Il testamento della più importante azione culturale degli Anni Novanta.
Totò, Peppino e la guerra psichica (Luther Blissett)
(Release 2.0) Prefazione a ripubblicazione di TP&LGP, Febbraio 2000 / Parte1 | Parte 2
Per Gianni B., the brain behind (al zarvéll dadrè)

Seppuku! ovvero: Il piano quinquennale di un nome multi-uso

La domanda che mi ossessiona è se ho mantenuto ciò che avevo promesso. Con il mio rifiuto e la mia critica ho senza dubbio promesso qualcosa. Non sono un politico, e mantenere la parola data non significa per me procurare a qualcuno dei vantaggi reali, eppure sono ossessionato notte e giorno dalla sensazione di non avere ancora mantenuto una promessa più necessaria ed importante di quelle dei politici. A tratti sono tentato dall'idea di sacrificare persino la letteratura pur di mantenere quella promessa. Sarà forse un riflesso di "orgoglio virile", ma è indubbio che l'aver vissuto tranquillamente in questi venticinque anni di democrazia, traendone vantaggi nonostante la mia disapprovazione, ferisce da lungo tempo il mio animo.

Mishima Yukio, 1970

Quando l'avversario è spaventato, la sua combattività si affievolisce e subisce un vuoto nel tempo di reazione. Anche semplici gesti ordinari possono venire impiegati per distrarre l'attenzione di un avversario. Buttare a terra la propria spada, per esempio, rientra nell'arte della guerra. Se siete davvero abili nel combattimento senza spada non sarete mai disarmati.

Munenori Yagyu, XVII° secolo

Molte soggettività delle colonne italiane del Luther Blissett Project hanno deciso di iniziare il millennio con un seppuku, un suicidio rituale. Il suicidio è la dimostrazione pratica della rinuncia di Blissett alla sopravvivenza come logica identitaria e territoriale. Il suicidio è l'ultimo, estremo, radicale darsi alla macchia di un eroe popolare.
Non si tratta di propugnare una soluzione nichilista e rinunciataria, ma di scegliere la vita.
Il seppuku non è una direttiva, Luther Blissett è un nome che chiunque può continuare ad usare anche dopo il Capodanno del Duemila. Ci sono paesi in cui la lotta è appena cominciata ed è bene augurarsi che prosegua.
Il seppuku è un suggerimento per tutti coloro che usano il nome da almeno un lustro, per dare spazio a nuovi stili di quest'arte marziale, facendo fiorire e proliferare i piani quinquennali di chi utilizza il multiple name da poco tempo. Occorre essere stranieri senza nome in territori sconosciuti: per alcuni questo vuol dire iniziare o continuare a chiamarsi L.B., per altri significa necessariamente il contrario.
Così il seppuku non è la fine di Luther Blissett, ma l'inizio di una nuova fase, di un nuovo modo di servirsi della sua faccia e del suo nome. Per chi vi prenderà parte, il suicidio di Blissett significherà smettere di firmarsi con quella sigla, ma proseguire un cammino. Esattamente il contrario di quello che accadrebbe a un normale suicida: egli non va più da nessuna parte, mentre il suo nome viene spesso usato ancor più di quando si trovava in vita.
Il seppuku infine non è una mossa difensiva, per evitare il recupero del Multiplo da parte dell'industria dello spettacolo. Ciò che non ha identità non è recuperabile. Da sempre l'obiettivo di Blissett è di entrare nel mainstream come cavallo di Troia e aprire le porte a molteplici esperienze. Ci devono dei soldi, ricordate? Ormai siamo dentro al caveau.
Pensiamo alla dottrina buddista della reincarnazione. I seguaci dello Svegliato non credono nell'esistenza dell'anima, tuttavia pensano che una persona possa raggiungere il nirvana dopo aver attraversato diverse vite. Ciò che appare a prima vista contraddittorio, la reincarnazione senza anima, senza identità, è possibile perché le azioni degli esseri viventi lasciano una traccia, una sorta di potenzialità che alla morte del corpo terreno dell'individuo produce la nascita di un nuovo essere.
Allo stesso modo, affinché la tensione che Blissett ha sprigionato in questi anni possa animare nuove (e vecchie) realtà e nuove esperienze, occorre che il suo cadavere rilasci spore più che mai infette e taumaturgiche. Tuttavia il Multiplo ha un infinità di corpi, molti dei quali resteranno in vita nonostante la morte di alcuni altri.
Grazie al seppuku L.B. darà vita a molteplici rinascite, svincolate dall'uso di un nome. Perché per quanto si faccia, alla lunga un nome conduce a un'identità. Singola o multipla, reale o virtuale, storica o mitica, fa senz'altro differenza ma, dopo un po', si tratta di qualcosa cui rinunciare.
Come ci ricorda Zhuang-zi: "L'uomo perfetto è senza io, l'uomo ispirato è senza opere, l'uomo saggio non lascia nomi."
E, come disse l'inimitabile Cary Grant:
"Meglio andarsene un minuto prima, lasciandoli con la voglia, piuttosto che un minuto dopo, avendoli annoiati."

