L'altruismo: atteggiamento irrazionale, strategia vincente o amore per il prossimo? (Stefania Ottone)
Abstract
La teoria dell’Homo Oeconomicus ha fornito una visione formalizzata dell’uomo che, dominato da una natura tendenzialmente egoista, agisce principalmente nel suo interesse. Questa immagine dell’uomo non è però sempre in linea con l’evidenza empirica. Il contributo proveniente da studi condotti nel campo della sociobiologia e della psicologia ha permesso di superare in parte i limiti della teoria economica classica permettendo di delineare un modello di uomo meno rigoroso, ma al tempo stesso più completo. La conclusione è che la natura dell’uomo non è univoca, come allo stesso modo non lo sono le conseguenze delle sue azioni. L’obiettivo di questo lavoro è proprio quello di ripercorrere le principali tappe che hanno visto modificarsi l’immagine che l’economia ha dell’uomo e della sua natura, a partire dall’Homo Oeconomicus fino ad arrivare al più moderno Homo Oeconomicus Maturus il cui comportamento è determinato non solo dalle leggi di mercato, ma anche dai propri impulsi emotivi.

1. Introduzione
L’altruismo (il termine venne ideato da Comte nel 1850 circa) è un fenomeno complesso che interessa ogni sfera dell’agire umano, senza appartenere in maniera preponderante ed esclusiva a nessuna di esse. Per questo motivo il sentimento dell’amore per il prossimo è stato nel tempo oggetto di studio di svariate discipline che, con il supporto di tecniche di ricerca e ipotesi iniziali differenti, hanno contribuito a definire, nel tempo, un’immagine sempre più completa del fenomeno. In particolare, è interessante notare
come le teorie sociobiologiche e psicologiche siano state in grado di superare i limiti dei modelli economici classici che, razionalizzando il comportamento umano e identificando nell’uomo una natura tendenzialmente egoista, ne proponevano una visione formalizzata, ma non sempre in linea con l’evidenza empirica. L’obiettivo di questo lavoro è quello di ripercorrere, a partire dalla teoria dell’Homo Oeconomicus fino ad arrivare a quella dell’Homo Oeconomicus Maturus, le principali tappe che hanno visto modificarsi l’immagine che l’economia ha dell’uomo e della sua natura, prendendo in considerazione i contributi provenienti dalla sociobiologia e dalla psicologia
che hanno influito sullo sviluppo di tale analisi. L’utilizzo di metodologie di studio, ipotesi iniziali e parametri di valutazione differenti non compromette, infatti, la complementarità di tali approcci, ma permette invece di giungere alla conclusione che la natura dell’uomo non è univoca, come non lo sono le conseguenze delle sue azioni.
Il lavoro è organizzato in cinque parti. Nella prima parte viene analizzato l’approccio economico classico. La tradizione economica vede negli esseri umani la comune tendenza ad agire con un unico scopo: massimizzare il proprio interesse. La natura umana sarebbe così permeata di egoismo al punto tale che gli stimoli provenienti dal mercato risulterebbero più incisivi di qualunque coinvolgimento emotivo. Tale teoria rivela la sua fragilità nel momento in cui si mettono a confronto paradigmi teorici ed evidenza empirica: la diffusione di comportamenti generosi tra gli esseri umani
dimostra infatti che l’Homo Oeconomicus rappresenta un modello non realistico.
I contributi provenienti dagli studi condotti da sociobiologi e psicologi mettono in discussione la tradizione economica evidenziando come i modelli teorici su cui si basa presentino una visione incompleta e dunque imprecisa dell’uomo. Queste discipline consentono così di superare in parte gli errori propri dell’approccio classico fornendo una raffigurazione a “tutto tondo” degli esseri umani. La seconda parte è appunto una rassegna degli studi condotti da sociobiologi e psicologi che, tramite una descrizione delle tipologie comportamentali, influenzano le teorie economiche. Il
primo sottoparagrafo di questa parte è dedicato ai modelli sociobiologici, impostati partendo dal presupposto che solo un comportamento idoneo ha il potenziale per entrare a far parte del patrimonio genetico trasmissibile tramite il meccanismo della selezione naturale. Tale approccio, pur non riconoscendo in un gesto di generosità alcuna forma di altruismo puro, ma esclusivamente la volontà di ottenere un tornaconto, sia esso direttamente rivolto al benefattore stesso (altruismo reciproco o transigente) sia destinato al gene egoista e alla sua diffusione (altruismo intransigente), non nega la razionalità del relativo processo decisionale. Il secondo sottoparagrafo è dedicato poi all’analisi dell’altruismo inteso come valore da internalizzare tramite i meccanismi dell’apprendimento. Si riconosce quindi che soggetti che condividono lo stesso patrimonio culturale si adegueranno in maniera più o meno precisa a norme e convenzioni sociali, rendendo le proprie azioni relativamente prevedibili e permettendo così l’elaborazione di modelli comportamentali formalizzati e allo stesso tempo realistici. Il fatto che negli esseri umani l’altruismo non sia solo un fattore biologico ha un’implicazione notevole: la generosità non è semplicemente una strategia da attuare se conveniente (sia in termini monetari che di prole), ma è anche un valore che si estrinseca nel comportamento umano come risultato finale di un complesso processo di interazione tra personalità del soggetto, storia educativa e norme sociali vigenti.
