1.
La sfida: il senso del lavoro nelle economie dopo-moderne.
1.1. La scena mondiale è sempre più dominata dal flagello della disoccupazione.
La creazione di masse di individui che, nonostante la disponibilità
o addirittura il desiderio di lavorare, risulta socialmente `non richiesta',
inutile a fini produttivi e quindi così si dice - inutile per la
società. Il fenomeno si accompagna a quello della crescente mancanza
di "motivazioni al lavoro", di persone cioè che per le ragioni più
svariate - non hanno interesse a trovare un lavoro `regolare', e adottano
stili di vita (il più delle volte di mera sopravvivenza) senza che
il lavoro ne sia una dimensione portante. La disoccupazione è tale
quando la mancanza di lavoro non è voluta, mentre il rifiuto del lavoro
o la sostituzione di esso con azioni non lavorative sono scelte di
vita ovvero preferenze soggettive. Si tratta di fenomeni diversi,
ma la loro contemporanea diffusione su larga scala rivela una crisi
profonda del lavoro come attività oggettiva e soggettiva. Le soluzioni
a questa "crisi" vengono in genere cercate in tre direzioni:
nella deregolazione (prevalente nel nord-America, per favorire la
new economy), in una nuova regolazione (prevalente in Europa)
e ancora nella direzione di adattare i sistemi formativi ai nuovi
profili professionali emergenti da un mercato del lavoro in via di
trasformazione epocale. Ma tutti questi rimedi sono parziali e riduttivi.
Lib, lab e fitness dei sistemi formativi operano
dentro un comune quadro di riferimento che fa del lavoro, ancora una
volta, una questione di "adattamento" nelle capacità di prestazione,
quale che sia l'ideologia funzionale dell'apprendimento che la sostiene,
mentre è la natura sociale del lavoro che si sta modificando. Se le
economie più arretrate dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo, di
terzo e quarto mondo, possono ancora pensare di porre rimedio alla
disoccupazione e alla mancanza o al rifiuto del lavoro mediante politiche
economiche e di altro genere già sperimentate in passato dai Paesi
che li hanno preceduti sulla via (una delle vie) della modernizzazione,
il che è peraltro assai discutibile, nei Paesi avanzati invece questi
fenomeni rivelano dei paradossi: com'è possibile che la ricchezza
economica aumenti e il lavoro diminuisca ? com'è possibile la crescita,
seppure contenuta, del PIL e, in via generale, l'espansione del mercato,
senza che ciò si traduca in più posti di lavoro e in più impegno sul
lavoro ? L'analisi economica non risponde in modo soddisfacente a
questi interrogativi. Essa rileva bensì fenomeni come la globalizzazione
dei mercati e la finanziarizzazione dell'economia, e più in generale
la nascita di una nuova "economia virtuale", ma il fatto di rilevare
questi aspetti non risponde certamente al problema di capire perché
il lavoro diventi un paradosso e come lo si debba affrontare. Le cause
del "paradosso lavoro" (cercato e negato al contempo, che sta dappertutto
e insieme si va riducendo in ogni luogo) sono evidentemente assai
complesse. Si tratta di cause strutturali e di ordine soggettivo.
I principali fattori sono certamente economici e politici. E occorre
darne conto punto per punto. Ma, in ogni caso, ciò che colpisce è
il ruolo preponderante che in questa modificazione del rapporto persona-lavoro
gioca la difficoltà, incapacità, talora l'impossibilità, della cultura
di ridefinire operativamente il senso del lavoro. Le risposte ai paradossi,
infatti, riflettono in genere un'ideologia di determinismo tecnologico
pressoché assoluto: si risponde, insomma, dicendo che i fattori tecnologici
aumentano la produttività al punto da rendere superfluo il lavoro
umano. Ma ciò contrasta palesemente e profondamente con il bisogno
di lavoro delle persone e dell'intera umanità. L'analisi deve necessariamente
partire dall'idea che, dietro l'aumento dei disoccupati, della emarginazione
più o meno volontaria dal lavoro e delle difficoltà di inserimento
professionale, vi sono due fenomeni di enorme portata: la crescente
incertezza del lavoro su scala universale e alcuni mutamenti radicali
nei nessi fra lavoro e agire sociale. Ciò comporta la messa in discussione
di tutti i pilastri dell'organizzazione sociale, a partire da quel
principio di equivalenza monetaria fra reddito e lavoro che è stato
l'asse portante delle moderne economie industriali e mercantili. Alla
base di tale rivolgimento, c'è una vera e propria rivoluzione del
senso del lavoro. Il problema appare nei termini dello svuotamento
e vanificazione dello stesso concetto di lavoro.
