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Associazione Centro ELIS , Roma, 20 marzo 2000 /
Il senso del lavoro fra crisi occupazionale e nuove professionalità (estratto) Pierpaolo Donati , Università di Bologna

1. La sfida: il senso del lavoro nelle economie dopo-moderne.

1.1. La scena mondiale è sempre più dominata dal flagello della disoccupazione. La creazione di masse di individui che, nonostante la disponibilità o addirittura il desiderio di lavorare, risulta socialmente `non richiesta', inutile a fini produttivi e quindi ­ così si dice - inutile per la società. Il fenomeno si accompagna a quello della crescente mancanza di "motivazioni al lavoro", di persone cioè che ­ per le ragioni più svariate - non hanno interesse a trovare un lavoro `regolare', e adottano stili di vita (il più delle volte di mera sopravvivenza) senza che il lavoro ne sia una dimensione portante. La disoccupazione è tale quando la mancanza di lavoro non è voluta, mentre il rifiuto del lavoro o la sostituzione di esso con azioni non lavorative sono scelte di vita ovvero preferenze soggettive. Si tratta di fenomeni diversi, ma la loro contemporanea diffusione su larga scala rivela una crisi profonda del lavoro come attività oggettiva e soggettiva. Le soluzioni a questa "crisi" vengono in genere cercate in tre direzioni: nella deregolazione (prevalente nel nord-America, per favorire la new economy), in una nuova regolazione (prevalente in Europa) e ancora nella direzione di adattare i sistemi formativi ai nuovi profili professionali emergenti da un mercato del lavoro in via di trasformazione epocale. Ma tutti questi rimedi sono parziali e riduttivi. Lib, lab e fitness dei sistemi formativi operano dentro un comune quadro di riferimento che fa del lavoro, ancora una volta, una questione di "adattamento" nelle capacità di prestazione, quale che sia l'ideologia funzionale dell'apprendimento che la sostiene, mentre è la natura sociale del lavoro che si sta modificando. Se le economie più arretrate dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo, di terzo e quarto mondo, possono ancora pensare di porre rimedio alla disoccupazione e alla mancanza o al rifiuto del lavoro mediante politiche economiche e di altro genere già sperimentate in passato dai Paesi che li hanno preceduti sulla via (una delle vie) della modernizzazione, il che è peraltro assai discutibile, nei Paesi avanzati invece questi fenomeni rivelano dei paradossi: com'è possibile che la ricchezza economica aumenti e il lavoro diminuisca ? com'è possibile la crescita, seppure contenuta, del PIL e, in via generale, l'espansione del mercato, senza che ciò si traduca in più posti di lavoro e in più impegno sul lavoro ? L'analisi economica non risponde in modo soddisfacente a questi interrogativi. Essa rileva bensì fenomeni come la globalizzazione dei mercati e la finanziarizzazione dell'economia, e più in generale la nascita di una nuova "economia virtuale", ma il fatto di rilevare questi aspetti non risponde certamente al problema di capire perché il lavoro diventi un paradosso e come lo si debba affrontare. Le cause del "paradosso lavoro" (cercato e negato al contempo, che sta dappertutto e insieme si va riducendo in ogni luogo) sono evidentemente assai complesse. Si tratta di cause strutturali e di ordine soggettivo. I principali fattori sono certamente economici e politici. E occorre darne conto punto per punto. Ma, in ogni caso, ciò che colpisce è il ruolo preponderante che in questa modificazione del rapporto persona-lavoro gioca la difficoltà, incapacità, talora l'impossibilità, della cultura di ridefinire operativamente il senso del lavoro. Le risposte ai paradossi, infatti, riflettono in genere un'ideologia di determinismo tecnologico pressoché assoluto: si risponde, insomma, dicendo che i fattori tecnologici aumentano la produttività al punto da rendere superfluo il lavoro umano. Ma ciò contrasta palesemente e profondamente con il bisogno di lavoro delle persone e dell'intera umanità. L'analisi deve necessariamente partire dall'idea che, dietro l'aumento dei disoccupati, della emarginazione più o meno volontaria dal lavoro e delle difficoltà di inserimento professionale, vi sono due fenomeni di enorme portata: la crescente incertezza del lavoro su scala universale e alcuni mutamenti radicali nei nessi fra lavoro e agire sociale. Ciò comporta la messa in discussione di tutti i pilastri dell'organizzazione sociale, a partire da quel principio di equivalenza monetaria fra reddito e lavoro che è stato l'asse portante delle moderne economie industriali e mercantili. Alla base di tale rivolgimento, c'è una vera e propria rivoluzione del senso del lavoro. Il problema appare nei termini dello svuotamento e vanificazione dello stesso concetto di lavoro.