Infine, il terzo sottoparagrafo riguarda il contributo della psicologia. L’approccio psicologico va oltre le teorie sociobiologiche tanto che, sostenendo l’esistenza di uno stretto legame causa-effetto tra empatia e altruismo, non esclude a priori che accanto al desiderio da parte del benefattore di far cessare una forma di stress indotto dovuto alla partecipazione emotiva alla sofferenza del beneficiario, vi sia la possibilità che l’atto altruistico altro non sia che un gesto di pura
solidarietà.
Nella terza parte si passano in rassegna le teorie economiche moderne e contemporanee (in particolare relative alla teoria dei giochi) che hanno analizzato il fenomeno dell’altruismo in tutti i suoi aspetti. Gli economisti superano l’incompletezza della visione classica dell’uomo iniziando, prima di tutto, a studiare le conseguenze derivanti dalle azioni compiute da soggetti altruisti all’interno della società e dalla loro interazione con soggetti egoisti. Ne consegue che la
generosità, pur con i suoi limiti, può influire positivamente sul comportamento umano (teorema del bambino viziato); altre volte genera problematiche paradossali se non accompagnata da un atteggiamento "kantiano" o supportata dalla fiducia (dilemma del prigioniero, free-riding); infine, in alcuni casi può peggiorare la situazione (dilemma dell’altruista, dilemma del buon samaritano). L’approccio economico propone poi studi condotti nel tentativo di determinare il successo delle
strategie generose e il destino dei buoni, confermando il carattere razionale della scelta di un individuo di comportarsi in maniera altruistica già evidenziato dalle teorie evoluzionistiche.
Il modello economico più completo e più innovativo elaborato relativamente alla solidarietà è probabilmente quello descritto nella quarta parte, proposto dalla teoria dell’Homo Oeconomicus Maturus secondo la quale il sistema dei prezzi non svolge più un ruolo esclusivo e dominante nella determinazione del comportamento umano. Il Crowding-Out Effect è il meccanismo di risposta dei soggetti coinvolti in opere umanitarie a un tentativo da parte delle istituzioni (o di qualunque
altro terzo), di “commercializzare” la solidarietà. La quinta e ultima parte è il risultato di questa analisi interdisciplinare attraverso la quale si vuole dare una visione relativamente completa del fenomeno dell’altruismo. Inoltre si sottolinea come le differenti motivazioni che spingono gli esseri umani a comportarsi generosamente implicano che gli interventi istituzionali non si possono ridurre a regolamentazioni e incentivi monetari, ma devono tener conto di tutti i fattori che determinano il processo decisionale.

2. La teoria economica classica
La teoria economica classica tende a formulare le proprie leggi basandosi su un modello di uomo particolarmente rigido e categorico. Si suppone infatti che l’Homo Oeconomicus sia dotato di una perfetta razionalità e che le sue preferenze siano sempre coerenti e stabili nel tempo. Generalmente gli economisti classici non escludono la possibilità che gli esseri umani siano in grado di provare sentimenti di benevolenza e amore per il prossimo, ma non ritengono che la loro influenza sia tale da determinarne il comportamento. La convinzione è che a ogni cosa sia possibile attribuire un prezzo e che per questo le decisioni vengano prese in base agli incentivi e alle leggi del mercato. Ne deriva che l’Homo Oeconomicus è tendenzialmente egoista e che questo egoismo si riflette nel suo modo di rapportarsi agli altri e nelle sue scelte.
Nonostante già Mandeville (1714) e Hume (1738) avessero identificato nei soggetti la propensione a perseguire in maniera prevalente i propri interessi, è la teoria della mano invisibile di A. Smith (1776) a trattare in maniera approfondita tale concetto. Smith sostiene che l’egoismo non solo non sia da condannarsi, ma anzi sia addirittura desiderabile. E’ ben nota la sua affermazione secondo la quale gli uomini possono consumare carne e pane non per la benevolenza del
macellaio o del panettiere, bensì per il loro egoismo. Infatti, è proprio grazie a questo sentimento che nel mercato i soggetti soddisfano i propri bisogni e perseguono i propri fini. Di conseguenza, la generosità si rivela un’incongruenza dell’agire umano, un atteggiamento irrazionale. Questa visione formalizzata dell’uomo, che nel processo decisionale è dominato dalla sua natura inequivocabilmente egoista, incide notevolmente sul pensiero economico degli anni successivi e, anche i pochi autori che non condividono pienamente la teoria di Smith (in particolar modo il concetto di “egoismo desiderabile”), in realtà non sono in grado di delineare un modello economico basato sulla benevolenza. Ad esempio, Bentham (1789) e J.S. Mill (1865) considerano le azioni dettate dall’amore per il prossimo più come un ideale non riscontrabile nelle società che come un elemento decisionale realmente esistente.
La teoria sostenuta da Smith viene messa in discussione con maggior decisione alla fine del XIX secolo quando autori quali Edgeworth (1881) e Spencer (1897) dubitano del fatto che il comportamento umano possa essere il risultato di sentimenti omogenei e sistematicamente costanti nel tempo, e intuiscono che tra lo spirito di conservazione e la benevolenza si instaura una sorta di compromesso.