1.2. Per affrontare adeguatamente il problema del lavoro occorre comprendere
che il suo diventare un paradosso rappresenta da un lato l'esito storico
di contraddizioni inerenti alle concezioni socio-culturali del lavoro
che abbiamo ereditato dalle formazioni storico- sociali del passato
e, dall'altro, l'apertura di nuove contraddizioni. Oggi, diversamente
dal passato, il lavoro non è più, prima e sopra ogni altra cosa, un
fatto economico (nel senso inteso dalla maggior parte delle teorie
economiche, quale fattore di produzione), ma diventa sempre più un
fatto sociale. Dire economico e sociale vuol dire evocare due mondi,
due livelli di realtà che non solo si differenziano sempre di più,
ma, per via dei complessi giochi interattivi, tendono anche a generare
forme di realtà che non stanno, per così dire, sullo stesso piano,
e quindi non sono includibili a vicenda e talora non sono neppure
comparabili fra loro. In un contesto postmoderno di lavoro, non c'è
solo il fatto che il fattore economico ha sempre più bisogno di un
contesto sociale qualificato per operare. E non c'è solo il fatto
che, sempre in tale contesto, il sociale ha sempre più una valenza
(e un riflesso) economico. Si apre una nuova stagione di confronto
fra economico e sociale che non ha più quasi nulla a che fare con
la questione sociale tramandata dall'Ottocento e in seguito riformulata
in vari modi. Se l'epoca moderna ha rappresentato l'esplosione dell'economico
contro il sociale, e se si è arrivati ad una apparente colonizzazione
di quest'ultimo da parte del primo, ciò non è avvenuto e non avviene
senza che il sociale esprima dei fenomeni emergenti che portano il
lavoro su un altro piano rispetto al conflitto per così dire orizzontale
fra dimensioni economiche e sociali del lavoro. Se, da un lato, l'economico
esprime (genera) un suo `dominio sociale' (in quanto proietta il suo
codice simbolico, e le relative operazioni e istituzioni, sull'intera
società), dall'altro il sociale - definito da autonome dimensioni
dell'agire esprime (genera) un `dominio economico' che, per quanto
non venga riconosciuto come appartenente al `dominio economico' proprio
dei sistemi lib/lab, è pur sempre una "altra" economia: l'economia
dopo-moderna è questa `eccedenza', che si produce attraverso una differenziazione
non solo asimmetrica, ma anche qualitativa (su piani non comparabili)
fra sistemi economici e sistemi sociali. Per affrontare una tale complessità,
occorre adottare una nuova prospettiva di analisi e valutazione socio-culturale
del lavoro, che lo interpreti come relazione sociale, e precisamente
come relazione sui generis, con tutto ciò che questa affermazione
(solo in apparenza semplice) porta con sé. L'ipotesi verso la quale
occorre orientarsi è che la disoccupazione e gli altri fenomeni di
dis-adattamento al lavoro (disagio, rifiuto, trasformazione caotica
delle attività occupazionali) possono essere correttamente compresi
solo se si assume un approccio relazionale al lavoro che lo osservi
come fenomeno morfogenetico e come effetto emergente largamente imprevisto
e imprevedibile, che è generato da persone umane le quali cercano
relazioni sociali significative in e attraverso cui operare scambi
sociali che realizzino un maggior benessere (come vita buona) di tutti
coloro che sono coinvolti nella produzione di beni e servizi. Se si
scorre la letteratura degli studiosi e ricercatori sui temi del lavoro
e della disoccupazione, si può facilmente notare che virtualmente
nessun approccio definisce il lavoro come relazione sociale in
senso pieno e proprio. Beninteso, tutti dicono di trattare il
lavoro come relazione sociale, e in certa misura lo fanno, ma quasi
sempre da posizioni (teorie e pratiche) non-relazionali. La relazione
di lavoro è vista talora come il prodotto dell'azione dei singoli
e talora come il prodotto di strutture e sistemi, senza che il lavoro
emerga come relazione in sé (la relazione-lavoro) e quindi senza che
essa giochi un ruolo autonomo, secondo la realtà sui generis
che le appartiene. Il lavoro viene comunemente definito come una prestazione,
come un interscambio organico con la natura, come uno scambio materiale
di beni e servizi, come un ruolo, come una condizione umana, e in
