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“Il terzo continente”(di Barbara Martini)
In viaggio alla ricerca delle motivazioni, delle aspettative e dello stile di vita dell’ “Essere” Educatore professionale

SECONDA TAPPA-Essere nel presente: la figura dell’Educatore di oggi tra motivazioni e aspettative

“Molto tempo fa  mi sembrava che soltanto guardando al futuro noi potessimo preparare i fanciulli ad affrontare il presente:adesso mi sembra che potremmo farlo meglio guardando al passato”. N. Postman

1. Alla ricerca  del riconoscimento della propria identità

professionale

La confusione che si trovano a vivere gli educatori  nella percezione del proprio ruolo è confermata da diversi fattori,  quello  più conflittuale e forte in questo momento  riguarda la problematica normativa sulla loro formazione che consegue a un profilo professionale ancora non stabilmente definito.

 Infatti se da una parte è riconosciuta socialmente la figura dell’educatore ,  tanto da inserirla di ruolo dentro la nuova riforma sanitaria, dall’altra non le si forniscono gli spazi (i posti di lavoro all’interno dei servizi sociali pubblici e privati) e gli strumenti  che le appartengono (competenze e professionalità). Questa contraddizione che ci si trova a vivere nasce dalla mancanza di  una chiara e precisa normativa  che ne riconosca innanzitutto il profilo professionale, ancora non stabilmente e collettivamente definito, e renda possibile una utile e adeguata formazione, riconoscendo  alla figura dell’educatore una specifica identità   che non può solo essere definita “a tavolino”  in risposta a bisogni legislativi, ma deve invece considerare l’identità propria dell’educatore, quella che gli appartiene veramente e che non è imposta, ma nasce da un preciso percorso storico evolutivo  che lo  ha portato  ad essere una figura molto complessa nelle sfaccettature educative, poliedrica dalle numerose competenze (pedagogiche, psicologiche, sociologiche, culturali, animative, ecc.), e queste non possono essere ridotte semplicemente e approssimativamente come  invece accade  in questo momento da parte  del Ministero della Sanità.

Ovviamente  la mancanza di una  normativa e di un profilo collettivamente riconosciuto crea una confusione generale e una non chiarezza che  non permette una adeguata  risposta ai bisogni del sociale, oltre che a quelli degli educatori stessi, ma  questa, che occupa sicuramente il posto più ampio, non è l’unica reale difficoltà.

Si è sperimentato infatti, in questi anni d’esperienza vissuti un po' nell’ “anonimato”, che l’educatore può inserirsi  nella realtà sociale e sanitaria, solo se è convinto lui per primo della propria professionalità, dell’utilità del proprio operato, della validità dei propri interventi, dei reali bisogni a cui deve rispondere: deve insomma in qualche modo “riconoscersi” per farsi riconoscere. Questa  che è una realtà  concreta  del “gioco della vita” e riguarda un po' tutte le professionalità,  investe a maggior ragione quella  “neonata” dell’educatore:  questo richiede uno sforzo  coraggioso e maggiore  agli attuali educatori, quelli che possiamo definire come i “pionieri” di questa nuova professione. Con umiltà  quindi, l’educatore non dovrebbe accettare che siano gli altri, la “sanità” a definirlo: egli già possiede una propria identità che deve autodefinirsi e, prima ancora che ufficialmente tramite decreti vari, dentro se stesso e  all’interno dei servizi.

E’ proprio  a partire da questa  nuova consapevolezza che gli educatori si sono interrogati mettondosi in discussione sulla propria  identità professionale: su chi fossero, cosa volessero, quali competenze avessero  acquisito e quali gli spettassero, ma soprattutto  a quale bisogno dovessero dare risposta. Da questo movimento interno di ricerca, alcuni educatori si sono attivati  all’esterno  aggregandosi in associazioni  proprio per continuare questo confronto professionale e per  favorire l’organizzazione, lo sviluppo e la tutela  della professione.