3. Il superamento della teoria classica: i contributi della sociobiologia e della psicologia
Nel corso del XX secolo la critica alla teoria dell’Homo Oeconomicus prosegue con il contributo di discipline quali la sociobiologia e la psicologia, il cui merito è quello di aver modificato sostanzialmente il modello di uomo proposto inizialmente dall’economia, delineandone un profilo più realistico e, per questo, meno categorico, in grado di reggere il confronto con l’evidenza empirica.

3.1 Il contributo della sociobiologia
Il fatto che l’evidenza empirica offra una quantità tutt’altro che irrilevante di casi di generosità e solidarietà fa supporre a biologi e sociobiologi che non si tratti semplicemente di un fattore deviante. Il punto di partenza dell’approccio sociobiologico è la teoria darwiniana dell’evoluzione secondo la quale solo i comportamenti idonei (che incrementano cioè la possibilità di sopravvivenza) vengono tramandati alle generazioni future tramite il meccanismo della selezione naturale. Sarebbe infatti improbabile che un comportamento non idoneo sia stato in grado di superare la selezione naturale. La spiegazione più plausibile è che la maggior parte degli atteggiamenti cosiddetti solidali non sia irrazionale, ma venga semplicemente interpretata in maniera errata, essendo in realtà dettata non dall’amore per il prossimo, bensì dall’interesse personale del presunto altruista.
Ed è su questa convinzione che si delineano i contributi teorici della sociobiologia, a partire dalla selezione di gruppo di Wynne-Edwards (1962). Assumendo che le implicazioni etiche e gli imperativi morali non abbiano valore alcuno nel processo evoluzionistico, Wynne-Edwards sostiene che nessuna tipologia comportamentale entrerebbe a far parte del corredo genetico trasmissibile se, anche alla lontana, non avvantaggiasse in qualche modo il benefattore o il
proprio gruppo di appartenenza. La selezione di gruppo si basa quindi su un egoismo collettivo secondo il quale ciò che appare come un gesto di altruismo è invece un sacrificio compiuto nell’interesse superiore della specie.
Il limite della teoria esposta da Wynne-Edwards risiede proprio nell’assumere che la disponibilità al sacrificio per il bene della specie sia distribuita in maniera omogenea tra tutti i soggetti, o perlomeno che questi abbiano destinato una posizione prioritaria alla preservazione del gruppo di appartenenza. Tale principio perde forza nel mondo reale dove ci saranno sempre individui pronti ad approfittare della generosità dei propri simili, senza però parteciparvi attivamente.
Saranno proprio questi soggetti, per i quali la selezione all’interno del gruppo è più forte di quella che opera tra i gruppi, ad avere una maggiore probabilità di riprodursi e di perpetrare il proprio patrimonio genetico nel tempo.
Un’alternativa alla selezione di gruppo è la teoria della selezione di parentela3 elaborata da Hamilton (1964). Scartando l’ipotesi dell’esistenza di una forma di volontà superiore della specie, Hamilton identifica nel gene4 il vero attore egoista. Tuttavia sostiene che l’egoismo del gene non si traduce consequenzialmente in atteggiamenti egoistici da parte dei soggetti. Con una tale prospettiva, infatti, addirittura la riproduzione, essendo annoverata tra i fattori che accorciano la vita, non avrebbe ragion d’essere. Ciò che conta quindi non è tanto la sopravvivenza del singolo individuo, quanto quella del gene in esso custodito e la sua trasmissione alle generazioni future. La disponibilità di un soggetto a sacrificare la propria vita risente quindi positivamente tanto del grado di parentela che lo lega al beneficiario del suo gesto, quanto dello stato di bisogno e del potenziale riproduttivo dello stesso; mentre dipende in maniera inversamente proporzionale dal potenziale
riproduttivo del benefattore e dalla gravità del rischio da lui corso.
Tale teoria trova il suo limite nell’implicazione che deriva dal concetto innovativo di gene egoista: l’altruismo dovrebbe esistere solo tra soggetti legati da un vincolo di parentela, poiché chi salva un parente salva anche una parte di sé. Ma tutto ciò non è in linea con l’evidenza empirica che, a sua volta, offre molti casi di gesti di solidarietà tra soggetti estranei.
Un contributo in tal senso viene da Trivers (1971) che si pone come obiettivo l’identificazione della legge naturale sottostante i casi di altruismo tra soggetti non legati da vincoli di parentela. Il meccanismo dell’altruismo reciproco proposto da Trivers si basa sul principio dello scambio: il soggetto A aiuta il soggetto B con la prospettiva di vedere il proprio gesto prontamente ricambiato in un futuro più o meno prossimo. L’equilibrio raggiunto attraverso la reciprocità è in ogni caso molto fragile e genera rapporti decisamente più instabili rispetto a quelli determinati dal solido vincolo della parentela. Il successo di tale meccanismo dipende, infatti, da molteplici e complessi fattori quali l’onestà dei soggetti coinvolti, il grado di permalosità dei benefattori, la prospettiva di vita del beneficiario o ancora la validità del processo discriminatorio adottato dall’altruista per identificare e riconoscere i truffatori. Ma a questo punto il problema non riguarda tanto la validità del modello quanto la natura umana.