altri modi ancora, ma quasi mai come una relazione sociale "piena"
che implica quattro dimensioni fondamentali (mezzi o risorse, obiettivi,
norme e valori), le loro interazioni e le relazioni fra tali elementi
e tali interazioni. In altre parole, il lavoro è visto in genere come
un'attività (un fare) dentro un contesto di relazioni sociali, ma
quasi mai come relazione sociale in se stessa. Manca una teoria sociologica
generalizzata del lavoro come relazione sociale. Cosicché gran parte
dei rimedi proposti per combattere la disoccupazione e le forme di
non-adattamento al lavoro sono sterili o hanno effetti perversi. In
breve, occorre cercare un quadro concettuale innovativo, che consenta
di tradurre la disoccupazione (o mal-adattamento al lavoro) in nuove
professionalità, in modo da farci comprendere il senso e le funzioni
del lavoro nella società del presente e del prossimo futuro fuori
delle alienazioni moderne e post-moderne. Intendere il lavoro come
relazione sociale apre orizzonti inediti per i decenni futuri. La
sfida è quella della differenziazione dei lavori mentre
al contempo si deve mantenere l'unità della distinzione-guida del
lavoro come attività umana significante, alla quale connettere un
insieme di costi e benefici (privati e di cittadinanza). Occorre trovare
risposte alla difficoltà di continuare a parlare di lavoro in un contesto
socio-culturale che in apparenza annulla il lavoro come "universale
di senso". Lo si può fare se e solo se, come per altri tipi di relazioni
(si pensi alla famiglia), l'unità cui ci si riferisce non è quella
di una cosa o di un modello, di cui si deve ammettere per forza di
cose la continua trasformazione, ma è relazionale, nel senso che è
quella di una relazione che si eccede proprio come relazione, ossia
genera e rigenera se stessa come pluralità di eccedenze relazionali.
Affinché la società possa liberare il lavoro, e con ciò liberare la
persona umana attraverso il lavoro, non senza di esso o fuori di esso,
si devono evitare sia le forme della mercificazione capitalistica
più aggressiva (caratteristici del cosiddetto `modello americano'),
sia le forme strumental-adattative tipiche dei sistemi neo- corporativi
che si reggono su politiche regolative di compromesso fra mercato
capitalistico e democrazia politica (prevalenti nel cosiddetto 'modello
europeo'), sia ancora le forme miste (soluzioni di mix fra
le prime due, come la cosiddetta 'terza via' proposta da A. Giddens).
Tutte queste modalità di intendere il lavoro restano preda dei paradossi
perché continuano a inquadrare il problema delle trasformazioni del
lavoro dentro i quadri culturali della modernità.
1.3. Alla fine del XX secolo, il problema della disoccupazione si
presenta in termini del tutto nuovi. Si devono abbandonare i fondamenti
di quella specifica "civiltà del lavoro" che ha caratterizzato
la modernità e, con essi, anche la concettualizzazione che sinora
si è fatta della disoccupazione. La questione-disoccupazione non si
impone solo per il fatto che le statistiche internazionali mostrano
che il fenomeno persiste e anzi si aggrava su scala mondiale, in tutte
le sue forme (ILO 1997). La novità non è neppure data da una rinnovata
coscienza che la disoccupazione è il prodotto di profonde ingiustizie
sociali e che il fenomeno conduce a effetti socialmente disastrosi,
in quanto comporta esclusione sociale, frammenta il tessuto delle
relazioni umane ed erode le basi della solidarietà sociale. Tutto
questo già lo sapevamo, benché recenti ricerche abbiano apportato
nuove evidenze e abbiano messo in luce nuove manifestazioni di questi
processi generali. Ciò che rende radicalmente nuovo il problema della
disoccupazione è il fatto che, in esso e attraverso di esso, si rivela
un cambiamento storico epocale che sconvolge tutto il mondo del lavoro
e con esso tutta la società. Le caratteristiche quanto-qualitative
che la disoccupazione sta assumendo rivelano:
i) che è in atto un processo di precarizzazione del lavoro su scala
universale;
ii) che i confini tradizionali fra lavoro e non-lavoro cadono o si
spostano, e, più in generale, che emergono mutamenti radicali nei
nessi fra lavoro e agire sociale.