I. La comunità aperta di Luther Blissett

Nascita di un mito

"Just take a look around you, what do you see? Kids with feelings like you and me.
Understand him, he'll understand you, For you are him, and he is you."
Sham 69, If The Kids Are United

"Ora scrivono di lui, e parlano di lui, lo psicologo, il sociologo e il cretino.
E scrivono di lui, e parlano di lui,ma lui resta sempre clandestino."
Gianfranco Manfredi, Dagli Appennini alle bande

Perché centinaia, migliaia di persone decidono di adottare lo stesso pseudonimo, di condividere - non senza contrasti - la stessa reputazione, per firmare/rivendicare azioni politico-culturali, performances, scritti teorici o di narrativa e, in generale, "opere dell'ingegno"? A cosa si deve il successo del nome "Luther Blissett" tanto sul World Wide Web quanto nel mondo "reale", nelle strade delle città europee, nell'editoria su carta stampata, praticamente ovunque?
Da anni semiologi, antropologi, studiosi delle sottoculture giovanili e del loro rapporto con le tecnologie si interrogano su quali siano esattamente le caratteristiche di questa sfuggente comunità aperta... Come può definirsi "comunità" quello che sembra solo un incostante flusso di informazioni palesemente contraddittorie?
Da anni i giornalisti coniano strampalate definizioni, una meno calzante dell'altra: "pirati telematici", "terroristi culturali", "artisti radicali" etc.
Da anni Luther Blissett continua a spiazzare gli osservatori e a mettere in crisi ogni definizione che non nasca direttamente dalla prassi di chi sceglie di adottare il nome.
Tra le tante caratteristiche del pensiero e dell'azione di Blissett, forse quella che più lascia perplessi è la feroce, violenta critica al concetto di "Individuo", inteso come soggetto principe del diritto borghese ("Uomo Egoista", lo definì Karl Marx). In nome di che cosa questo concetto viene continuamente sbertucciato, vilipeso, cortocircuitato, spinto al paradosso? [1]
In certe fasi del Progetto, è sembrato che Blissett opponesse all'individualismo liberale un collettivismo da Rivoluzione Culturale, "cementato" dal culto di un inesistente Grande Timoniere (appunto, Luther Blissett); in altre, è sembrato che la critica all'in-dividuum fosse fatta esclusivamente in nome della -divisibilità del singolo, di un'apologia della schizofrenia e del desiderio sfrenato, con evidenti echi deleuzo-guattariani (L'Antidipe, Mille Plateaux...)
La nostra immodesta opinione è che non si possa comprendere il "comunitarismo" di Blissett senza partire dal concetto di "mitopoiesi", creazione di mito.
Tra gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo d.C. un imprecisabile network di "artisti" senza opere, attivisti post-politici, operatori di media indipendenti come radio, BBS etc., nauseati dalle obsolete tecniche e strategie di comunicazione ancora in auge presso un immobile "movimento" e una "scena" europea tanto poco vivace da ricordare il teatro da camera espressionista, decisero di darsi metaforicamente "alla macchia", avvolgersi di leggenda, scommettere sul meraviglioso.
Non fu necessario riunire alcun comitato centrale: semplicemente, si decise (tale forma impersonale sarebbe risultata fatidica, poiché avrebbe dato forma a tutte le azioni a venire) di usare il potenziale dei nuovi media e il loro imminente impatto su quelli tradizionali, allo scopo di lanciare un nuovo "prodotto", una merce intangibile, immateriale: un mito di lotta comune a tutte le tribù e comunità di rivoltosi. Tale mito doveva inserirsi in uno scenario di sconvolgimenti epocali, definito dalle sempre più frequenti ecocatastrofi, dalla tumultuosa fine dell'ordine mondiale bipolare e - last but... - dall'emergere del cosiddetto "lavoro immateriale" post-fordista e dall'estendersi della Rete.
Mitopoiesi. "Costruzione del mito". Usare le leggende urbane, le tecniche di intelligence, le strategie pubblicitarie, ma dirottando tutto ciò verso la creazione di una reputazione, di un personaggio - dapprima "virtuale" e poi, escrescendo, sempre più reale. Quel personaggio avrebbe compiuto azioni di guerriglia nei confronti della stracca, logora cultura del suo tempo - avrebbe aggredito quella cultura come la tigre fa con l'elefante nel celebre apologo raccontato dallo zio Ho Chi Mihn al reporter americano David Schoenbrunn:

Sarà la lotta tra una tigre e un elefante: Se la tigre si ferma l'elefante la schiaccia. Ma la tigre non si ferma. La tigre, di giorno, si nasconde nella giungla ed esce soltanto di notte. Così aggredisce l'elefante, e gli lacera pezzo a pezzo la schiena, poi sparisce di nuovo nell'ombra. L'elefante morirà per lo sfinimento e per il sangue perduto.