1.2. Per affrontare adeguatamente il problema del lavoro occorre comprendere che il suo diventare un paradosso rappresenta da un lato l'esito storico di contraddizioni inerenti alle concezioni socio-culturali del lavoro che abbiamo ereditato dalle formazioni storico- sociali del passato e, dall'altro, l'apertura di nuove contraddizioni. Oggi, diversamente dal passato, il lavoro non è più, prima e sopra ogni altra cosa, un fatto economico (nel senso inteso dalla maggior parte delle teorie economiche, quale fattore di produzione), ma diventa sempre più un fatto sociale. Dire economico e sociale vuol dire evocare due mondi, due livelli di realtà che non solo si differenziano sempre di più, ma, per via dei complessi giochi interattivi, tendono anche a generare forme di realtà che non stanno, per così dire, sullo stesso piano, e quindi non sono includibili a vicenda e talora non sono neppure comparabili fra loro. In un contesto postmoderno di lavoro, non c'è solo il fatto che il fattore economico ha sempre più bisogno di un contesto sociale qualificato per operare. E non c'è solo il fatto che, sempre in tale contesto, il sociale ha sempre più una valenza (e un riflesso) economico. Si apre una nuova stagione di confronto fra economico e sociale che non ha più quasi nulla a che fare con la questione sociale tramandata dall'Ottocento e in seguito riformulata in vari modi. Se l'epoca moderna ha rappresentato l'esplosione dell'economico contro il sociale, e se si è arrivati ad una apparente colonizzazione di quest'ultimo da parte del primo, ciò non è avvenuto e non avviene senza che il sociale esprima dei fenomeni emergenti che portano il lavoro su un altro piano rispetto al conflitto ­ per così dire ­ orizzontale fra dimensioni economiche e sociali del lavoro. Se, da un lato, l'economico esprime (genera) un suo `dominio sociale' (in quanto proietta il suo codice simbolico, e le relative operazioni e istituzioni, sull'intera società), dall'altro il sociale - definito da autonome dimensioni dell'agire ­ esprime (genera) un `dominio economico' che, per quanto non venga riconosciuto come appartenente al `dominio economico' proprio dei sistemi lib/lab, è pur sempre una "altra" economia: l'economia dopo-moderna è questa `eccedenza', che si produce attraverso una differenziazione non solo asimmetrica, ma anche qualitativa (su piani non comparabili) fra sistemi economici e sistemi sociali. Per affrontare una tale complessità, occorre adottare una nuova prospettiva di analisi e valutazione socio-culturale del lavoro, che lo interpreti come relazione sociale, e precisamente come relazione sui generis, con tutto ciò che questa affermazione (solo in apparenza semplice) porta con sé. L'ipotesi verso la quale occorre orientarsi è che la disoccupazione e gli altri fenomeni di dis-adattamento al lavoro (disagio, rifiuto, trasformazione caotica delle attività occupazionali) possono essere correttamente compresi solo se si assume un approccio relazionale al lavoro che lo osservi come fenomeno morfogenetico e come effetto emergente largamente imprevisto e imprevedibile, che è generato da persone umane le quali cercano relazioni sociali significative in e attraverso cui operare scambi sociali che realizzino un maggior benessere (come vita buona) di tutti coloro che sono coinvolti nella produzione di beni e servizi. Se si scorre la letteratura degli studiosi e ricercatori sui temi del lavoro e della disoccupazione, si può facilmente notare che virtualmente nessun approccio definisce il lavoro come relazione sociale in senso pieno e proprio. Beninteso, tutti dicono di trattare il lavoro come relazione sociale, e in certa misura lo fanno, ma quasi sempre da posizioni (teorie e pratiche) non-relazionali. La relazione di lavoro è vista talora come il prodotto dell'azione dei singoli e talora come il prodotto di strutture e sistemi, senza che il lavoro emerga come relazione in sé (la relazione-lavoro) e quindi senza che essa giochi un ruolo autonomo, secondo la realtà sui generis che le appartiene. Il lavoro viene comunemente definito come una prestazione, come un interscambio organico con la natura, come uno scambio materiale di beni e servizi, come un ruolo, come