Se si rimane prigionieri della vecchia dicotomia lavoro/disoccupazione,
intendendo il "vero lavoro" come occupazione stabile-regolare-di
lunga durata, e la disoccupazione come mancanza di "vero lavoro",
ci si viene a trovare in una situazione carica di paradossi insolubili.
Tali paradossi non possono più essere gestiti da soluzioni lib/lab
(di mix fra liberalismo e socialismo), cioè mediante rimedi basati
su un bilanciamento fra de- regolazione (libertà, flessibilità) e
ri-regolazione (sicurezza, controllo) del lavoro, ad opera rispettivamente
dei due grandi attori della modernità, il mercato e lo Stato. Entro
tale quadro (lib/lab), nonostante tutti gli sforzi che vengono
compiuti, specie in termini di fitness fra mercato del lavoro
e sistemi formativi, la disoccupazione continua ad aumentare (ovviamente
se si considerano le esternalità, mentre a scala locale può esserci
una diminuzione), per il semplice fatto che le trasformazioni del
mercato del lavoro sono sempre e necessariamente più rapide di quelle
dei sistemi formativi. Viene allora da chiedersi se il quadro concettuale
entro cui il problema del lavoro viene compreso e affrontato non sia
intrinsecamente distorto o almeno insufficiente. A mio avviso, la
risposta deve essere affermativa. Per capire i nuovi termini della
questione disoccupazione bisogna ridefinire il lavoro. Ma, per fare
questo, occorre uscire dal quadro culturale con cui la modernità ha
concettualizzato il lavoro. In questo contributo, non intendo fare
un inventario, neppure in sintesi, della letteratura in argomento.
Il compito che mi prefiggo è quello di ridefinire il campo oggettuale,
in un duplice senso:
(i) da un lato, in negativo, vorrei mettere in discussione il framework
che attualmente domina l'argomento del lavoro/disoccupazione;
(ii) dall'altro, in positivo, vorrei sostenere la tesi che la ricerca
dei rimedi al problema della disoccupazione dovrebbe essere affidata
ad approcci e strumenti che considerano il lavoro come attività pienamente
e propriamente sociale.
In altri termini, intendo affrontare il tema della disoccupazione
a partire dal problema del significato del lavoro. Il tema è stato
alquanto trascurato negli ultimi due decenni (Castillo 1997). Solo
di recente questa tematica ha ripreso vigore (Casey 1995; Gamst 1995;
Simpson, Harper Simpson 1995; Morandé Court 1998). Vorrei mostrare
come e perché la lotta alla disoccupazione dipenda primariamente dal
modo in cui una cultura intende il senso del lavoro, e dalle
implicazioni che ne trae per l'assetto della società. 1.4.
Il problema della mancanza di lavoro è oggi definito essenzialmente
in termini di scarsità economica. Tutti sostengono che il lavoro sicuro
e soddisfacente diventa una risorsa e una chance di vita sempre
più scarsa. Di fronte a questa constatazione, due sono le tesi che
si contendono il campo.
i) Da un lato,
c'è chi ritiene che, proprio perché diventa sempre più scarso, il
lavoro "vero" diventa ancora più importante e discriminante
nel forgiare i destini e i percorsi di vita delle popolazioni umane.