Essere fluidi come l'acqua, ma all'occasione colpire duro come la tibia di un pugile Thai.
Mitopoiesi, dicevamo: saccheggiare e riadattare un patrimonio antichissimo di miti e archetipi comuni a tutte le società umane, poi rielaborato nell'arte e nella cultura di massa. Trovare alcune figure topiche, risalendovi dal cinema, dal fumetto e dalla letteratura seriale ("di genere"), per poi produrne una sintesi, basata su un massimo comune denominatore: una "reputazione" intesa come opera aperta, costantemente rimanipolabile, basata sul maggior numero possibile di "ritocchi" e interventi soggettivi.
Lo strumento sarebbe stato il "multiple name" o - espressione che preferiamo - "multi-use name", tecnica di comunicazione già sperimentata da alcune avanguardie estetiche nel corso del XX secolo (dal Dada berlinese al Neoismo).
In realtà l'uso dello stesso nome da parte di molte persone è un antico enunciato di dissimulazione e sottrazione, uno stratagemma di camuffamento usato prima dagli eretici medievali e rinascimentali, poi da società segrete neo-alchemiche e proto-illuministe; si pensi a Ermete Trismegisto, a Christian Rosenkreuz, a Fulcanelli...
Ma - ciò che è più significativo - fin dai suoi remoti albori il multiple name è anche e soprattutto un enunciato positivo, di affermazione di una nuova visione del mondo da cui derivano, per il singolo che merita di adottare il nome, un nuovo stato di coscienza e un nuovo status nella comunità degli umani.
Sia detto tagliando con l'accetta (anzi, col guandao): il più antico multiple name è senz'altro Buddha, ("il risvegliato") che nasce come appellativo di un singolo (Gautama Siddharta, principe del clan Sakia dell'India nord-orientale, 565 ca. - 486 ca. a.C.) per poi giungere a designare chiunque, tramite la meditazione e una determinata condotta di vita, abbia raggiunto l'Illuminazione.
La scommessa era usare il nome multiplo in una maniera senza precedenti, che ne coniugasse la natura di inganno con quella illustrata nell'esempio del buddismo.
Lo scopo era la creazione di un nuovo folk hero, le cui scorribande nell'immaginario facessero intravedere i contorni di una nuova potenziale comunità.

Folk Heroes

L'eroe popolare, pur derivando dall'eroe delle mitologie classiche, non corrisponde più al topos di colui che "s'avventura oltre il mondo del quotidiano, in una regione di meraviglie soprannaturali, dove s'imbatte in potenze favolose e vince una battaglia decisiva, dopodiché, torna da questa misteriosa avventura recando in sé il potere di fare del bene agli altri uomini" (Joseph Campbell, 1949). No, l'eroe popolare è una leggenda vivente, la sua lotta non è un'allegoria del ritrarsi nella psiche, bensì ha luogo nel "mondo del quotidiano", o perlomeno in una sua versione idealizzata. Che quest'eroe sia realmente esistito o meno, i racconti delle sue gesta sono sempre stati materia di manipolazione collettiva, per dare una speranza di rivalsa e una temporanea consolazione a una limitata Gemeinschaft, il più delle volte una classe contadina oppressa da tiranni e feudatari di origine straniera. Questo mito rivive nelle epopee banditesche e del brigantaggio (da Frà Diavolo a Dick Turpin al Passatore, passando per le avventure di Florian Geyer durante la rivoluzione contadina di Thomas Münzer), nell'odierna cultura di massa (da Zorro ai supereroi dei fumetti) e nelle narrazioni guerrigliere (da Ho Chi Mihn agli Zapatisti etc).
Stiamo parlando di miti di terra, miti "boschivi", delle foreste. In tutte le società storiche è rinvenibile un pattern preciso, che si perpetua con poche variazioni: quello del Waldganger, colui che "si dà alla macchia", il-ribelle che va nel bosco e da lì combatte contro un potere usurpatore.
In Occidente il Waldganger più famoso è senz'altro Robin Hood, le origini della cui leggenda sono rintracciabili nel Ramayana indiano, il quale contiene anche personaggi e storie che ritroveremo, con minime variazioni, nelle leggende del ciclo della Tavola Rotonda. O meglio:

Il Ramayana non è l'origine delle leggende arturiane e di Robin Hood; semplicemente, discendono dalla stessa fonte o dalle stesse fonti. Certo, i racconti viaggiano [...] Dal canto mio, sospetto che entrambi i filoni abbiano le proprie radici in un'antica saga indo-europea, e che mentre la storia di Rama ne ereditò tutti gli elementi originari, quelli che non potevano essere adattati al contesto storico delle guerre tra Celti e Sassoni confluirono nella leggenda di Robin che, come vedremo, ereditò anche molti altri elementi. (Steve Wilson, Robin Hood: The Spirit of the Forest, Neptune Press, London 1993, pag.17).

