Parti 1 e 2
LE DIFFERENTI UGUAGLIANZE Figurazioni del nomadismo: "homelessness" e "rootlessness" nella teoria sociale e politica contemporanea (di Rosi Braidotti*)

Postmodernità

Vi è tra i cultural critics di orientamento progressista (femministe, studiosi del postcolonialismo, queer critics e "altri") un consenso generale e quasi scontato circa il fatto che, per citare Appadurai:

"Il mondo in cui viviamo oggi appare rizomatico o addirittura schizofrenico, tanto da richiedere, da un lato, teorie della rootlessness ­ ovvero dell'"assenza di radici"­, dell'alienazione e della distanza psicologica tra individui e gruppi, dall'altro, fantasie (o incubi) di ubiquità elettronica".

In altre parole, uno dei paradossi della nostra condizione storica è dato dallo svilupparsi simultaneo di tendenze contraddittorie: da un lato, abbiamo la globalizzazione dei processi economici e culturali, i quali generano un conformismo crescente nei consumi, negli stili di vita e nelle telecomunicazioni. Dall'altro, assistiamo alla frammentazione di questi stessi processi: il riaffiorare di differenze regionali, locali, etniche, culturali non solo tra i vari blocchi geopolitici, ma anche all'interno di essi.
Nell'Occidente, l'economia transnazionale influenza la nostra vita
quotidiana a livelli diversi (macro e micro) e produce infinite contraddizioni. Così, il flusso di capitale libero dai vincoli territoriali ha trasformato il ciberspazio in uno spazio sociale estremamente conflittuale; più che un luogo, esso rappresenta un insieme di relazioni sociali mediate da flussi tecnologici di informazioni. In esso il denaro circola e occasionalmente si materializza in monete e banconote reali, prima apparse sullo schermo di un computer come dati digitali. La postmodernità risulta quindi strettamente legata all'elettronica, cosa questa che comporta un certo numero di aspetti problematici.
In primo luogo, il mezzo elettronico è distribuito su scala mondiale
in modo tutt'altro che uniforme, quanto ad accesso e partecipazione. L'appartenenza etnica e di genere sono i principali assi di differenziazione negativa. Inoltre, la postmodernità tecnologica congela il tempo e disloca il soggetto, consentendo relazioni interpersonali differite o virtuali. Essa ha a che fare con l'ipermobilità. Questo favorisce anche l'introduzione di estensioni protesiche delle nostre funzioni corporee: segreterie telefoniche che moltiplicano le capacità uditive e mnemoniche; apparecchi telefax; forni a microonde; spazzolini da denti elettrici; embrioni congelati; videoregistratori e reti di telecomunicazi one che amplificano altre funzioni corporee. Tutto ciò comporta la fine del continuum spazio-temporale proprio della tradizione umanista e determina la diffusione del nostro essere corporeo in molti siti tra loro discontinui. Il problema è che noi stiamo già vivendo in questo modo, ma non siamo in grado di rappresentarcelo in maniera creativa.

La schizofrenia è la sola immagine a cui riusciamo a pensare, segno questo della nostra povertà immaginativa. Seguendo l'opera di esponenti del pensiero postcoloniale quali Gayatri Spivak, Stuart Hall, Paul Gilroy e altri, ritengo che, da un punto di vista europeo, uno degli effetti più significativi della postmodernità è il fenomeno della transculturalità, ossia l'avvento di un contesto multi etnico o multiculturale. Il fenomeno della migrazione su scala mondiale ­ dalla periferia verso il centro ­ costituisce una sfida alla presunta omogeneità culturale degli stati-nazione europei. Questo nuovo contesto storico ci impone di spostare l'oggetto del dibattito politico dalle differenze tra le culture alle differenze all'interno di una stessa cultura. Il movimento femminista è particolarmente consapevole di questa necessità. Spivak lo dichiara in modo netto:

"il volto del femminismo mondiale è rivolto verso l'esterno e deve essere accettato e rispettato come tale anziché divenire oggetto feticistico in quanto figura dell'Altro."