La disoccupazione è vista soprattutto come un problema di giustizia
sociale nella distribuzione e redistribuzione delle risorse, e dunque
come un problema di lotte sociali, soprattutto da parte di chi è sfavorito
(giovani, donne, gruppi sociali professionalmente dequalificati) (Pahl
ed. 1988; Kieselbach ed. 1997).
ii) Dall'altro, c'è chi sostiene che, al contrario, stiamo andando
verso "la fine della società del lavoro" (Arbeitgesellschaft)
, ovvero verso la "fine del lavoro" (Rifkin 1995), nel senso
che sarebbe storicamente esaurito il progetto di una società "centrata
sul lavoro". Chi sostiene questa tesi - che si presenta con molte
e diverse formulazioni - ritiene che occorra abbandonare il concetto
di lavoro e propone di passare al concetto di "attività"
o simili (Dahrendorf 1988). I disoccupati (coloro che sono dismessi
dal sistema dei posti di lavoro "vero") potrebbero essere
eliminati valorizzando le attività di ogni tipo aventi un carattere
non competitivo, con logiche produttive differenti da quelle proprie
dei settori occupazionali "centrali" di ieri (ben remunerati
e garantiti nella loro sicurezza), dando più importanza a quello che
viene chiamato "otium attivo", al tempo libero e
alla qualità di vita extra-lavorativa (non orientata al lavoro). Chi
ha ragione ? Evidentemente, il confronto fra queste due tesi deve
essere posto correttamente. Per porlo correttamente, si deve chiarire
a quale significato di lavoro si fa riferimento. Gli autori non sono
sempre espliciti a questo riguardo. Il dibattito è spesso mal posto,
perché vengono utilizzate delle concezioni culturali non comparabili
di lavoro. E poi, che senso ha definire il lavoro come bene scarso
che deve lasciar spazio ad "attività libere" ? Se si mantiene
il significato tradizionale di lavoro, così come è definito nella
società industriale tayloriana-fordista, è evidente che un problema
di scarsità esiste. Ma ci si deve chiedere se soltanto quel tipo di
lavoro sia "vero lavoro". La prima tesi (largamente sostenuta
dai sindacati) mantiene la concezione moderna del lavoro: ciò può
essere necessario per le società in via di modernizzazione, ancora
in fase di industrializzazione, ma non è più adeguato per le società
già modernizzate. La seconda tesi si propone di abbandonare il concetto
di lavoro come attività necessitata, ed esalta la flessibilità e la
creatività, ma spesso sembra parlare il linguaggio di una cultura
che non ha nulla a che fare con il lavoro, perché si riferisce ad
attività espressive o ad occupazioni economicamente marginali, che
non sembrano tali da poter sostenere un'economia di sviluppo reale.
Chi sostiene questa seconda tesi prospetta una società poco decifrabile
in termini di caratteristiche umane. In questo contributo, io vorrei
sostenere una terza tesi, diversa da entrambe quelle appena
dette. Contro la prima tesi, osservo che le trasformazioni del lavoro
nelle economie avanzate sono oggi radicali, cosicché diventa inevitabile
abbandonare la definizione moderna di lavoro. Contro la seconda, osservo
che il concetto di "attività" amplifica e differenzia in
modo morfogenetico il concetto e la realtà del lavoro, ma non può
sostituirlo. La società del futuro sarà una società che enfatizzerà
ancor più che nel passato l'importanza del lavoro, ma il senso e la
forma del lavoro dovranno per questo essere radicalmente modificati.
Ciò avrà enormi conseguenze sul sistema dei diritti sociali collegati
al lavoro e sull'intera configurazione societaria. Il campo delle
scelte e delle tensioni è segnato dall'alternativa fra la disoccupazione
di massa (magari mascherata come liberazione dal lavoro) e
la liberazione del lavoro.