La prima trascrizione del Ramayana è più o meno contemporanea ai giochi di prestigio di Gesù di Nazareth, ma la sua tradizione orale è molto più antica. Rama è il figlio primogenito del maharajah Dasaratha, sovrano della dinastia solare di Ayodhya, ma non è soltanto un principe: egli è l'incarnazione del dio Vishnù, e soprattutto è il Divino Arciere, l'unico uomo in grado di tenere sollevato e piegare l'arco abbandonato dal dio Shiva.
Alla morte del padre, il fratellastro di Rama usurpa il trono, e il nostro eroe deve rifugiarsi nei boschi Tra le varie peripezie, lo vediamo combattere contro Ravana, malvagio re di Ceylon e capo di legioni di demoni, il quale ha rapito Sita, sposa di Rama (proprio come lo sceriffo di Nottingham rapisce Lady Marian). Rama libera Sita e ritorna nella foresta. Alla fine, Rama riconquista il proprio trono, e inaugura una vera e propria Età dell'Oro, un regno di giustizia sociale e saggia amministrazione, finché... Da qui in avanti si riscontrano innumerevoli analogie col mito di Artù, che però non ci interessano in questa sede.
Ogni figura di "folk hero" è una variazione su questo tema (come già si è detto, su un registro più "basso", spogliato degli elementi sovrannaturali). Scendendo lungo questo phylum, troviamo molti supereroi dei fumetti, ma troviamo anche la realtà: il mito di Robin Hood riecheggia in tutti gli exploits guerriglieri, rivive nei Vietcong, nei Tupamaros, in Che Guevara (non certo nell'icona sub-cristologica delle T-shirts), nell'EZLN... è tutto un ri-narrare di cui godiamo le variazioni.
La guerriglia del folk hero è anche una guerriglia informativa, semiologica, basata sulla propaganda "nera" e sul sabotaggio della macchina comunicativa del Potere... Nella figura composita dell'eroe popolare c'è anche il "trickster", l'imbroglione mitologico (pensiamo all'Anansi delle leggende afro-caraibiche, o all'Eulenspiegel della cultura popolare tedesca). A tutto questo aggiungiamo pure il detective work, quello che permette al folk hero di scoprire e denunciare gli intrighi e i misfatti del Potere usurpatore.
Il primo esempio che corre alla mente vergando queste righe è un film, pietra miliare del moderno gongfupian hong-konghese, Fist of Fury (noto anche col titolo The Chinese Connection; in Italia: Dalla Cina con furore, 1971). Bruce Lee vi interpreta un noto eroe popolare cinese degli anni Venti, Chen Zhen. Chen è uno studente d'arti marziali nella Shanghai occupata dai Giapponesi. Il suo maestro muore avvelenato, Chen scopre che l'assassinio è opera di spie della palestra di Suzuki, corrotto karateka dai baffi a manubrio. Giustiziate le spie, Chen le fa trovare appese a lampioni e poi si dà alla macchia, facendo della città il suo bosco. Da quel momento, la sua ragione di vita è arrivare a Suzuki, uccidendo tutti quelli che gli sbarrano la strada. Per far questo, ricorre a trucchi, travestimenti e ovviamente al suo micidiale gongfu [2]

Strangers

Un altro archetipo di cui trattare - perché ben si adatta a ciò che Luther Blissett è stato e continuerà ad essere - è quello dello straniero che compare come dal nulla in un territorio lacerato dai conflitti, e ricorrendo alle armi del doppio gioco e della guerra psicologica risolve una situazione di grave collasso socio-culturale. Questo straniero non sembra avere passato né futuro, ed è estraneo alla gemeinschaft locale.
Azzardiamo un'ipotesi: ci troviamo in una narrazione collaterale a quella del Waldganger; costui compie periodiche puntate fuori dal bosco, che immaginiamo estendersi in una regione attraversata da confini incerti, e a volte, anziché girare attorno al suo villaggio d'origine per compiere azioni di disturbo,si spinge più lontano, in contesti locali in cui non è conosciuto e di cui non può né vuole essere l'eroe. Spogliato dei panni di "bandito gentiluomo", ebbro di una libertà d'azione senza precedenti, si trasforma in perfido trickster, in variabile impazzita di uno scontro tra clan: infiltra tutti i poteri e li mette uno contro l'altro fino a distruggerli.
Questo mito è magistralmente ri-attualizzato da Dashiell Hammett nel suo romanzo Red Harvest (1929, uscito in Italia come Piombo e sangue), che raggiunge i lettori di polizieschi con la potenza di uno shift-punch al plesso solare, inaugurando l'iper-adrenalinico sottogenere hard-boiled. Più di settant'anni dopo, il romanzo conserva intatta la sua ubriacante velocità: un anonimo io narrante - di cui nulla sappiamo se non che lavora per l'agenzia investigativa Continental Op di San Francisco - arriva nella città di Personville (malignamente ribattezzata "Poisonville") e la rivolta come un calzino disinfestandola da gangsters, sbirri corrotti e capitalisti vari. La sua strategia è presto esposta:

I piani funzionano benissimo, a volte. A volte invece è molto meglio mettere semplicemente in moto qualche cosa... purché uno sia duro abbastanza da sopravvivere e da vedere ciò di cui si ha bisogno quando viene a galla.