3.2 Cultura e razionalità limitata
Un'estensione dell'analisi evoluzionistica riguarda gli studi condotti sul comportamento da Hayek (1967), Rushton (1982), Witt (1985), Sen (1985), (Boyd, Richerson, 1985) e Simon (1983, 1993) in relazione alla selezione culturale. Tali studiosi ritengono che, vivendo l’uomo all’interno della società e sviluppando in essa una propria identità basata sul senso di appartenenza e sulla conoscenza comune, il processo decisionale non risente unicamente della complessità della natura
umana, ma anche dei valori e delle convenzioni che condivide con gli altri membri. Gli esseri umani ricevono infatti una doppia eredità: quella genetica, invariabile, e quella culturale, modificabile negli anni. Mentre il patrimonio genetico viene tramandato integralmente al momento del concepimento, il patrimonio culturale viene appreso giorno dopo giorno, ed è a sua volta in grado di prendere il sopravvento sul primo nella determinazione del comportamento per far sì che i soggetti riescano a interagire e a comunicare armoniosamente.
Rushton (1982) identifica tre meccanismi tra di loro complementari mediante i quali agisce il processo di internalizzazione: l’imitazione, l’assegnazione di punizioni o ricompense6, l’educazione. La grande differenza esistente tra queste tre forme di apprendimento risiede nel relativo livello di internalizzazione delle norme sociali. I precetti intensamente radicati nei soggetti, i quali scelgono di tenere un determinato comportamento semplicemente perché ritenuto giusto, sono definiti principi morali o valori. Le norme recepite come costrizioni prendono invece il nome di convenzioni
sociali. Nonostante l’imitazione e l’assegnazione di punizioni o ricompense abbiano il merito di indirizzare le azioni dei soggetti in poco tempo, non trasmettono all’individuo dei principi morali o dei valori, ma solo delle convenzioni sociali costrittive e di cui non comprendono pienamente il significato. L’apprendimento si ferma così a livello coattivo o imitativo e, invece di generare soggetti socialmente maturi, crea degli opportunisti7 o dei semplici emulatori. E’ solo attraverso
l’educazione che si diffondono tra gli individui i valori e con essi la presa di coscienza del significato di ogni azione.
L’influenza esercitata sul processo decisionale dalla cultura è riconducibile al concetto di razionalità limitata elaborato da Simon, secondo il quale gli esseri umani non sono in grado di massimizzare la propria utilità essendo incapaci di calcolarne il valore e non avendo informazioni complete. La mancanza di conoscenza perfetta porta i soggetti a temere tutte quelle azioni le cui conseguenze sono difficilmente prevedibili e, per allontanare il rischio dell'ignoto, a preferire l'adesione a norme e convenzioni sociali e a comportarsi secondo “buone abitudini” (Skyrms, 1996; Festa, 1999). Ed è proprio per conformarsi a comportamenti socialmente approvati che durante la fase di apprendimento è facile che gli individui si trovino a internalizzare norme che agevolano azioni altruistiche e che vanno contro l’interesse personale.

3.3 Il contributo della psicologia
E’ a partire dal concetto di empatia che la psicologia influenza le teorie biologiche e sociobiologiche moderne. Si comincia, infatti, a ritenere che la naturale tendenza a farsi coinvolgere emotivamente dalle vicende altrui sia uno degli stimoli fondamentali che spingono l’uomo ad agire, nonché uno tra i principali responsabili di comportamenti solidali.
Partendo quindi dal principio che i soggetti risentono di una partecipazione emotiva alle vicende altrui, Bandura (1977) identifica una natura egoistica nel comportamento generoso di un soggetto nei confronti di un altro: consentendo il sentimento dell’empatia di identificarsi nel prossimo e di condividerne le emozioni, l’osservare un individuo in difficoltà dà origine a una forma di stress indotto. Aiutare il soggetto in questione avrebbe come scopo quello di far cessare questa
sensazione.
Hoffman (1981), pur condividendo parzialmente la teoria esposta da Bandura, ne identifica il limite nella univocità delle motivazioni che dovrebbero indirizzare gli esseri umani nel loro processo decisionale. Hoffman identifica quindi due tipologie di sentimenti contrastanti che potrebbero spingere un individuo a essere altruista nei confronti di un suo simile, a lui legato o meno da vincoli di parentela. Il primo è di carattere solidale: apportare un beneficio a un soggetto in difficoltà.
Il secondo tiene invece conto del fatto che non è possibile separare nettamente l’egoismo umano dal suo antitetico equivalente: un’azione altruistica nelle conseguenze può essere dettata da una motivazione in parte egoistica.
Anche psicologi quali Fishhoff (1982), Deci e Ryan (1985), Batson (1999) sono concordi nel ritenere che le motivazioni che spingono un soggetto a compiere un gesto altruistico possono essere di varia natura ed è impossibile distinguere in maniera netta e precisa le azioni dettate da un puro sentimento di benevolenza da quelle in cui l’unico scopo è ricevere una ricompensa, sia essa pecuniaria, emotiva o sociale. D’altro canto, non sarebbe nemmeno corretto escludere la possibilità che entrambe queste motivazioni siano compresenti.
Hoffman delinea così l’immagine di un uomo la cui natura complessa ed eterogenea si riflette nelle motivazioni, non necessariamente univoche, che lo spingono a rapportarsi in un determinato modo nei confronti del prossimo. Ne deriva che, pur essendo l’empatia un fattore rilevante nel determinare le tendenze comportamentali dei soggetti, tuttavia non sia sufficiente ad assicurare un atteggiamento altruistico automatico. Amore per il prossimo ed egoismo concorrono, in maniera differente da persona a persona, nella scelta del comportamento ritenuto idoneo. E’ evidente, quindi, che ogni sentimento, altruismo compreso, è il risultato di una complessa interazione tra cultura, genetica e personalità (Krebs, 1982; Boone et al., 1999).