una condizione umana, e in altri modi ancora, ma quasi mai come una relazione sociale "piena" che implica quattro dimensioni fondamentali (mezzi o risorse, obiettivi, norme e valori), le loro interazioni e le relazioni fra tali elementi e tali interazioni. In altre parole, il lavoro è visto in genere come un'attività (un fare) dentro un contesto di relazioni sociali, ma quasi mai come relazione sociale in se stessa. Manca una teoria sociologica generalizzata del lavoro come relazione sociale. Cosicché gran parte dei rimedi proposti per combattere la disoccupazione e le forme di non-adattamento al lavoro sono sterili o hanno effetti perversi. In breve, occorre cercare un quadro concettuale innovativo, che consenta di tradurre la disoccupazione (o mal-adattamento al lavoro) in nuove professionalità, in modo da farci comprendere il senso e le funzioni del lavoro nella società del presente e del prossimo futuro fuori delle alienazioni moderne e post-moderne. Intendere il lavoro come relazione sociale apre orizzonti inediti per i decenni futuri. La sfida è quella della differenziazione dei lavori mentre al contempo si deve mantenere l'unità della distinzione-guida del lavoro come attività umana significante, alla quale connettere un insieme di costi e benefici (privati e di cittadinanza). Occorre trovare risposte alla difficoltà di continuare a parlare di lavoro in un contesto socio-culturale che in apparenza annulla il lavoro come "universale di senso". Lo si può fare se e solo se, come per altri tipi di relazioni (si pensi alla famiglia), l'unità cui ci si riferisce non è quella di una cosa o di un modello, di cui si deve ammettere per forza di cose la continua trasformazione, ma è relazionale, nel senso che è quella di una relazione che si eccede proprio come relazione, ossia genera e rigenera se stessa come pluralità di eccedenze relazionali. Affinché la società possa liberare il lavoro, e con ciò liberare la persona umana attraverso il lavoro, non senza di esso o fuori di esso, si devono evitare sia le forme della mercificazione capitalistica più aggressiva (caratteristici del cosiddetto `modello americano'), sia le forme strumental-adattative tipiche dei sistemi neo- corporativi che si reggono su politiche regolative di compromesso fra mercato capitalistico e democrazia politica (prevalenti nel cosiddetto 'modello europeo'), sia ancora le forme miste (soluzioni di mix fra le prime due, come la cosiddetta 'terza via' proposta da A. Giddens). Tutte queste modalità di intendere il lavoro restano preda dei paradossi perché continuano a inquadrare il problema delle trasformazioni del lavoro dentro i quadri culturali della modernità.


1.3. Alla fine del XX secolo, il problema della disoccupazione si presenta in termini del tutto nuovi. Si devono abbandonare i fondamenti di quella specifica "civiltà del lavoro" che ha caratterizzato la modernità e, con essi, anche la concettualizzazione che sinora si è fatta della disoccupazione. La questione-disoccupazione non si impone solo per il fatto che le statistiche internazionali mostrano che il fenomeno persiste e anzi si aggrava su scala mondiale, in tutte le sue forme (ILO 1997). La novità non è neppure data da una rinnovata coscienza che la disoccupazione è il prodotto di profonde ingiustizie sociali e che il fenomeno conduce a effetti socialmente disastrosi, in quanto comporta esclusione sociale, frammenta il tessuto delle relazioni umane ed erode le basi della solidarietà sociale. Tutto questo già lo sapevamo, benché recenti ricerche abbiano apportato nuove evidenze e abbiano messo in luce nuove manifestazioni di questi processi generali. Ciò che rende radicalmente nuovo il problema della disoccupazione è il fatto che, in esso e attraverso di esso, si rivela un cambiamento storico epocale che sconvolge tutto il mondo del lavoro e con esso tutta la società. Le caratteristiche quanto-qualitative che la disoccupazione sta assumendo rivelano:
i) che è in atto un processo di precarizzazione del lavoro su scala universale;
ii) che i confini tradizionali fra lavoro e non-lavoro cadono o si spostano, e, più in generale, che emergono mutamenti radicali nei nessi fra lavoro e agire sociale.