A questo romanzo s'ispira Kurosawa Akira al momento di scrivere e girare il suo Yojimbo (1951, in Italia: La sfida del samurai). Anche qui, il protagonista (interpretato da Mifune Toshiro) non ha nome, e si presenta semplicemente come "[uno che ha] trent'anni" (in giapponese: "Yojimbo"). Rispetto a Red Harvest, la vicenda è meno intricata: al posto del complesso mosaico di alleanze criminali di Poisonville, c'è una netta contrapposizione tra due clan nemici. Kurosawa sacrifica il plot alla forza espressiva del film chambara (parente giapponese dei nostri "cappa-e-spada").
Sergio Leone vede Yojimbo e ha l'idea di rifarlo ambientandolo nel Far West, ed ecco il celeberrimo Per un pugno di dollari (1963). Anche qui, il protagonista non ha nome né biografia, e la storia si fa ancora più scarna: l'esposizione della guerriglia semiotica e psicologica dello straniero (Clint Eastwood: barba incolta, sudicio poncho, cigarillo sbavato e mordicchiato) si fa come didascalica, quasi il film fosse un trattatello su come trarre vantaggi individuali dal caos e dal vuoto di potere. Come Red Harvest ha inaugurato l'hard boiled, Per un pugno di dollari inaugura tanto il cosiddetto spaghetti-western quanto il nuovo western "revisionista" e crepuscolare.
Più di trent'anni dopo, Walter Hill rinarra la storia in un film ingiustamente sottovalutato, Last Man Standing (1996, in Italia: Ancora vivo). Last Man Standing non è un semplice remake né un omaggio postmodernista a Hammett, Kurosawa e Leone: è un ulteriore scavo nel mito, alla ricerca dei nudi archetipi, dei comuni denominatori, e allo stesso tempo è una constatazione del fatto che, in assenza di una comunità che possa trarne consolazione, il mito diventa nihilista, contemplazione impotente del nil novi sub sole. Come nel prototipo di Hammett, la vicenda torna a svolgersi negli anni d'oro del gangsterismo americano, sebbene in uno scenario rurale al confine col Messico. Bruce Willis ripropone agli spettatori la dolente inespressività di Eastwood, ma la sua figura è taurina anziché allampanata, più simile a quella di Mifune. Le tinte sono molto più cupe che nelle due precedenti versioni cinematografiche, non c'è speranza né attesa di redenzione, tutto è avvolto nel dolore e nell'insensatezza. Un film impressionante.
Infine, nel 1999 lo sceneggiatore Tom O'Rourke e il regista John G. Avildsen regalano al pubblico la più bizzarra, scanzonata e citazionistica versione della storia, Coyote Moon (In Italia: Fino all'inferno). Dove Hill scarnificava, la coppia O'Rourke-Avildsen ammassa, affastella, accumula, in uno straniante e ridacchiante ibrido di western e screwball comedy. La storia si svolge ancora nel deserto americano. Stavolta lo straniero (uno Jean-Claude Van Damme davvero in stato di grazia) è Eddie "l'uomo-coyote", figura che in diverse culture nativo-americane, in primis quella Navajo, corrisponde al trickster. Eddie è reduce da un'imprecisata guerra, è deciso a suicidarsi ma non prima di aver sistemato le cose nel solito, archetipico villaggio. Tra arti marziali, mitologie della prateria, reminiscenze di tutte le guerre imperialistiche condotte dagli Usa e sarcastici riferimenti alle strambe sottoculture dell'America rurale (ad esempio, gli snake-handlers, i "maneggiatori di serpenti" dei revivals cristiano-fondamentalisti), il film procede fino al finale, in cui Eddie non si suicida e due dei personaggi si recano al cinema per vedere... Yojimbo ("È come un western, solo che è giapponese!"). Il cerchio si chiude. Torniamo a noi.

Da che parte è il bosco?

Luther Blissett è un folk hero e trickster postmoderno, che non fa riferimento a un'etnia né a un'élite, bensì (in prima istanza) a un vasto bacino di "lavoro immateriale" che si estende su tutto il pianeta, e in ultima istanza - potenzialmente, marxianamente - all'intera Specie umana.

La tecnologia dapprima, poi la scienza, si trasmettono di generazione in generazione come una dotazione dell'Uomo Sociale, della Specie, che in tutti i suoi individui vi ha lavorato e collaborato. Nella nostra costruzione il Profeta, il Sacerdote, lo Scopritore, l'Inventore, vanno verso una pari liquidazione. L'Uomo Sociale [in Marx] è detto anche Individuo Sociale, il cui senso non è 'persona umanà come cellula della Società; ma invece società umana trattata come un organismo unico che vive una sola vita [...] Questo organismo, la cui vita è la Storia, ha un suo Cervello, organo costruito dalla sua millenaria funzione, e che non è retaggio di alcun Teschio e di alcun Cranio. Il Sapere della specie, la Scienza, ben più che l'Oro, non sono per noi privati retaggi, ed in Potenza appartengono integri all'uomo Sociale" (Amadeo Bordiga, 1957).

Per noi un individuo non è una entità, una unità compiuta e divisa dalle altre, una macchina per sé stante, o le cui funzioni siano alimentate da un filo diretto che le unisca alla potenza creatrice divina o a quella qualsiasi astrazione filosofica che ne tiene il posto, come la immanenza, la assolutezza dello spirito, e simili astruserie. La manifestazione e la funzione del singolo sono determinate dalle condizioni generali dell'ambiente e della società e dalla storia di questa. Quello che si elabora nel cervello di un uomo ha avuto la sua preparazione nei rapporti con altri uomini e nel fatto, anche di natura intellettiva, di altri uomini. Alcuni cervelli privilegiati ed esercitati, macchine meglio costruite e perfezionate, traducono ed esprimono e rielaborano meglio un patrimonio di conoscenze e di esperienze che non esisterebbe se non si appoggiasse sulla vita della collettività [...] (Amadeo Bordiga, 1924).