Appadurai riprende tale concetto e afferma:

"Così, oggi il tratto principale della cultura mondiale è costituito dalla politica di reciproca cannibaliz zazione messa in atto dall'identità e dalla differenza per proclamare il successo del loro tentativo di appropriazione dell'accoppiata illuminista di trionfo dell'universale e duttilità del particolare."

Uno dei paradossi centrali della condizione storica postmoderna è costituito dai terreni instabili di dibattito su cui periferia e centro vengono poste l'una contro l'altro in maniera così diabolicamente complessa da sfidare modi di pensiero dualistici od oppositivi, richiedendo invece un'articolazione più sottile e dinamica. Infine, ma non per questo meno importante, il dilemma postmoderno riguarda lo spostamento del potere geopolitico dalla regione atlantica settentrionale in favore del Pacific Rim, cioè l'area del Pacifico e partico larmente l'Asia sudorientale. Cornel West riassume la questione da un punto di vista nordamericano:

"Il postmodernismo [...] è un insieme di risposte legate al decentramento dell'Europa, al vivere in un mondo che non si fonda più sull'egemonia e sul dominio europeo in ambito economico, politico, militare e culturale iniziati nel 1492."

Benché un po' meno ottimista, Spivak sostanzialmente concorda con questa posizione, sollevando però il sospetto che i tanti discorsi riguardanti la "crisi" dell'umanesimo occidentale, e, più specificamente, la filosofia post-strutturalista, possano in realtà riaffermare taluni atteggiamenti universalistici dietro l'apparenza di un posizionamento specifico, localizzato o diffuso del soggetto. Il mio punto di vista nei confronti di tale questione è molto diverso. Ritengo che questo spostamento di potere geopolitico trovi una conferma e, al tempo stesso, una teorizzazione nell'ambito della filosofia post- strutturalista nei termini di un declino del logocentrismo eurocentrico. Filosofi quali Deleuze, Derrida e Cacciari hanno messo in rilievo un fatto interessante su questo spostamento delle relazioni geopolitiche di potere, che rende il loro discorso sulla fine dell'egemonia occidentale europea radicalmente diverso dal discorso nostalgico della destra sul "tra monto dell'Occidente", argomento popolare alla fine del secolo scorso nelle opere di pensatori come Weininger e Spengler. In una prospettiva contemporanea, la più radicale linea di decostru zione dell'eurocentrismo espressa all'interno dell'Europa si manifesta così: ciò che rende la cultura filosofica occidentale così perniciosamente efficace e seducente èl'andare annunciando da oltre un secolo la propria morte. Già con la trinità apocalittica della modernità ­ Marx, Nietzsche e Freud (e Darwin) ­ l'Occidente ha iniziato a riflettere sull'inevitabilità storica e la possibilità logica del suo stesso tramonto. Al punto che lo stato di "crisi"è divenuto il modus vivendi dei filosofi occidentali: noi ci nutriamo di esso, esso è l'oggetto della nostra scrittura infinita; se la crisi non esistesse, probabilmente dovremmo inventarcela. Nessuno, e tanto meno i pensatori critici, dovrebbe quindi assumere il concetto di "crisi" dell'umanesimo occidentale in modo superficiale: questa condizione prolungata e dolorosa di crisi può rappresentare la forma "morbida" che la postmodernità occidentale ha scelto al fine di perpetuarsi. È ancora una volta Spivak a mettere questo aspetto in rilievo:

Data la divisione internazionale del lavoro dei paesi imperialisti, è quanto mai appropriato che la critica migliore degli universali etico-politico-sociali europei debba giungere dalla regione nord atlantica. Ma ciò che nell'ambito del postcolonialismo appare ironicamente appropriato è il fatto che tale critica trovi la sua migliore messa in atto al di fuori della regione nordatlan tica nello smantellamento dell'imperialismo.