Se si rimane prigionieri della vecchia dicotomia lavoro/disoccupazione, intendendo il "vero lavoro" come occupazione stabile-regolare-di lunga durata, e la disoccupazione come mancanza di "vero lavoro", ci si viene a trovare in una situazione carica di paradossi insolubili. Tali paradossi non possono più essere gestiti da soluzioni lib/lab (di mix fra liberalismo e socialismo), cioè mediante rimedi basati su un bilanciamento fra de- regolazione (libertà, flessibilità) e ri-regolazione (sicurezza, controllo) del lavoro, ad opera rispettivamente dei due grandi attori della modernità, il mercato e lo Stato. Entro tale quadro (lib/lab), nonostante tutti gli sforzi che vengono compiuti, specie in termini di fitness fra mercato del lavoro e sistemi formativi, la disoccupazione continua ad aumentare (ovviamente se si considerano le esternalità, mentre a scala locale può esserci una diminuzione), per il semplice fatto che le trasformazioni del mercato del lavoro sono sempre e necessariamente più rapide di quelle dei sistemi formativi. Viene allora da chiedersi se il quadro concettuale entro cui il problema del lavoro viene compreso e affrontato non sia intrinsecamente distorto o almeno insufficiente. A mio avviso, la risposta deve essere affermativa. Per capire i nuovi termini della questione disoccupazione bisogna ridefinire il lavoro. Ma, per fare questo, occorre uscire dal quadro culturale con cui la modernità ha concettualizzato il lavoro. In questo contributo, non intendo fare un inventario, neppure in sintesi, della letteratura in argomento. Il compito che mi prefiggo è quello di ridefinire il campo oggettuale, in un duplice senso:
(i) da un lato, in negativo, vorrei mettere in discussione il framework che attualmente domina l'argomento del lavoro/disoccupazione;
(ii) dall'altro, in positivo, vorrei sostenere la tesi che la ricerca dei rimedi al problema della disoccupazione dovrebbe essere affidata ad approcci e strumenti che considerano il lavoro come attività pienamente e propriamente sociale.
In altri termini, intendo affrontare il tema della disoccupazione a partire dal problema del significato del lavoro. Il tema è stato alquanto trascurato negli ultimi due decenni (Castillo 1997). Solo di recente questa tematica ha ripreso vigore (Casey 1995; Gamst 1995; Simpson, Harper Simpson 1995; Morandé Court 1998). Vorrei mostrare come e perché la lotta alla disoccupazione dipenda primariamente dal modo in cui una cultura intende il senso del lavoro, e dalle implicazioni che ne trae per l'assetto della società.
1.4. Il problema della mancanza di lavoro è oggi definito essenzialmente in termini di scarsità economica. Tutti sostengono che il lavoro sicuro e soddisfacente diventa una risorsa e una chance di vita sempre più scarsa. Di fronte a questa constatazione, due sono le tesi che si contendono il campo.

i) Da un lato, c'è chi ritiene che, proprio perché diventa sempre più scarso, il lavoro "vero" diventa ancora più importante e discriminante nel forgiare i destini e i percorsi di vita delle popolazioni umane. La disoccupazione è vista soprattutto come un problema di giustizia sociale nella distribuzione e redistribuzione delle risorse, e dunque come un problema di lotte sociali, soprattutto da parte di chi è sfavorito (giovani, donne, gruppi sociali professionalmente dequalificati) (Pahl ed. 1988; Kieselbach ed. 1997).