In ossequio a questa posizione limpidamente materialistica (oggi resa finalmente praticabile, grazie alle nuove tecnologie di riproduzione/compressione/distribuzione dei prodotti intellettuali), tutto quanto viene firmato col nome multiplo è privo di copyright, liberamente riproducibile, modificabile, perfezionabile senza dover rispondere ad alcuna Autorità.
Luther Blissett è Gemeinwesen. Gemeinwesen [tedesco: essere comune] è un termine usato da Karl Marx nei suoi scritti giovanili (1844) e poi "evocato" nelle pieghe dei celebri Grundrisse... ("Lineamenti per la critica dell'economia politica", 1859). Indica la dimensione collettiva della vera comunità umana, che non s'identifica con alcuna comunità esistente (Gemeinschaft) o gruppo limitato, ma con la molteplicità e la ricchezza delle relazioni che il proletariato avrebbe potuto e dovuto creare nella stessa cooperazione sociale capitalistica, "una volta gettata via la limitata forma borghese", oltre comunità fittizie quali la "cittadinanza", e oltre la stessa lotta di classe.
La Gemeinwesen è il principio comunitario che non si "rapprende" in una data Gemeinschaft, perché la comunità è comunità degli umani, e va scoperta nell'intera Specie.
Le nuove e sempre più diffuse figure del lavoro vivo create dall'estendersi delle tecnologie informatiche - abituate a lavorare "in rete", a produrre comunicazione sociale, a collaborare (come richiede il modo di produzione post-fordista) - sono le più vicine a un'esperienza di Gemeinwesen. Nelle pieghe del nuovo lavoro va formandosi una comunità allargata che vive con crescente insofferenza l'espropriazione, ad opera di parassitiche multinazionali, della ricchezza che essa produce, ricchezza anche "immateriale", relazionale, emotiva.
Buona parte delle persone che, in Italia, hanno adottato il nome di Blissett rientravano nella tipologia del lavoratore "immateriale" e/o "atipico" (programmatori, web designers, operatori culturali, grafici, copy writers, traduttori, lavoratori del "terzo settore", "lavoratori autonomi di seconda generazione", "popolo delle partite IVA", etc.). Ciò non implica alcun "monosoggettivismo": la reputazione di Blissett può essere usata da chiunque voglia farne un'arma per le nuove guerre di classe: dalle sottoculture giovanili del satollo Nord ai campesinos e sem terra latino-americani. Non c'è nessun punto archimedico da cui rovesciare il mondo, nessun Soggetto principe della Rivoluzione, come hanno creduto le diverse correnti del comunismo novecentesco. L'azione può partire da qualsiasi punto, anche se esistono situazioni geografiche (il versante del Pacifico, l'Asia sud-orientale) e processi economico-sociali (l'estendersi del "lavoro immateriale") dalla maggiore importanza strategica.
L'essenziale è che entri nelle teste di tutti questa semplice verità: per lottare, c'è bisogno di una nuova mitopoiesi. Ogni fase storica della guerra tra classi ha bisogno di una propulsione mitologica. Oggi ci occorrono mitologie aperte, interattive, nomadiche, nuovi folk heroes e waldgangers, ma anche inedite situazioni comunitarie, che Blissett ha chiamato "Picard e Daton su El-Adril" (cfr. i seguenti estratti da Mind Invaders).
"Picard e Daton su El-Adril" è la necessità di trovare un mito di lotta che, prima di tutto, sia comune a tutto l'odierno "lavoro immateriale", a quella galassia di soggetti che si dibatte per sfuggire al controllo poliziesco esercitato dai vecchi e nuovi rentiers della proprietà intellettuale.
La comunità del Luther Blissett Project è sempre stata tesa a creare una situazione come "Picard e Daton su El-Adril", il cui risultato sarebbe stato una tipologia completamente nuova di eroe, mosso sulla scena del mondo dai soggetti sociali che rappresentano al meglio lo sviluppo del cervello sociale.
Al termine della sua prima decade di vita e azione e in vista del Seppuku delle colonne italiane del Progetto, possiamo dire che Luther Blissett è stato ed è un esperimento di "Picard e Daton su El-Adril", certo coi suoi difetti, ma importante, perché indica la via per superare la miseria.

1. Su come possano conciliarsi l'anti-individualismo di Blissett e la difesa di un concetto apparentemente borghese come "privacy", cfr. Luther Blissett Project, Nemici dello Stato: criminali, "mostri" e leggi speciali nella società di controllo, Derive Approdi, Roma 1999, pagg. 165-169.

2. Nel 1994 Gordon Chan ha diretto un esaltante remake di Fist of Fury, intitolato Fist of Legend. Ne è protagonista Li Liánjié, alias Jet Li, superstar del cinema d'arti marziali, specializzato nell'interpretare folk heroes della tradizione cinese e cantonese (Wong Fei Hung nel ciclo Once Upon A Time in China e nell'autoparodia Last Hero in China, Fong Sai Yuk nella serie eponima etc.)

II. L'arte della comunicazione-guerriglia

"In ogni conflitto, le manovre regolari portano allo scontro, e quelle imprevedibili alla vittoria. Chi è abile nel sortire bizzarri stratagemmi è inesauribile come il Cielo, la Terra e i grandi fiumi. Giunto al termine riparte, come il sole e la luna; dopo morto rinasce, come le quattro stagioni."
Sunzi, L'arte della guerra (Ping Fa)