 E’ il caso dell’A.N.E.P. (Associazione Nazionale Educatori Professionali), che  ha posto tra i suoi  obiettivi principali  appunto, il confronto attraverso lo studio, i seminari, le conferenze, i dibattiti, fino a sviluppare un’editoria propria: la rivista semestrale EP (Educatore Professionale)  .

 Questa rivista è diventata così uno strumento concreto degli educatori per promuovere e solllecitare  in tutto il territorio nazionale, la definizione  e il riconoscimento giuridico del tanto anelato profilo professionale, questo anche attraverso  l’opinione di autorevoli esperti  del sociale che vi pubblicano articoli, nonchè  per favorire anche l’individuazione di un percorso formativo  di base e la riqualificazione sul lavoro.

L’ANEP promuove inoltre il dibattito culturale e lo sviluppo  in termini teorici della professionalità educativa attraverso una formazione permanente e l’aggiornamento. Collabora anche con le strutture pubbliche al fine di attuare una promozione critica, di studio, di ricerca e di analisi organizzativa della professione di educatore, infatti anche i maggiori rappresentanti dell’associazione sono stati presenti  al Ministero della Sanità per discutere gli ultimi accordi legislativi sulla professione.

Ultimo grosso impegno a cui l’Anep insieme agli associati sta lavorando, è quello di raccogliere e inviare  proposte nuove e una  ridiscussione del profilo professionale (non chiaro e non riconosciuto adeguato dagli educatori), in Parlamento.

Noi non smetteremo di esplorare, e alla fine della nostra esplorazionearriveremo là dove siamo già stati e conosceremo il posto per la prima volta” T.S. Eliot, «Four Quartets»

2. Il “Noi” degli educatori: un approccio psico-sociale ai temi

dell’identità professionale [1]

La psicologia sociale,in particolare quella europea, si interessa da tempo del particolare intreccio che connette l’azione individuale alle dinamiche intergruppo. In questo campo le teorie di Moscovici e di Tajfel costituiscono i capisaldi  di questa linea di pensiero fortemente connotata in senso sociale. Una riflessione sull’identità professionale dell’educatore in fase di rapida trasformazione, qual’è quella in corso, è stata fornita dall’analisi di alcune osservazioni che si sono poste come stimolo “dall’esterno”, per un approfondimento  “interno”.

Prima analisi.  Innanzitutto, il costituirsi di una categoria professionale è sempre un processo  che si svolge per gradi. C’è all’origine un bisogno sociale, più o meno definito, a cui i diversi attori in campo rispondono adottando un sistema di pratiche inizialmente “non normate” che promanano da modelli teorici assai diversificati, estrapolati di frequente da campi contigui e declinati in modo sempre più specifico.

Questa potrebbe essere definita la “fase magmatica” della categoria sociale in via di costituzione. Un “noi”  è ben lungi dall’essere definito, e i componenti della categoria tendono a stabilire  appartenenze più legate allle pratiche e allle azioni concrete che all’identià collettiva. In assenza di  un “noi  forte”, l’appartenza tende ad associarsi al “locus” dell’azione: ad esempio la struttura  o il servizio presso il quale si opera. Questa dinamica tra “locus” e “ status” è sempre presente, anche nelle fasi successive,con diverse forme di  complementarietà tra i due poli, tra “esserre chi” e “essere dove”. Nel periodo di massima consapevolezza del bisogno di appartenenza categoriale, ad esempio il polo dello  status tende  a travalicare l’altro, fino a rischiare picchi corporativi, laddove la distribuzione del potere professionale lo consenta. Le carenze sul piano della definizione di una chiara identità sociale tendono invece a tradursi in un forte bisogno di appartenenza “locale” (alla struttura, al settore d’intervento) o in una diffusione del burn-out.