ii) Dall'altro, c'è chi sostiene che, al contrario, stiamo andando verso "la fine della società del lavoro" (Arbeitgesellschaft) , ovvero verso la "fine del lavoro" (Rifkin 1995), nel senso che sarebbe storicamente esaurito il progetto di una società "centrata sul lavoro". Chi sostiene questa tesi - che si presenta con molte e diverse formulazioni - ritiene che occorra abbandonare il concetto di lavoro e propone di passare al concetto di "attività" o simili (Dahrendorf 1988). I disoccupati (coloro che sono dismessi dal sistema dei posti di lavoro "vero") potrebbero essere eliminati valorizzando le attività di ogni tipo aventi un carattere non competitivo, con logiche produttive differenti da quelle proprie dei settori occupazionali "centrali" di ieri (ben remunerati e garantiti nella loro sicurezza), dando più importanza a quello che viene chiamato "otium attivo", al tempo libero e alla qualità di vita extra-lavorativa (non orientata al lavoro). Chi ha ragione ? Evidentemente, il confronto fra queste due tesi deve essere posto correttamente. Per porlo correttamente, si deve chiarire a quale significato di lavoro si fa riferimento. Gli autori non sono sempre espliciti a questo riguardo. Il dibattito è spesso mal posto, perché vengono utilizzate delle concezioni culturali non comparabili di lavoro. E poi, che senso ha definire il lavoro come bene scarso che deve lasciar spazio ad "attività libere" ? Se si mantiene il significato tradizionale di lavoro, così come è definito nella società industriale tayloriana-fordista, è evidente che un problema di scarsità esiste. Ma ci si deve chiedere se soltanto quel tipo di lavoro sia "vero lavoro". La prima tesi (largamente sostenuta dai sindacati) mantiene la concezione moderna del lavoro: ciò può essere necessario per le società in via di modernizzazione, ancora in fase di industrializzazione, ma non è più adeguato per le società già modernizzate. La seconda tesi si propone di abbandonare il concetto di lavoro come attività necessitata, ed esalta la flessibilità e la creatività, ma spesso sembra parlare il linguaggio di una cultura che non ha nulla a che fare con il lavoro, perché si riferisce ad attività espressive o ad occupazioni economicamente marginali, che non sembrano tali da poter sostenere un'economia di sviluppo reale. Chi sostiene questa seconda tesi prospetta una società poco decifrabile in termini di caratteristiche umane. In questo contributo, io vorrei sostenere una terza tesi, diversa da entrambe quelle appena dette. Contro la prima tesi, osservo che le trasformazioni del lavoro nelle economie avanzate sono oggi radicali, cosicché diventa inevitabile abbandonare la definizione moderna di lavoro. Contro la seconda, osservo che il concetto di "attività" amplifica e differenzia in modo morfogenetico il concetto e la realtà del lavoro, ma non può sostituirlo. La società del futuro sarà una società che enfatizzerà ancor più che nel passato l'importanza del lavoro, ma il senso e la forma del lavoro dovranno per questo essere radicalmente modificati. Ciò avrà enormi conseguenze sul sistema dei diritti sociali collegati al lavoro e sull'intera configurazione societaria. Il campo delle scelte e delle tensioni è segnato dall'alternativa fra la disoccupazione di massa (magari mascherata come liberazione dal lavoro) e la liberazione del lavoro.