4. Il superamento della teoria classica: i modelli
Le ricerche condotte nel campo della sociobiologia e della psicologia hanno permesso di elaborare teorie fondate su una concezione dell’uomo meno categorica. Il contributo proveniente da questi due approcci ha però un peso differente poiché, in realtà, l’influenza delle teorie evoluzionistiche proposte dalla sociobiologia, contestando l’esistenza di una forma di altruismo puro, permette di superare solo parzialmente i limiti dei modelli economici classici. Infatti, se da un lato ammette che atteggiamenti altruistici siano perfettamente razionali, dall’altro esclude la possibilità che gli esseri umani siano spinti ad agire da motivazioni altruistiche. Tuttavia la sociobiologia ha il pregio di aver motivato l’economia, e in particolare la teoria dei giochi, a costruire modelli in cui siano contemplati comportamenti altruisti e in cui il processo decisionale dei soggetti non abbia come unico scopo la massimizzazione del guadagno monetario. E’ la psicologia che, tenendo conto della complessità della natura umana e studiandone le manifestazioni senza escludere l'esistenza di una forma di altruismo puro, permette l'elaborazione di modelli più completi, che non intendono
contrastare la validità dei principi sui quali la teoria economica classica ha disegnato l’uomo, ma renderne i tratti meno rigidi, liberarlo da quella perfezione e da quella costante coerenza che non gli appartengono. Il risultato è ancora un uomo razionale e determinato a raggiungere i propri scopi; ma è anche un essere umano che nel suo processo decisionale tiene conto tanto dei propri interessi egoistici, quanto dei propri sentimenti, dei propri stati d’animo e dei valori internalizzati
tramite il meccanismo dell’apprendimento.

4.1 Gli effetti dell’altruismo
L’inserimento del concetto di altruismo nella teoria economica ha spinto gli economisti a cercare di determinare come l’inserimento di soggetti generosi all’interno della società possa modificare la qualità dei rapporti interpersonali. Dai risultati di tali studi emerge il fatto che la non univocità che caratterizza la natura dell’altruismo si riflette anche nelle sue conseguenze. Da tale considerazione deriva che sarebbe errato ritenere la benevolenza dei soggetti sempre e comunque sufficiente a porre fine a rivalità economiche e a garantire la cooperazione. Molti fattori quali l’intensità dell’amore per il prossimo, la visione più o meno paternalista dei soggetti altruisti, la dimensione della comunità in cui i benefattori operano e il numero di soggetti egoisti presenti, entrano in gioco e non permettono di dare per scontati gli effetti della solidarietà (Collard, 1978).
La teoria dei giochi ha contribuito notevolmente a discernere i casi nei quali l’altruismo arreca solo un danno da quelli in cui, anche se con dei limiti e sotto determinate condizioni, migliora la situazione. Un caso tipico è quello descritto dal dilemma del prigioniero. Due soggetti devono interagire e ciascuno deve decidere se utilizzare una strategia cooperativa oppure se defezionare. Se entrambi scelgono la cooperazione, ottengono un pay-off maggiore del caso in cui
entrambi decidano di defezionare. Ma se uno dei due stabilisce di cooperare e la controparte opta per la defezione, il primo giocatore otterrà il pay-off peggiore e il secondo il risultato migliore in assoluto. In assenza di altruismo l’equilibrio di Nash, dato dalla propensione di entrambi i giocatori alla non collaborazione, non corrisponde all’ottimo paretiano che invece implica la disponibilità dei soggetti a cooperare.
La situazione potrebbe cambiare supponendo di inserire l’altruismo nel gioco. Calcolando la propria utilità tenendo conto anche del benessere dell’altro giocatore in maniera direttamente proporzionale al grado di generosità che lo caratterizza, un soggetto altruista sceglierà di collaborare se il valore che attribuisce all’utilità dell’altro è tale da rendere il pay-off relativo alla strategia cooperativa maggiore di quello ottenibile defezionando. Ma il grado di altruismo non è
l’unico fattore a incidere sull’equilibrio. Anche il numero di giocatori altruisti che partecipano al gioco ne influenza il risultato. E’ infatti vero che se si incontrano due soggetti altruisti per i quali la cooperazione è conveniente si può raggiungere l’ottimo paretiano; ma è altrettanto vero che se un soggetto altruista la cui strategia dominante è la collaborazione incontra un soggetto egoista che sicuramente defezionerà, la situazione ottimale non verrà comunque raggiunta.
Questo non implica assolutamente che “l’altruismo sia in grado di produrre effetti solo se è molto intenso e bilaterale” (Schianchi, 1997). Può capitare infatti che il peso attribuito da un giocatore altruista al benessere della controparte non sia sufficiente a rendere la strategia cooperativa dominante, ma sia comunque in grado di renderla non dominata. Una tale variazione nell’ordinamento delle preferenze trasforma il dilemma del prigioniero in un gioco di fiducia
(Collard, 1978; Schianchi, 1997). Confidando nel fatto che l’altro giocatore deciderà di collaborare, la scelta ultima del soggetto moderatamente altruista cadrà comunque sulla strategia cooperativa. L’inserimento della fiducia nel gioco supera così i limiti dovuti a un sentimento d’amore per il prossimo non particolarmente intenso.