1.5. Il filo
rosso delle argomentazioni qui presentate è il seguente. In primo
luogo, si tratta di comprendere la disoccupazione come un prodotto
specifico della cultura moderna (che ha "inventato" il lavoro
e la disoccupazione come categorie meccaniche ed astratte), per vedere
se le categorie di lavoro/disoccupazione possano essere ridefinite
in un contesto di post-modernità (pr. 2). In secondo luogo, analizzo
i cambiamenti culturali e strutturali del lavoro che oggi sono in
atto nelle economie più avanzate, e il loro possibile impatto sulla
riorganizzazione della società. Ritengo che la differenziazione delle
culture del lavoro, e in particolare la divisione fra culture secolarizzate
e umanistiche, diventi un tratto centrale nell'assetto societario
(pr. 3). In terzo luogo, sviluppo l'argomento fondamentale del mio
contributo. La tesi è che, mentre nelle epoche pre-moderne il lavoro
è stato soprattutto un'attività servile di ricambio organico con la
natura, e nell'epoca moderna industriale è stato soprattutto una prestazione
mercificata, per la produzione di beni e servizi intesi come "oggetti"
(manufatti, costruzioni artificiali), nell'epoca dopo-moderna il lavoro
viene ad essere soprattutto assunto come valore della relazione sociale,
in quanto è valorizzato per le qualità relazionali che esso offre
e implica. E come tale viene differenziato in diverse attività. Ciò
è vero sia per chi lavora, sia per chi gode dei frutti del lavoro,
sia ancora per le forme di interazione-intreccio fra produttore e
consumatore. Naturalmente non vengono meno le culture precedenti,
che continuano a caratterizzare i segmenti più tradizionali nelle
società avanzate e larghi strati di popolazione nelle società in via
di modernizzazione. Ma il lavoro si differenzia in varie culture,
asimmetriche fra loro, che derivano da un processo di morfogenesi
sociale, insieme culturale e strutturale, del lavoro oltre l'assetto
industrialistico. Per comparare e valutare le nuove culture del lavoro,
occorre cogliere i criteri basilari con cui ciascuna di esse valuta
il lavoro, in relazione alla più ampia costellazione dei criteri spirituali
e materiali che caratterizzano ciascuna cultura (pr. 4). Le conclusioni
del presente contributo portano a ritenere che, se la concezione prevalente
del lavoro rimane quella dell'epoca industriale, com'è ancora il caso
in larga parte del mondo, il problema della disoccupazione viene affrontato
con vecchi strumenti, caratterizzati dalla ricerca di nuove forme
di regolazione degli interessi e delle transazioni fra attori economici
e politici che si muovono nella trama dei rapporti fra Stato e mercato,
che sono intrinsecamente insufficienti a far fronte al problema della
disoccupazione. Per affrontare adeguatamente i cambiamenti in atto,
strutturali e culturali, occorre un nuovo framework che osservi il
lavoro come azione reciproca fra soggetti che interagiscono come produttori-distributori-consumatori
nell'economia civile. In sostanza, la mia tesi è che, con il declino
dell'assetto industriale (fordista), regolato dal welfare state
post-bellico, la progressiva riduzione del lavoro fordista non significhi
la "fine" del lavoro, e neppure l'esaltazione di attività
di tempo libero o di volontariato, ma la ridefinizione del lavoro
come attività comunicativa significante in reti altamente differenziate
di produzione-distribuzione-consumo di cui dobbiamo comprendere la
dinamica.
2.
La cultura moderna del lavoro e il fenomeno della disoccupazione.
2.1. Bisogna partire dal fatto che la disoccupazione non è un "dato
naturale", ma una costruzione sociale. Come e perché viene socialmente
costruita la disoccupazione ? Nella sua condizione naturale, l'essere
umano è naturaliter portato a svolgere attività da cui trarre
i sostegni necessari per la sua esistenza. E, quando non trova le
risorse in natura, crea egli stesso gli strumenti e le condizioni
per far fronte ai propri bisogni. Se non lo può fare, ciò accade perché
altri esseri umani glielo impediscono, appropriandosi delle risorse
o creando vincoli e barriere sociali. Possiamo anche dire che, mentre
il lavoro è un'attività naturale per l'essere umano, e come tale una
esigenza e una risorsa non scarsa, è la società che configura le condizioni
sotto le quali il lavoro può diventare una esigenza e una risorsa
scarsa. Questa è stata la "scoperta", e insieme la costruzione,
della modernità (Rousseau, Marx, ecc.) che non va dimenticata. In
effetti, il concetto di disoccupazione è sconosciuto alle società
pre-moderne e nasce con l'epoca moderna. E anche nella modernità la
disoccupazione viene continuamente ridefinita nei suoi referenti simbolici
e tecnici (per quanto debba sempre avere il carattere di una condizione
non volontaria).
2.2. Attraverso
percorsi storici assai complessi, che qui non ho spazio per richiamare,
la concezione del lavoro giunge sino a noi con caratteristiche che
possiamo sintetizzare come segue.
a) La cultura moderna del lavoro esaspera le proprie contraddizioni
e perde i suoi presupposti.
