto in guerra, o meglio nelle parole di questa guerra, sia
assente la professione psicologica. I guerrieri, i generali, i giornalisti,
i brokers, persino i politici, tutti insomma sproloquiano ogni giorno di
psicologia: tutti fuorché gli psicologi.
Anche in questa occasione si nota quanto sia lontana la professione psicologica
dalla società e dai mass media.
Sono rari i casi di intervento sui media da parte di psicologi, malgrado
gli aspetti psicologici di questa guerra così importanti.
Eppure la psicologia non è priva
di "armi" per combattere questa guerra. In Italia, fra l'altro,
abbiamo prodotto uno splendido libro che Fornari ha scritto e pubblicato
nel 1966 ("Psicoanalisi della guerra", Feltrinelli) le cui idee
sono illuminanti per il conflitto odierno. Fra le tante idee che Fornari
propone in quel dimenticato volume, ce n'è una che vorrei segnalare.
La guerra secondo l'autore sarebbe una elaborazione paranoica del lutto:
"un insieme di operazioni per cui il Terrificante Interno Depressivo,
emergente sotto forma di senso di colpa per la morte dell'oggetto d'amore
.viene
eluso attraverso un'operazione ambiziosa. Si immagina cioè che l'oggetto
d'amore sia morto non per i propri attacchi fantastici sadici verso il proprio
parente, ma per stregonerie malefiche del nemico" (Op. cit. pag. 14).
Tale ipotesi mi sembra suggestiva e particolarmente fondata: mi chiedo quale
è il lutto che ha portato a questa guerra e qual è il parente morto. Poiché
quasi tutto l'Occidente è coinvolto nella "guerra santa" contro
gli arabi, credo si possa ipotizzare che il parente morto si l'ideale dell'Io
(il padre) da cui l'Occidente è nato e che alla fine del Millennio appare
defunto. Roma sembra la Bisanzio del tardo impero, a Time Square si cammina
fra macerie e barboni, a Londra e a Parigi si respira un'aria da casa di
riposo della Pubblica Assistenza. La morte del secolare nemico d'Occidente,
il comunismo, non ha trovato la santità del capitalismo, bensì ha ucciso
ogni possibilità di sperare nel cambiamento e nel progresso.
Libertà, giustizia, solidarietà si sono rivelati una trinità paterna che
l'Occidente sta seppellendo con le proprie mani.
Come sopportare il peso della colpa che tale "parricidio" getta
sulle 28 nazioni, alla fine di un secolo che sembra non offrire altre occasioni?
Saddam Hussein, Satana, e gli arabi, diavoli minori dell'Inferno, sono le
entità ideale per elaborare un lutto con la paranoia di una guerra. Il peggio
verrà dopo, a guerra finita, quando l'Occidente dovrà guardarsi
dentro.
Guido Contessa
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