Ma come un grado troppo basso di generosità rischia di non apportare alcun miglioramento, allo stesso modo il destino dell’altruismo puro è il fallimento. E’ il caso descritto nel dilemma dell’altruista dove si suppone che i giocatori siano due altruisti estremi, cioè che diano priorità agli interessi degli altri soggetti. A causa del loro ordinamento di preferenze l'equilibrio di Nash ancora una volta non coincide con l'ottimo paretiano. I due soggetti si trovano, infatti, ad affrontare il cosiddetto problema del “dopo di te”: ognuno è disposto a fare ciò che massimizza l’utilità dell’altro, ma alla fine nessuno prende l’iniziativa poiché ciascuno dei due soggetti aspetta che l’altro decida cosa fare (Rawls, 1972). La situazione si sbloccherebbe solo se uno dei due soggetti fosse egoista o se i due giocatori fossero moderatamente altruisti.
Talvolta, invece, l’altruismo, anche se moderato e diffuso, non è in grado di migliorare la situazione se non accompagnato da un atteggiamento "kantiano"10 (Collard, 1978). Si pensi a una comunità all’interno della quale si deve redistribuire la ricchezza per mezzo di trasferimenti volontari dai soggetti benestanti a quelli indigenti. La cooperazione volontaria genera il problema del free-riding che non si risolverebbe nemmeno se i soggetti ricchi fossero altruisti: paradossalmente, se un individuo benestante trae beneficio dal miglioramento delle condizioni di vita di un soggetto
povero, il suo benessere aumenta maggiormente se è un altro a privarsi di parte del proprio reddito. Per questo motivo aspetterà che sia qualche altro soggetto generoso a effettuare il trasferimento con la conseguenza che, anche in una società di altruisti, se tutti ragionassero in questo modo, nulla verrebbe fatto per i bisognosi. Solo il senso del dovere dei soggetti facoltosi sarebbe in grado di evitare questo inconveniente.
Un modello altrettanto interessante è quello esposto da Becker (1981) nel teorema del bambino viziato. L’idea è che all’interno di una famiglia un soggetto altruista possa "contagiare" gli altri membri tendenzialmente egoisti tramite il proprio comportamento. Infatti, se manifestasse la sua benevolenza trasferendo, in maniera direttamente proporzionale alla ricchezza complessiva della famiglia, parte del suo reddito agli altri componenti egoisti, questi per curare i propri interessi adotterebbero comportamenti cooperativi e agirebbero in modo tale da massimizzare il benessere
della famiglia stessa. In particolare, si asterrebbero dal compiere qualunque azione possa incidere negativamente sul reddito dei familiari (e quindi su quello complessivo) se il relativo guadagno non fosse superiore alla riduzione del trasferimento ricevuto dal "benefattore".

Mentre il dilemma del prigioniero e il teorema del bambino viziato, nonostante i limiti evidenziati, rappresentano situazioni in cui l’altruismo apporta un miglioramento, così come il dilemma dell’altruista pur decretando il fallimento dell’altruismo estremo tuttavia evidenzia l’esistenza di una benevolenza moderata, per contro il dilemma del buon samaritano descrive una situazione in cui la generosità dei soggetti influenza sempre negativamente il risultato finale.
Il dilemma del buon samaritano (Buchanan, 1975) prevede che due soggetti vivano per due periodi e che, ricevendo una rendita solo nel primo, si trovino di fronte a una scelta di consumo intertemporale. La natura dei due individui è però decisamente differente: mentre il primo è un soggetto egoista, il secondo è altruista e decide di sussidiare il consumo futuro dell’altro trasferendogli parte della sua rendita. Tale scelta comporta un’evidente inefficienza: per il
soggetto egoista il costo del consumo presente in termini di consumo futuro è pari a zero e la sua rendita verrà spesa interamente nel primo periodo.
Nemmeno il tentativo di impartire una lezione morale al soggetto egoista si rivelerebbe un correttivo efficace. Infatti, se anche il benefattore, per scoraggiare il suo beneficiario dallo spendere tutto nel primo periodo, decidesse di consumare una quantità di risorse superiore all'ottimo paretiano nella prima fase della sua vita, riducendo al minimo la possibilità di consumo futuro sia per sé che per il compagno, l’equilibrio finale risulterebbe comunque inefficiente dal
punto di vista economico.
In sintesi, non sempre un gesto di generosità comporta un miglioramento della situazione. Gli uomini sono complessi e imperfetti; non sarebbe quindi logico aspettarsi di ritrovare nelle conseguenze delle loro azioni quella univocità che non caratterizza la loro natura. Anche un sentimento come l’amore per il prossimo ha i suoi limiti che non sempre è possibile superare.

4.2 I buoni arrivano primi
Gli studi condotti sugli effetti dell’altruismo all’interno della società hanno come conseguenza quella di riproporre una questione già sollevata nel campo della sociobiologia: se i soggetti altruisti tendono a essere sfruttati, per quale motivo la generosità è così diffusa?