1.5. Il filo rosso delle argomentazioni qui presentate è il seguente. In primo luogo, si tratta di comprendere la disoccupazione come un prodotto specifico della cultura moderna (che ha "inventato" il lavoro e la disoccupazione come categorie meccaniche ed astratte), per vedere se le categorie di lavoro/disoccupazione possano essere ridefinite in un contesto di post-modernità (pr. 2). In secondo luogo, analizzo i cambiamenti culturali e strutturali del lavoro che oggi sono in atto nelle economie più avanzate, e il loro possibile impatto sulla riorganizzazione della società. Ritengo che la differenziazione delle culture del lavoro, e in particolare la divisione fra culture secolarizzate e umanistiche, diventi un tratto centrale nell'assetto societario (pr. 3). In terzo luogo, sviluppo l'argomento fondamentale del mio contributo. La tesi è che, mentre nelle epoche pre-moderne il lavoro è stato soprattutto un'attività servile di ricambio organico con la natura, e nell'epoca moderna industriale è stato soprattutto una prestazione mercificata, per la produzione di beni e servizi intesi come "oggetti" (manufatti, costruzioni artificiali), nell'epoca dopo-moderna il lavoro viene ad essere soprattutto assunto come valore della relazione sociale, in quanto è valorizzato per le qualità relazionali che esso offre e implica. E come tale viene differenziato in diverse attività. Ciò è vero sia per chi lavora, sia per chi gode dei frutti del lavoro, sia ancora per le forme di interazione-intreccio fra produttore e consumatore. Naturalmente non vengono meno le culture precedenti, che continuano a caratterizzare i segmenti più tradizionali nelle società avanzate e larghi strati di popolazione nelle società in via di modernizzazione. Ma il lavoro si differenzia in varie culture, asimmetriche fra loro, che derivano da un processo di morfogenesi sociale, insieme culturale e strutturale, del lavoro oltre l'assetto industrialistico. Per comparare e valutare le nuove culture del lavoro, occorre cogliere i criteri basilari con cui ciascuna di esse valuta il lavoro, in relazione alla più ampia costellazione dei criteri spirituali e materiali che caratterizzano ciascuna cultura (pr. 4). Le conclusioni del presente contributo portano a ritenere che, se la concezione prevalente del lavoro rimane quella dell'epoca industriale, com'è ancora il caso in larga parte del mondo, il problema della disoccupazione viene affrontato con vecchi strumenti, caratterizzati dalla ricerca di nuove forme di regolazione degli interessi e delle transazioni fra attori economici e politici che si muovono nella trama dei rapporti fra Stato e mercato, che sono intrinsecamente insufficienti a far fronte al problema della disoccupazione. Per affrontare adeguatamente i cambiamenti in atto, strutturali e culturali, occorre un nuovo framework che osservi il lavoro come azione reciproca fra soggetti che interagiscono come produttori-distributori-consumatori nell'economia civile. In sostanza, la mia tesi è che, con il declino dell'assetto industriale (fordista), regolato dal welfare state post-bellico, la progressiva riduzione del lavoro fordista non significhi la "fine" del lavoro, e neppure l'esaltazione di attività di tempo libero o di volontariato, ma la ridefinizione del lavoro come attività comunicativa significante in reti altamente differenziate di produzione-distribuzione-consumo di cui dobbiamo comprendere la dinamica.

2. La cultura moderna del lavoro e il fenomeno della disoccupazione.

2.1. Bisogna partire dal fatto che la disoccupazione non è un "dato naturale", ma una costruzione sociale. Come e perché viene socialmente costruita la disoccupazione ? Nella sua condizione naturale, l'essere umano è naturaliter portato a svolgere attività da cui trarre i sostegni necessari per la sua esistenza. E, quando non trova le risorse in natura, crea egli stesso gli strumenti e le condizioni per far fronte ai propri bisogni. Se non lo può fare, ciò accade perché altri esseri umani glielo impediscono, appropriandosi delle risorse o creando vincoli e barriere sociali. Possiamo anche dire che, mentre il lavoro è un'attività naturale per l'essere umano, e come tale una esigenza e una risorsa non scarsa, è la società che configura le condizioni sotto le quali il lavoro può diventare una esigenza e una risorsa scarsa. Questa è stata la "scoperta", e insieme la costruzione, della modernità (Rousseau, Marx, ecc.) che non va dimenticata. In effetti, il concetto di disoccupazione è sconosciuto alle società pre-moderne e nasce con l'epoca moderna. E anche nella modernità la disoccupazione viene continuamente ridefinita nei suoi referenti simbolici e tecnici (per quanto debba sempre avere il carattere di una condizione non volontaria).

2.2. Attraverso percorsi storici assai complessi, che qui non ho spazio per richiamare, la concezione del lavoro giunge sino a noi con caratteristiche che possiamo sintetizzare come segue.