Il fatto che il discorso post-strutturalista sul tramonto dell'eurocentrismo sia, quantomeno in parte, sovversivo, può essere di mostrato mettendone in rilievo l'impopolarità negli ambienti accademici istituzionali [...]. Le carriere relativamente scialbe dei maggiori post-strutturalisti nei loro paesi dimostrano che in Europa la filosofia e le scienze sociali dominanti vedono il post-strutturalismo con grande sospetto. Butler e Scott hanno suggerito che ciò può essere legato al fatto che questa filosofia evoca un timore di perdita di padronanza e una sorta di espropriazione cognitiva. Mi sembra quindi che si debba riconoscere ai post-strutturalisti il loro atto di sfida nei confronti del potere del discorso logocentrico e la denuncia della prassi etnocentrica occidentale, la quale consiste nel voler spacciare l'Europa come il centro del mondo, confinando il resto del pianeta in una immensa periferia. Ma, lasciatemelo dire, questi margini sono alquanto affollati. La convergenza tra il discorso della "crisi' dell'Occidente all'interno del post-strutturalismo e la decostruzione postcoloniale dell'imperialismo bianco non è una condizione sufficiente, benché io la ritenga necessaria, ai fini di un'alleanza politica tra i due. Se non altro, questa convergenza getta le basi affinché tale alleanza possa avere luogo. Anthony Appiah ci ricorda la necessità di non confondere il "post" del postcolonialismo con il "post" del postmodernismo, ma di rispettare in vece le loro specifiche collocazioni storiche. E le femministe sanno bene che la decostruzione di sessismo e razzismo non ne implicano automaticamente la caduta. Vorrei tuttavia sottolineare tanto la concomitanza di queste linee critiche quanto la loro inevitabile intersezione su questioni di soggettività politica e resistenza, di identità e differenza sessuale. Non pensate che io goda di questa proliferazione di "postismi" (così come ho cercato in ogni modo di evitare il fatale e sconsiderato "post femminismo"). Molti hanno criticato questo modo preposizionale di pensare. Credo però che l'affrontare queste esigenze contraddittorie costituis ca, in quanto europei, una nostra responsabilità storica; in quanto nord-atlantici che vivono agli albori del ventunesimo secolo, noi siamo storicamente condannati alla nostra storia, poiché siamo coloro che vengono dopo il tramonto storico delle promesse illuministe. Non fa molta differenza che si scelga di chiamare la nostra difficile situazione "postmoderna", "postumanista" o "neoumanista". Ciò che importa è invece la consapevolezza comune di doverci assumere le nostre responsabilità nei confronti della storia della nostra cultura, senza nascondere la testa nella sabbia ma senza neppure cedere al relativismo. Il relativismo non costituisce un'alternativa valida poiché mina la possibilità di coalizioni politiche e di dibattiti intellettuali. Per quanto riguarda il caso specifico della critica dell'etnocentrismo europeo, ritengo che una prospettiva femminista post-strutturalista ci conduca a mettere seriamente in discussione, per esempio, le premesse sulle quali postuliamo l'identità (europea). Essa non viene concepita come un'essenza immutabile e data a priori, di natura biologica, fisica o storica. Al contrario, costituisce un processo: essa si costruisce nel gesto stesso che la istituisce come il punto fermo su cui si fondano determinate pratiche sociali e discorsive.

Di conseguenza, la domanda non è più di natura essenzialista: "che cosa è l'identità etnica o nazionale?", bensì critica e genealogica: "come si costruisce l'identità?, a opera di chi?, in quali condizioni?, a quali fini?". Per usare le parole di Stuart Hall: chi ha titolo a un'identità etnica o nazionale? Chi ha titolo per rivendicare quel retaggio, parlare in suo nome e trasformarlo in una piattaforma di azione politica? Queste sono domande che riguardano diritto, rappresentanza e soggettività, e che ruotano attorno alla questione dell'identità culturale. Attuando una mossa un po' provocatoria, vorrei spostarmi a ovest suggerendo di prendere l'Unione Europea come la rappresentazione perfetta dei paradossi della postmodernità così come io l'ho definita, tra i cui principali vi è la decostruzione praticata dalla filosofia europea di ciò che Lyotard definisce come le "grandi narrazioni" dell'Occidente. Penso che tutti siano d'accordo nel riconoscere come le pretese uni versalistiche dell'Europa, legate al suo passato coloniale, siano fondate sul potere e sulla forza simbolica dello stato-nazione. Nella storia europea, il nazionalismo va mano nella mano con la missione che gli europei si sono attribuiti di rappresentare il centro. Oggi, il processo di trasformazione transnazionale dell'economia decreta il declino degli stati-nazione in quanto principi di organizzazione economica e politica.