E’ Axelrod (1984) che, con l’aiuto della teoria dei giochi e di alcune nozioni provenienti dalle discipline sociobiologiche, tenta di determinare il destino dei buoni confrontando, all’interno di tornei, il successo delle strategie generose con quello conseguito dalle strategie cattive. Anche se impostate secondo i criteri della teoria dei giochi, le ricerche di Axelrod risentono notevolmente delle teorie evoluzioniste, specialmente nel terzo torneo quando la collaborazione con Hamilton si rivela determinante al punto tale che i pay-off monetari vengono sostituiti con vincite in senso darwiniano (in termini di prole). I risultati stessi della sua analisi sono una revisione in termini economici delle teorie evoluzioniste. In particolare, il successo della Tit for Tat evidenzia come, anche dal punto di vista economico, l’altruismo possa risultare non un sacrificio disinteressato e conseguentemente irrazionale, ma piuttosto come una strategia vincente e per questo conveniente.
Gli studi condotti da Axelrod dimostrano come i concetti di razionalità e self-interest in realtà non siano correlati in maniera esclusiva all’egoismo e, per tale motivo, confermano la teoria esposta da Sen (1977) secondo la quale i soggetti che agiscono sempre in maniera egoistica sono degli stupidi razionali.
In linea con questo principio e influenzati dalle teorie evoluzioniste sono autori quali Hirschleifer (1982), Frank (1988) e Robson (1990), secondo i quali gli impulsi non egoisti influenzano le preferenze dei soggetti in vista del superamento del test evolutivo. “Ciò che a noi riesce gradito è in massima parte ciò che serve ai nostri interessi” (Hirschleifer, 1982). Argyle (1991), analizzando le società complesse, sostiene che un certo grado di cooperazione sia indispensabile per la loro sopravvivenza. Ma poiché il tasso di cooperazione aumenta in assenza di egoismo (Dawes, van
de Kraagt, Orbell, 1988), ecco che l’altruismo ancora una volta risulta essere una strategia razionale e conveniente. Le conclusioni tratte da Axelrod vengono condivise anche da Rabin (1993), il quale, oltre a sistematizzarle, le approfondisce inserendo nella sua analisi il fattore emotività e riconoscendo nel desiderio di reciprocità il fattore che fa optare i soggetti
per la strategia del Tit for Tat. Gli esseri umani sono infatti portati a essere altruisti con chi si comporta generosamente, ma sono anche disposti a sacrificarsi per punire chi ha dimostrato falsità ed egoismo. E’ interessante notare come i suddetti autori, nell’elaborare il proprio modello, in realtà risentano solo parzialmente degli studi condotti nel campo della psicologia. Le loro teorie non contemplano, infatti, l’esistenza dell’altruismo puro e considerano un gesto di generosità nei confronti di un soggetto non disposto a ricambiare il favore come il risultato di un processo valutativo errato.

5. La teoria dell’Homo Oeconomicus Maturus
Il modello che risente di più del contributo della psicologia e che per questo tiene maggiormente conto della complessità della natura umana e ne studia le manifestazioni, è quello elaborato tramite la teoria dell’Homo Oeconomicus Maturus (Frey, 1997, 1999). Il nuovo uomo economico non nega affatto che le leggi di mercato incidano sul processo decisionale, ma non consente che queste svolgano un ruolo esclusivo o necessariamente dominante. Le sue azioni dipendono infatti dall’interazione tra le motivazioni personali e il sistema dei prezzi. La reazione positiva dell’Homo
Oeconomicus Maturus di fronte a incentivi monetari o regolamentazioni, a differenza di quanto sosteneva la teoria economica classica, ora non è per niente scontata. Si potrebbero infatti verificare situazioni di Crowding-In nelle quali le iniziative intraprese sul mercato accentuano semplicemente l’effetto delle motivazioni personali, ma si potrebbe anche assistere a casi di Crowding-Out dove l’aumento del prezzo di una prestazione o del livello di regolamentazione a essa legato ha un effetto distorsivo sulle originarie intenzioni dei soggetti.
Mentre la teoria economica classica definirebbe il Crowding-Out una reazione perversa, il risultato di un ragionamento errato di un individuo poco razionale, la teoria dell’Homo Oeconomicus Maturus lo interpreta invece come la naturale conseguenza del simultaneo e sistematico influsso di motivazioni materialiste e morali sul comportamento umano. In particolare, sono tre i processi psicologici che innescano negli individui reazioni di rigetto nei confronti di interventi esogeni; reazioni più intense nel caso di regolamentazione poiché, in caso di introduzione di ricompense
pecuniarie, c’è sempre e comunque una possibilità di scelta se aderirvi o no che imposizioni da parte di un’autorità non consentono.
Prima di tutto, un intervento esogeno non permette al soggetto interessato di autodeterminarsi: l’iniziativa personale e il coinvolgimento emotivo in un’attività vengono infatti sostituiti da un controllo esterno, portando il soggetto in questione a declinare ogni responsabilità scaricandola sull’istituzione intervenuta. In secondo luogo, la sua autostima viene mortificata: l’inserimento di interventi quali pagamenti pecuniari o regolamentazioni urta profondamente la sensibilità e
l’orgoglio di colui che vede la propria competenza e il proprio coinvolgimento non apprezzati. Infine, non c’è possibilità di autoespressione: interventi esogeni non permettono al soggetto di esibire al prossimo le proprie motivazioni intrinseche.