a) La cultura moderna del lavoro esaspera le proprie contraddizioni e perde i suoi presupposti.
La modernità ha introdotto profonde tensioni nei significati del lavoro, in quanto lo ha slegato dall'agire di comunità e lo ha mercificato. Togliendo al lavoro gran parte delle mediazioni sociali di cui esso è portatore, ha creato la figura del lavoratore astratto, pronto per qualsiasi uso. Tale concezione, via via che si è sviluppata, ha esasperato conflitti, ambivalenze e contraddizioni insite nel lavoro. In concreto: ha accentuato le ambivalenze fra le componenti strumentali e quelle espressive del lavoro, fra l'astratta ricerca della valorizzazione e la pratica svalutazione dei suoi aspetti umani; ha fatto crescere le contraddizioni fra lavoro come prestazione funzionale e lavoro come autorealizzazione del soggetto, ponendo un'antitesi fra il lavoro astratto che produce valori di scambio e il lavoro concreto che produce valori d'uso. Il dibattito sul tempo di lavoro (numero delle ore lavorative) è sempre stato emblematico a questo riguardo. Nelle richieste di riduzione del tempo lavorativo da un lato e di maggiore flessibilità dei tempi di lavoro dall'altro, si sono rivelati tutti questi conflitti. In ogni caso, noi assistiamo oggi al rifiuto di questi conflitti. Dietro tale rifiuto, si manifesta la fine dei presupposti che hanno sostenuto la cultura specificatamente moderna del lavoro. Ne possiamo menzionare tre fondamentali. Primo. Laddove la società pre-moderna trattava il lavoro come una relazione sociale in cui sfera privata e sfera pubblica si incontravano e si sovrapponevano (agire di comunità), la modernità inventa il lavoro nella sua forma pura, depurata dagli elementi di altri ambiti di azione e funzioni sociali. Essa concentra e polarizza il lavoro nella sfera pubblica, di contro alla vita privata. Si generano allora enormi tensioni fra vita pubblica e privata. Un segno della crisi dell'assetto moderno sta precisamente nel fatto che, oggi, la società chiede che il lavoro si ricolleghi in modo significativo alla vita privata. Nascono nuove relazioni fra sfera lavorativa e sfera della vita privata che manifestano esigenze di raccordo e interazione che la modernità ha negato, o semplicemente dimenticato. Non si potrà più ritornare alla Gemeinschaft. Tuttavia è evidente che il lavoro odierno rifiuta la caratterizzazione "pubblica" di merce astratta che ha assunto nell'epoca capitalistica classica. Il lavoro diventa di nuovo una zona di incontro e sovrapposizione fra esigenze di vita privata e pubblica. Secondo. La gerarchia fra lavori "umili" e "nobili" propria delle culture antiche, che si rifletteva nella maggior parte delle lingue europee (ponos/ergon, labor/opus, labour/work, Mühe/Werk), a seguito dell'affermarsi della Riforma protestante, dell'elaborazione teorica della economia politica e della rivoluzione borghese, viene livellata e addirittura rovesciata. Come si esprime Saint-Simon, l'imperativo è lottare contro i parassiti, contro chi non lavora, contro il dominio delle classi improduttive. Come dirà alla fine dell'Ottocento Durkheim, è la divisione del lavoro ("organica") che diventa la fonte principale della solidarietà sociale. Al posto dell'etica signorile subentra l'etica universale del lavoro che richiede specializzazione. Ma, nel corso degli ultimi tre decenni, anche quest'ultima cultura del lavoro inizia a declinare. Sia l'ideologia lavoristica socialista sia quella marxista, che personificano il lavoro nel tipo sociale dell'"operaio", sia la visione funzionalistica del lavoro 'organico' sono entrati in una crisi sempre più profonda (si è parlato di "de-motivazione" al lavoro, di "allergia" al lavoro , di "rifiuto" del lavoro). L'ideologia moderna che vedeva nel lavoro il riferimento primo e quasi assoluto dell'identità personale e sociale, e unico titolo di legittimazione per l'appartenenza alla società (Accornero 1980), subisce un crollo radicale, non sta più al centro del sistema culturale. Da dovere, il lavoro diventa piuttosto un diritto. Ma il