Guerriglia mediatica: valutazioni di base

La guerriglia mediatica è soltanto un momento della comunicazione-guerriglia, che a sua volta non è che una parte della più estesa guerriglia culturale.
L'arte della guerriglia mediatica non muove dai concetti di "contro" e "in alternativa a", ma piuttosto dalla teoria di Sunzi (Sun Tzu) sui vuoti e sui pieni (cap. VI de L'Arte della guerra). Essa parte dal presupposto che sia possibile agire dentro il sistema della comunicazione massmediatica, combattendolo con le sue stesse armi.
La guerriglia mediatica non vuole svelare la "verità più vera" di cui i grandi mass media ci terrebbero all'oscuro: condizione preliminare per questa pratica bellica è l'abbandono della recriminazione e di ogni teoria del Grande Fratello, ovvero quella che vede gli operatori che gestiscono i mezzi di comunicazione di massa come astuti ed efficienti "disinformatori di regime". Il conformismo e la compattezza dei mass media non nascono da una particolare capacità strategica di fantomatici gestori del "potere mediatico", quanto piuttosto dall'estrema ignoranza, malafede, meschinità e grettezza di piccoli uomini e donne che si fingono professionisti dell'informazione e non sanno fare altro che appiattirsi gli uni sugli altri, dando in questo modo l'impressione (ma solo quella) di essere uno schieramento compatto e potente. Le apparenze ingannano.
La guerriglia mediatica non serve nemmeno a dimostrare la natura mendace dei media. Lo sanno tutti che mentono, è senso comune, anzi, è "discorso da autobus". Non per questo la gente smette di comprare i quotidiani o guardare i telegiornali.
La guerriglia mediatica è una pratica, un modo diverso di rapportarsi al medium della comunicazione di massa. Ovvero l'abbandono della recriminazione e l'adozione di un retrovirus, una pratica ludica che esorcizza in quanto tale la disinformazione esercitata dai mass media e ne ridimensiona ai nostri occhi il potere. Il passaggio preliminare è quello di abbandonare la paranoia e accettare la sfida.
La guerriglia mediatica non è un modo di riappropriarsi dell'informazione nel senso di rubare spazio al sistema massmediatico "ufficiale" o di dimostrare la deformazione delle notizie esercitata da quest'ultimo. Essa è la realizzazione di un gioco all'inganno reciproco, una forma di cooptazione dei media in una trama impossibile da cogliere e da comprendere, una trama che fa cadere i mass media vittime della loro stessa prassi. Pura arte marziale: usare la forza (e l'imbecillità) del nemico rivolgendogliela contro.

Alcuni esempi

Nella primavera-estate del 1994 pervengono ai giornali locali di Bologna parecchie lettere di cittadini indignati per il ritrovamento in luoghi pubblici di interiora animali. Autobus, parchi pubblici, parcheggi, sembrano essere i luoghi privilegiati dai misteriosi seminatori di frattaglie.
Alcuni passanti sono poi testimoni della performance di un giovane attore teatrale in una via del centro storico. Simulando un attacco di convulsioni, l'attore si getta a terra "sventrandosi". Da sotto la camicia lascia uscire un intestino di vitello che scivola sul selciato.
Qualche settimana dopo, mentre le lettere e le segnalazioni continuano incessanti, all'Happening dei giovani di Comunione e Liberazione, presso i Giardini Margherita, vengono rinvenuti un cervello di vitello, e un cuore suino appeso ad una bava da pesca con un misterioso cartello riportante la scritta "Novosibirsk brucia!".
E così nasce il fenomeno che i giornalisti battezzeranno "Orrorismo". Pagine e pagine delle cronache locali vengono riempite con i pareri di noti docenti di storia dell'arte, sociologi, psicologi, e virtuosi vari.
Soltanto sul finire dell'estate la ricostruzione completa della vicenda verrà resa disponibile da un certo Luther Blissett. L'orrorismo non esiste, le uniche azioni orroriste realmente compiute sono state le due sopra riportate, le lettere pubblicate sui giornali che riferivano dei ritrovamenti di frattaglie in città erano tutte false, scritte dagli orroristi medesimi.
Prova generale di sistema: quello che puoi fare con qualche francobollo e un passaggio in macelleria.

Nel gennaio 1995 la redazione della trasmissione televisiva "Chi l'ha visto?" si interessa a un lancio Ansa che denuncia la scomparsa di un artista inglese in Friuli, un certo Harry Kipper.
L'appello per il ritrovamento della persona scomparsa parte da un gruppo di bolognesi che trasmettono da una radio locale, amici di Kipper. Durante un giro in bicicletta nel nord Italia l'artista ha fatto perdere le sue tracce. L'ultima apparizione è avvenuta ad Udine, dove Kipper era ospite da alcuni conoscenti friulani, anch'essi attivi nella redazione di una radio.
"Chi l'ha visto?" invia una troupe a Bologna, quindi a Udine; intervista gli amici di Kipper, i quali ricostruiscono le tappe del suo percorso e ne descrivono il carattere. Infine la troupe della Rai si sposta a Londra, dove incontra gli amici inglesi di Kipper e filma i luoghi frequentati da questo bizzarro personaggio, la sua casa, le sue opere.
Il materiale ripreso viene montato e preparato per essere mandato in onda. Ma all'ultimo momento una provvidenziale telefonata all'ambasciata britannica e una ricerca anagrafica mirata costringono i responsabili della trasmissione a bloccare tutto. Risulta infatti che Harry Kipper non è mai esistito. è tutto falso, si è trattato di una "circonvenzione" messa in pratica tra Bologna, Udine e Londra da un gruppo transnazionale di persone accomunate dall'uso della stessa sigla: Luther Blissett. Lo stesso che pochi giorni dopo rivendicherà la beffa svelandone tutti i retroscena ai quotidiani nazionali.