La modernità ha introdotto profonde tensioni nei significati del lavoro,
in quanto lo ha slegato dall'agire di comunità e lo ha mercificato.
Togliendo al lavoro gran parte delle mediazioni sociali di cui esso
è portatore, ha creato la figura del lavoratore astratto, pronto per
qualsiasi uso. Tale concezione, via via che si è sviluppata, ha esasperato
conflitti, ambivalenze e contraddizioni insite nel lavoro. In concreto:
ha accentuato le ambivalenze fra le componenti strumentali e quelle
espressive del lavoro, fra l'astratta ricerca della valorizzazione
e la pratica svalutazione dei suoi aspetti umani; ha fatto crescere
le contraddizioni fra lavoro come prestazione funzionale e lavoro
come autorealizzazione del soggetto, ponendo un'antitesi fra il lavoro
astratto che produce valori di scambio e il lavoro concreto che produce
valori d'uso. Il dibattito sul tempo di lavoro (numero delle ore lavorative)
è sempre stato emblematico a questo riguardo. Nelle richieste di riduzione
del tempo lavorativo da un lato e di maggiore flessibilità dei tempi
di lavoro dall'altro, si sono rivelati tutti questi conflitti. In
ogni caso, noi assistiamo oggi al rifiuto di questi conflitti. Dietro
tale rifiuto, si manifesta la fine dei presupposti che hanno sostenuto
la cultura specificatamente moderna del lavoro. Ne possiamo menzionare
tre fondamentali. Primo. Laddove la società pre-moderna trattava il
lavoro come una relazione sociale in cui sfera privata e sfera pubblica
si incontravano e si sovrapponevano (agire di comunità), la modernità
inventa il lavoro nella sua forma pura, depurata dagli elementi di
altri ambiti di azione e funzioni sociali. Essa concentra e polarizza
il lavoro nella sfera pubblica, di contro alla vita privata. Si generano
allora enormi tensioni fra vita pubblica e privata. Un segno della
crisi dell'assetto moderno sta precisamente nel fatto che, oggi, la
società chiede che il lavoro si ricolleghi in modo significativo alla
vita privata. Nascono nuove relazioni fra sfera lavorativa e sfera
della vita privata che manifestano esigenze di raccordo e interazione
che la modernità ha negato, o semplicemente dimenticato. Non si potrà
più ritornare alla Gemeinschaft. Tuttavia è evidente che il
lavoro odierno rifiuta la caratterizzazione "pubblica" di
merce astratta che ha assunto nell'epoca capitalistica classica. Il
lavoro diventa di nuovo una zona di incontro e sovrapposizione fra
esigenze di vita privata e pubblica. Secondo. La gerarchia fra lavori
"umili" e "nobili" propria delle culture antiche,
che si rifletteva nella maggior parte delle lingue europee (ponos/ergon,
labor/opus, labour/work, Mühe/Werk), a seguito
dell'affermarsi della Riforma protestante, dell'elaborazione teorica
della economia politica e della rivoluzione borghese, viene livellata
e addirittura rovesciata. Come si esprime Saint-Simon, l'imperativo
è lottare contro i parassiti, contro chi non lavora, contro il dominio
delle classi improduttive. Come dirà alla fine dell'Ottocento Durkheim,
è la divisione del lavoro ("organica") che diventa la fonte
principale della solidarietà sociale. Al posto dell'etica signorile
subentra l'etica universale del lavoro che richiede specializzazione.