Ralph Dahrendorf tra gli altri ha preso in esame questo grande paradosso dei nostri tempi, cioè che sia stato il capitalismo stesso ad aver determinato la liquidazione delle economie topologicamente fondate. Il declino dello stato-nazione segna inoltre la crisi storica dei valori che esso rappresenta, costituiti essenzialmente dall'autorità maschile basata sulla e incarnata dalla famiglia patriarcale, dall'eterosessualità coatta e dallo scambio delle donne, strutture articolate sull'egemonia maschile. Il declino di tutto ciò ha generato un'enorme ondata nostalgica che, come ci ricorda Fredric Jameson, rappresenta una delle caratteristiche della politica postmoderna. Tuttavia, parlando come femminista antirazzista non posso certamente piangere il declino dello stato-nazione o delle forme di nazionalismo e maschilismo che esso alimentava. Al contrario, trovo allettante l'idea degli stati-nazione che si trasformano in una sorta di musei della cultura popolare e del folclore: essi avrebbero così la sola funzione di incarnare il capitale simbolico di un paese, le sue tradizioni e le sue usanze storiche, linguistiche e letterarie. Mentre l'essenza dei loro meccanismi decisionali rimane ben al di là dei confini nazionali, è perfettamente chiaro che l'avvento della frontiera elettronica e delle autostrade informatiche accelera il processo di smaterializzazione dello stato-nazione. In questo contesto, il progetto dell'Unione Europea rappresenta la manifestazione perfetta del declino storico degli stati-nazione europei e, più specificamente, del virus secolare del nazionalismo europeo. Infatti, quando de Gaulle, Adenauer, de Gasperi e il governo americano gettarono, dopo la seconda guerra mondiale, le basi dell'Unione Europea, essi cercavano non solo di impedire un riaffermarsi del fascismo europeo, [...] ma di ricostruire l'economia in opposizione al blocco sovietico. Il fatto che le questioni di cultura ed educazione abbiano dovuto attendere così a lungo (quasi cinquant'anni) per essere inserite nei programmi dell'Unione Europea, dopo le priorità economiche e militari, la dice lunga circa la complessità e il potenziale di divisione che la cultura può possedere nell'ampio contesto di un progetto il cui fine ultimo è lo smantellamento degli stati-nazione europei e il loro raggruppamento in una federazione. Potrei anche dimostrare ciò ricordando come nel continente l'opposizione all'Unione Europea sia portata avanti, da un lato, dalla destra autoritaria, in particolare da Jean Marie Le Pen e dai suoi compari, dall'altro, dalla sinistra nostalgica, la quale sembra patire drammaticamente il venir meno dei fondamenti topologici sui quali veniva basata la solidarietà della classe lavoratrice. La tradizione "internazionalista" della Sinistra operaia non offre alcun aiuto nell'epoca dell'economia transnazionale. Parlando da intellettuale di sinistra, devo dire che la sinistra è incapace quanto le altre forze politiche di reagire con energia e perspicacia all'evidenza storica della crescente perdita di rilevanza che nel mondo contemporaneo assumono le prassi e il pensiero eurocentrici. La sua tradizionale empatia nei confronti del "terzo mondo", e in particolare nei confronti del "socialismo del terzo mondo", riproduce, benché involontariamente, quel rapporto centro/periferia che la sinistra sembra incapace di sovvertire. In tale contesto, sono necessari una maggiore lucidità e un rinnovato senso della strategia politica. I movimenti femminista, pacifista e antirazzista possono costituire in questo processo una grande fonte di ispirazione. Ho così sostenuto che, in quanto progetto, l'Unione Europea sia legata al rifiuto di quel falso etnocentrismo che ha storicamente reso l'Europa la patria di nazionalismo, colonialismo e fascismo. Il progetto di unificazione è legato alla salutare esperienza del dover fare i conti con la nostra collocazione specifica. Daniel CohnBendit, già leader del movimento studentesco