Lo studio di questi processi psicologici (Deci e Ryan, 1985) ha permesso di individuare le condizioni sotto le quali un intervento crea un effetto di Crowding-Out: sostanzialmente ne soffrono le situazioni in cui le motivazioni dettate dallo spirito umanitario degli uomini sono rilevanti.
Un’iniziativa da parte delle istituzioni rischia infatti di minimizzare e sottovalutare la competenza e la carica emotiva degli interessati; ancor peggio se l’intervento tocca in maniera uniforme tutti i soggetti, ponendo sullo stesso piano individui mossi da motivazioni intrinseche differenti, sia nella natura che nell’intensità. Questo accade quando le relazioni tra i soggetti sono molto strette, o quando gli individui si sentono emotivamente coinvolti nell’attività che stanno esercitando.
Scegliere la strada di una fitta regolamentazione quando invece la moralità dei soggetti sarebbe sufficiente a condizionarne positivamente il comportamento, potrebbe quindi rivelarsi una scelta svantaggiosa (Frey, 1997). Come sostenuto da Sen (1999), infatti, esiste un trade-off tra etica e regolamentazione. Dove il senso morale dei soggetti è particolarmente sviluppato, un eccessivo sviluppo dell’apparato istituzionale genererebbe semplicemente effetti di Crowding-Out. Sarebbe invece un investimento proficuo da parte delle amministrazioni pubbliche utilizzare risorse per
trasmettere valori ai soggetti tramite il canale dell’educazione. Le loro scelte porterebbero così a equilibri meno fragili e non sarebbe necessaria una continua opera di monitoraggio e di regolamentazione da parte delle istituzioni.

6. Conclusioni
Le ricerche condotte sul comportamento umano hanno dimostrato che un individuo non è il risultato esclusivo di una combinazione genetica o del mercato o, ancora, della società e della sua cultura. Un uomo è tutto questo insieme e non si può quindi pensare di esaurire l’analisi di un fenomeno complesso quale l’altruismo limitandosi a studiarne le manifestazioni e le conseguenze all’interno di un’unica disciplina. Ne deriverebbe un’immagine incompleta, e per questo
imprecisa, degli esseri umani. Solo un’analisi interdisciplinare permette di dare un senso alla generosità senza che questa risulti come un evidente segno di irrazionalità. Un gesto di solidarietà non può essere nemmeno definito categoricamente come una semplice risposta al sistema dei prezzi, o una strategia evolutiva o un atteggiamento assunto in seguito all’interiorizzazione delle
norme morali vigenti all’interno della società, poiché in realtà si tratta del risultato di un processo di interazione tra istinto, cultura e meccanismi che regolano ogni sfera dell’agire umano a qualunque livello. L’importanza dell’amore per il prossimo dipende dal periodo storico in cui vivono i soggetti, dalla società in cui ricevono il loro patrimonio culturale e, naturalmente, dal loro carattere (van de Ven, 2000). La principale conseguenza è che un gesto di solidarietà rende difficile
la distinzione tra casi in cui si può parlare di altruismo puro e quando invece è l’opportunismo ad avere il sopravvento. Esperimenti condotti nel campo dell’economia offrono sia esempi di soggetti propensi alla generosità e all’onestà (Andreoni, 1995) che di falsi altruisti (Hoffman et al., 1991).
La teoria dell’Homo Oeconomicus Maturus ha il merito di tener conto del fatto che l’uomo economico non mette da parte il proprio patrimonio genetico e culturale per affidarsi totalmente al sistema dei prezzi, ma compie le proprie scelte
facendo interagire motivazioni personali e leggi di mercato. Ne deriva che, in attività dove contano principalmente lo spirito umanitario e il coinvolgimento emotivo, l’inserimento di incentivi monetari e regolamentazioni non solo non dà necessariamente esiti positivi, ma può anche risultare un inutile e dannoso spreco di risorse, generando effetti di Crowding- Out in seguito ai quali alla mortificazione dell’impegno dei soggetti coinvolti consegue una riduzione delle loro prestazioni
(Titmuss, 1970; Drake et al., 1982; Stewart, 1992, Keown, 1997; Fehr, Gächter, 1997).
Nemmeno gli effetti di un gesto di generosità sono scontati e necessariamente positivi. Può accadere infatti che, a differenza di quanto potrebbe suggerire il buon senso, l’intervento di soggetti altruisti provochi più danni di quanto non farebbero individui egoisti. Altre volte invece, l’amore per il prossimo rischia di non avere effetto se non vengono applicati dei correttivi o se non è accompagnato da un atteggiamento kantiano o da un sentimento di fiducia. Sarebbe quindi utile che sia le istituzioni private che quelle pubbliche tenessero conto di tutto ciò nella fase di
elaborazione delle loro linee di intervento. Talvolta, infatti, un programma di educazione dei soggetti potrebbe rivelarsi più proficuo e incisivo di regolamentazioni o incentivi.
Un esempio interessante è costituito proprio dall’atteggiamento tendenzialmente non cooperativo degli studenti in economia: non è chiaro se sia lo studio dell’economia a indirizzarli verso un comportamento egoista o se semplicemente le persone naturalmente egoiste siano attratte dalle materie economiche (Frank, Gilovich e Regan, 1993).
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