punto è che il lavoro diventa problematico come misura del valore della persona umana e come titolo del suo riconoscimento in quanto membro della società. L'antropologia moderna del lavoro non è più sostenibile e deve essere sostituita. Come ? Secondo l'idea che il lavoro non è l'essenza dell'uomo (perché l'Uomo non è riducibile al lavoro), ma è una dimensione essenziale della persona umana in quanto essere relazionale. Terzo. La modernità ha configurato il lavoro secondo un tipo di razionalità orientata allo scopo, le cui due componenti sono state quella tecnica (nel perseguimento dello scopo nel gioco tra uomo e natura) e quella strategico-economica (perseguimento dello scopo nel gioco fra attori economici). Marx ha distinto questi due processi denominandoli rispetivamente "processo lavorativo" e "processo di valorizzazione". Egli mostra come la modernità li renda inter-dipendenti e concomitanti. Ma oggi essi tendono a differenziarsi sempre più nettamente. E ciò mette in crisi quella concezione moderna (risalente a Marx e ai socialisti) che fa del lavoro salariato (nella contrapposizione salariati vs padroni) il paradigma dell'assetto micro e macro-sociologico della società. La razionalità economica dell'azienda e del mercato non sono più il paradigma su cui possa essere modellata l'intera società. Per dirla in altri termini, il lavoro e la posizione dei lavoratori nel processo produttivo non sono più considerati come il principio fondamentale di organizzazione delle strutture sociali. La dinamica dello sviluppo sociale non è più concettualizzata in termini di conseguenze dei conflitti di potere intra-aziendali, amplificati nell'intero sistema economico. La razionalità sociale non può più essere definita in base al modello "lavoristico" che la concepisce come ottimizzazione del rapporto fra mezzi tecnico- organizzativi e fini economici.

b) La disoccupazione si rivela sempre meno un fenomeno "funzionale", e sempre più un fenomeno paradossale.
Se è vero che la disoccupazione non è altro che un capitolo della storia più generale del lavoro, allora può essere istruttivo vedere come cambia il senso della disoccupazione via via che la cultura del lavoro si modifica. La teoria economica moderna concepisce la disoccupazione prevalentemente in modo "funzionale", in quanto la riferisce a quei lavoratori che, per ragioni indipendenti dalla loro volontà e tecnicamente legati al progresso economico (come l'adozione di nuove tecnologie, le ristrutturazioni aziendali, ecc.), debbono essere dismessi. Ma, allorché il loro numero e i problemi che essi sollevano diventano un "problema sociale", le considerazioni "funzionali" della teoria economica non reggono più e debbono essere messe in discussione. In senso tecnico, il termine disoccupazione - così come è definita dagli organismi internazionali (cfr. EU Report 1998) - appare alla fine dell'Ottocento. Essa si riferisce ad una condizione di perdita di lavoro in una struttura sociale e una cultura particolari. La struttura sociale consiste in un vero e proprio mercato del lavoro, formalmente libero, e con elevata mobilità sociale, in cui il lavoro possa essere ottenuto e perduto. La contrattazione è bensì relazionale (Williamson 1985), ma tale relazionalità è ridotta a utilità. La cultura richiede che il lavoro sia concepito come una cosa comperabile e vendibile, negoziabile, come un'attività trasformabile in senso acquisitivo (per non essere vincolata a caratteri ascrittivi, affettivi, particolaristici, localistici e di orientamento alla collettività). Qualora vi fosse una regolazione sociale tale da impedire queste caratteristiche strutturali e culturali, la disoccupazione diventerebbe un'altra cosa. Sappiamo che, in certe società, essa è stata ridotta o anche formalmente annullata mediante l'uso di un potere politico totalizzante (come nella ex-Urss). Ma questo modo di procedere ha condotto ad esiti economici catastrofici (bassi salari, bassa produttività, bassi consumi, ecc.), e soprattutto ha svilito il significato e l'etica del lavoro.