parigino del maggio '68 e ora parlamentare europeo particolarmente attivo in campo antirazzista, ha recentemente dichiarato che se intendiamo far funzionare il progetto europeo, dobbiamo davvero partire dal presupposto che l'Europa è il luogo nel quale viviamo e del quale dobbiamo assumerci ogni responsabilità. Immaginare qualsiasi altra cosa significherebbe ripetere quel volo nel regno dell'astratto per cui la nostra cultura è (tristemente) famosa e che potrebbe procurarci, nella migliore delle ipotesi, i vantaggi dell'escapismo, nella peggiore, il lusso della colpa. Noi dobbiamo iniziare da dove siamo. Voglio sottolineare questo punto perché, è molto facile per noi europei occuparci di questioni sociali che riguardano luoghi lontani, anziché prestare attenzione ai problemi di casa nostra. Neppure la sinistra politica o il movimento femminista costituiscono delle eccezioni: quanto del nostro tempo e della nostra energia vengono spesi speculando, ad esempio, sulle terribili condizioni delle donne di altri paesi e di altre culture, come se lo status quo della nostra realtà quotidiana fosse così incredibilmente perfetto? Eppure, donne di colore come Chandra Mohanty ci hanno messo in guardia molto risolutamente contro quella consuetudine etnocentrica che consiste nel costruire la "donna del terzo mondo" quale oggetto di oppressione che richiede il nostro sostegno; anche Spivak ha paragonato questa forma di "solidarietà" a un paternalismo benevolo che ha molto a che vedere con il colonialismo. È per opporsi a questo volo nel regno dell'astratto che le femministe hanno offerto prospettive situate e hanno applicato una politica della collocazione: è tempo di fare con freddezza e lucidità i conti con noi stesse. Il mio è, di conseguenza, un invito alla lucidità e all'adozione di prospettive radicate e incarnate. Abbiamo bisogno sia di strategie politiche sia di figurazioni immaginarie adeguate alla nostra condizione storica. Tuttavia, questa è soltanto una faccia di quella paradossale moneta che è la decostruzione europea. L'altra, al tempo stesso autentica eppure assolutamente contraddittoria, è costituita dal rischio di ricreare, attra verso la nuova federazione europea, un centro sovrano. Il fatto che le due cose siano contemporaneamente vere rende la questione dell'identità europea una tra le aree attualmente più controverse della filosofia politica e sociale nel nostro mondo. La tendenza reattiva a coltivare un senso sovrano dell'Unione è conosciuta anche come sindrome della "fortezza Europa", ampiamente criticata da femministe e antirazziste quali Helma Lutz, Nira YuvalDavis, Atvar Brah, Floya Anthias e Philomena Essed. Esse ci ammoniscono contro il pericolo di sostituire al vecchio eurocentrismo un nuovo "europeismo", cioè il credere in un'Europa etnicamente pura. La questione della purezza etnica rappresenta un problema cruciale e costituisce, naturalmente, il germe dell'eurofascismo. Non vi sono dubbi che tale idea possa condurre alla balcanizzazione dell'intera area geografica, specialmente dopo gli eventi nella ex Yugoslavia. La "fortezza Europa" costituisce un problema non soltanto per i molti che ne rimangono fuori, ma anche per coloro che si trovano al suo interno. La tanto celebrata "libera circolazione" delle persone difficilmente riguarda le minoranze etniche che vivono in Europa. Come ha scritto H. Lutz:

le frontiere tra l'Europa e il resto del mondo vengono sempre più fortificate. L'Europa non è mai stata così ansiosa di trovare misure legali volte a tenere fuori dai propri confini l'"ondata degli stranieri". Poiché i provvedimenti intesi a escludere gli `altri' si accompagnano alla costruzione di una alterità culturale, religiosa o `razziale', le minoranze razziali all'interno dell'Unione Europea sono progressivamente divenute gli obiettivi di questo "processo di costituzione dell'alterità".


*Rosi Braidotti insegna presso la facoltà di lettere della Utrecht University