Nella primavera del 1996 sulle pagine nazionali de "Il Resto del Carlino" viene pubblicata integralmente la lettera - pervenuta alla redazione - di una prostituta sieropositiva che confessa di utilizzare ormai da tempo profilattici forati, per vendicarsi dell'infezione da HIV contratta durante l'esercizio della professione. Il quotidiano dedica due pagine intere alla vicenda, con tanto di pareri "specialistici" (il sociologo, lo psicologo, il criminologo, il teologo, ecc.) fomentando senza alcun ritegno il panico morale.
Dopo alcuni giorni di can-can scatenato, alle redazioni di tutti i quotidiani nazionali perviene una seconda missiva. La prostituta in questione è il parto della fantasia di un gruppo di guerriglieri mediatici che si firma Luther Blissett. Per altro la chiave dell'inganno era già contenuta nella prima lettera, siglata L.B.

Tra il 1996 e il 1997 la città di Viterbo viene percorsa da un'ondata di panico morale. Polizia e cronisti locali, preventivamente avvertiti da telefonate anonime e misteriosi messaggi murali, rinvengono nella campagna viterbese i resti di messe nere con vari ammennicoli satanici: gallinacci, candele, pentacoli e paccotiglia del genere.
Negli stessi mesi pervengono ai giornali locali svariate lettere di cittadini che segnalano ulteriori tracce della presenza satanista nell'hinterland viterbese e gettano addirittura il sospetto che gli adoratori del demonio abbiano agganci nella giunta comunale.
Ai giornalisti viene comunicata la nascita di un Comitato per la Salvaguardia della Morale: i cacciatori di satanisti, i cui comunicati trovano spazio nelle pagine dei quotidiani locali.
Il panico cresce, il clima si surriscalda, il vescovo di Viterbo è costretto a spendere più di una parola nelle sue omelie sul diffondersi del satanismo in città. E ancora lettere su lettere, articoli, scoop e controscoop: un anno di rassegna stampa.
Poi alla redazione del TG del Lazio e a quella di Studio Aperto (Italia 1) perviene una videocassetta. è una ripresa rubata di nascosto ad un consesso satanista. Per la verità non si vede quasi niente: schermo nero frusciante, e un lumicino in lontananza con una cantilena in simil latino in sottofondo, interrotta dalle urla di una ragazza.
La videocassetta è accompagnata da una lettera in cui un anonimo videomaker rivela di aver seguito i satanisti fino al luogo del loro convegno, ma di non essersi potuto avvicinare di più per paura di essere scoperto.
Il TG regionale darà la notizia; Studio Aperto mostrerà il video con pesantissimi commenti.
Una settimana più tardi al settimanale del TG1 "TV7", Gianluca Nicoletti mostra lo stesso filmato, ma nella versione integrale fattagli pervenire dal misterioso regista.
Gli ingredienti sono gli stessi: buio, lumicino, cantilena, urla. Ma la telecamera si avvicina sempre di più, fino ad entrare nella piccola costruzione, dove sta avendo luogo la messa nera: ci sono alcune figure incappucciate, intorno a un fuoco. D'un tratto si tolgono i cappucci e si gettano in una sfrenata tarantella, mostrando un poster di Luther Blissett.
Nicoletti svela l'arcano. Le lettere ai giornali, il Comitato per la Salvaguardia della Morale, le scritte murali, i resti delle messe nere, fino al video rivelazione: tutto falso. Tutto orchestrato ad hoc dalla colonna laziale del Luther Blissett Project.

Nel 1996 la casa editrice Mondadori fa uscire un libro firmato Luther Blissett, intitolato net.gener@tion. Il curatore, tal Giuseppe Genna, spiega nell'introduzione come è riuscito a mettersi in contatto con il Multiplo e a farsi spedire il materiale con cui ha costruito il libro. è stato contattato per via telematica e ha ricevuto istruzioni mano a mano che l'opera prendeva forma.
Il giorno stesso in cui il volume esce nelle librerie italiane, dalle pagine de "La Repubblica" e de "Il Manifesto" Luther Blissett rivendica una delle beffe più grosse della sua carriera: la grande beffa alla Mondadori.
Questo Giuseppe Genna si stava aggirando da un po' di tempo nei meandri della rete, frequentando gruppi di discussione, visitando siti, ecc., in cerca di Blissett. Prima di rispondere alle richieste di questo perfetto sconosciuto, Blissett decide di documentarsi, scoprendo che si tratta di un neo-fascista doc, collaboratore di riviste e case editrici di estrema destra, col vizio, diffuso in quegli ambienti, di cercare il flirt con la sinistra radicale. Invece di mandarlo a quel paese, Blissett decide di usarlo come cavallo di Troia per beffare la Mondadori. Così prende contatto col gonzo, lo lusinga con qualche frase "misteriosa" di sapore vagamente esoterico-iniziatico, e poi comincia a passargli il materiale più scadente che si possa raccattare in giro. Documenti presi dalla rete e plagiati al punto da diventare irriconoscibili, testi scritti completamente sbronzi, temi scolastici sulle nuove tecnologie, false interviste, e via di questo passo. Genna, ringalluzzito, presenta il libro alla Mondadori, e la casa editrice lo fa uscire, con un'assurda epigrafe in cui afferma di prendere le distanze dai contenuti del volume e di averlo dato alle stampe per pura conoscenza. Una formula stranissima che non lascia capire se l'editore è spaventato dai contenuti demenziali del libro o dall'appartenenza politica del curatore. Il libro esce già bruciato, e venderà non tanto come testo di Blissett, quanto come esempio di beffa blissettiana.

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