Ma, nel corso degli ultimi tre decenni, anche quest'ultima cultura
del lavoro inizia a declinare. Sia l'ideologia lavoristica socialista
sia quella marxista, che personificano il lavoro nel tipo sociale
dell'"operaio", sia la visione funzionalistica del lavoro
'organico' sono entrati in una crisi sempre più profonda (si è parlato
di "de-motivazione" al lavoro, di "allergia" al
lavoro , di "rifiuto" del lavoro). L'ideologia moderna che
vedeva nel lavoro il riferimento primo e quasi assoluto dell'identità
personale e sociale, e unico titolo di legittimazione per l'appartenenza
alla società (Accornero 1980), subisce un crollo radicale, non sta
più al centro del sistema culturale. Da dovere, il lavoro diventa
piuttosto un diritto. Ma il punto è che il lavoro diventa problematico
come misura del valore della persona umana e come titolo del suo riconoscimento
in quanto membro della società. L'antropologia moderna del lavoro
non è più sostenibile e deve essere sostituita. Come ? Secondo l'idea
che il lavoro non è l'essenza dell'uomo (perché l'Uomo non è riducibile
al lavoro), ma è una dimensione essenziale della persona umana in
quanto essere relazionale. Terzo. La modernità ha configurato il lavoro
secondo un tipo di razionalità orientata allo scopo, le cui due componenti
sono state quella tecnica (nel perseguimento dello scopo nel
gioco tra uomo e natura) e quella strategico-economica (perseguimento
dello scopo nel gioco fra attori economici). Marx ha distinto questi
due processi denominandoli rispetivamente "processo lavorativo"
e "processo di valorizzazione". Egli mostra come
la modernità li renda inter-dipendenti e concomitanti. Ma oggi essi
tendono a differenziarsi sempre più nettamente. E ciò mette in crisi
quella concezione moderna (risalente a Marx e ai socialisti) che fa
del lavoro salariato (nella contrapposizione salariati vs padroni)
il paradigma dell'assetto micro e macro-sociologico della società.
La razionalità economica dell'azienda e del mercato non sono più il
paradigma su cui possa essere modellata l'intera società. Per dirla
in altri termini, il lavoro e la posizione dei lavoratori nel processo
produttivo non sono più considerati come il principio fondamentale
di organizzazione delle strutture sociali. La dinamica dello sviluppo
sociale non è più concettualizzata in termini di conseguenze dei conflitti
di potere intra-aziendali, amplificati nell'intero sistema economico.
La razionalità sociale non può più essere definita in base al modello
"lavoristico" che la concepisce come ottimizzazione del
rapporto fra mezzi tecnico- organizzativi e fini economici.
b) La disoccupazione si rivela sempre meno un fenomeno "funzionale",
e sempre più un fenomeno paradossale.
Se è vero che la disoccupazione non è altro che un capitolo della
storia più generale del lavoro, allora può essere istruttivo vedere
come cambia il senso della disoccupazione via via che la cultura del
lavoro si modifica. La teoria economica moderna concepisce la disoccupazione
prevalentemente in modo "funzionale", in quanto la riferisce
a quei lavoratori che, per ragioni indipendenti dalla loro volontà
e tecnicamente legati al progresso economico (come l'adozione di nuove
tecnologie, le ristrutturazioni aziendali, ecc.), debbono essere dismessi.
Ma, allorché il loro numero e i problemi che essi sollevano diventano
un "problema sociale", le considerazioni "funzionali"
della teoria economica non reggono più e debbono essere messe in discussione.
In senso tecnico, il termine disoccupazione - così come è definita
dagli organismi internazionali (cfr. EU Report 1998) - appare alla
fine dell'Ottocento. Essa si riferisce ad una condizione di perdita
di lavoro in una struttura sociale e una cultura particolari. La struttura
sociale consiste in un vero e proprio mercato del lavoro, formalmente
libero, e con elevata mobilità sociale, in cui il lavoro possa essere
ottenuto e perduto. La contrattazione è bensì relazionale (Williamson
1985), ma tale relazionalità è ridotta a utilità. La cultura richiede
che il lavoro sia concepito come una cosa comperabile e vendibile,
negoziabile, come un'attività trasformabile in senso acquisitivo (per
non essere vincolata a caratteri ascrittivi, affettivi, particolaristici,
localistici e di orientamento alla collettività). Qualora vi fosse
una regolazione sociale tale da impedire queste caratteristiche strutturali
e culturali, la disoccupazione diventerebbe un'altra cosa. Sappiamo
che, in certe società, essa è stata ridotta o anche formalmente annullata
mediante l'uso di un potere politico totalizzante (come nella ex-Urss).
Ma questo modo di procedere ha condotto ad esiti economici catastrofici
(bassi salari, bassa produttività, bassi consumi, ecc.), e soprattutto
ha svilito il significato e l'etica del lavoro.
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