Seconda analisi. Secondo Tajfel, la categorizzazione sociale è un processo  costitutivo dell’azione e dell’identità sociale. Ogni individuo ha bisogno  contemporaneamente di somigliare a qualcuno  più di quanto non gli somigli davvero e di essere diverso da qualcun altro più di quanto non lo sia in realtà. Attraverso questa dinamica concentrica di somiglianze e differenze plurime, ogni individuo giunge a costituire la componente sociale della propria identità. Tutti abbiamo bisogno di un “noi”. Perchè questo noi sia sufficientemente forte e stabile, abbiamo bisogno di un “loro” da cui differenziarci. L’identità sociale di un gruppo o di una categoria nasce dunque da un processo di confronto sociale. Più un gruppo si percepisce  come “socialmente debole” e minacciato da altri gruppi rispetto alla propria esistenza in quanto entità autonoma, più dovrà cercare di costruire internamente “una differenziazione positiva del proprio gruppo rispetto a particolari gruppi esterni” (Tajfel,1988). Questi gruppi esterni, o “out-groups”, saranno quelli che, in quanto contigui, sono vissuti come più direttamente pericolosi per l’identità categoriale.

Terza analisi. Ogni settore professionale può essere visto come un campo in cui interagiscono diverse figure caratterrizzate da ruoli, competenze e funzioni.  Il loro intrecciarsi in forme specifiche, più o meno definite, da  vita ad una  unità psico-sociale complesa che definiamo organizzazione.

In quanto unità psico-sociale, l’organizzazione è il luogo d’incontro tra diverse aspettative, attribuzioni, sistemi di significato, somiglianze e differenze fra categorie sociali.

L’organizzazione specifica di un certo contesto costituisce una sorta di microcosmo in cui si svolge la “battaglia” per la costruzione, la salvaguardia e la valorizzazione delle diverse identità sociali che la compongono.

Possiamo immaginare l’universo socio-professionale come una rete di organizzazioni in cui si intrecciano le esigenze d’identità delle singole professionalità e le esigenze di identità delle singole organizzazioni, in una dinamica costante tra diversi “noi”, diverse appartenenze.

A questo gioco “interno”, va poi ad aggiungersi l’influenza  di ciò che avviene fuori, nel sistema sociale più ampio entro cui la dinamica delle identità professionali si sviluppa.

In sostanza la psicologia sociale sostiene che, anche chi non partecipa direttamente al confronto sociale tra determinati gruppi o categorie (chi  non è, ad esempio, nè educatore, nè psicologo, nè assistente sociale,nè operatore dei servizi) influenza comunque, anche solo come osservatore, o fruitore, o partecipante a conversazioni sui servizi e sul loro modo di operare, lo svolgimento dell’intreccio interno alle categorie direttamente coinvolte.

La dinamica delle rappresentazioni sociali, come mostra Moscovici, è tale da dar vita ad immagini socialmente condivise circa la natura, la funzione e la competenza di certe professionalità, e queste immagini influenzano sia pur in modo non lineare, la definizione “interna” alla categoria  e la sua forza nel confronto con l’esterno.

Quarta analisi.  Per cercare di  abbozzare i contorni dell’identità socio-professionale dell’educatore, occorre quindi tener conto dell’intersecarsi degli aspetti di confronto sociale con le categorie professionali contigue e dell’evolversi delle rappresentazioni sociali prevalenti.

Queste doppie riflessioni portano ad un approfondimento che può essere tradotto in due campi di domande a cui cercare risposte:

A) Quali “altre” categorie professionali sono importanti nel definire, per differenza, lo specifico dell’educatore? Quali sono gli “out-groups” che permettono all’educatore di trovare un “noi”? Quali azioni, pratiche, funzioni, costituiscono il minimo denominatore della categoria, una sorta di sottile linea di confine che va difesa dagli sconfinamenti? Quali strutture, organizzazioni sociali, servizi, sono diventati nel tempo il territorio d’elezione dell’educatore, e sono quindi anche il territorio su cui si svolgono le “battaglie” per l’identità collettiva con altre figure professionali? (da dove vi volgliono cacciare, chi cerca di sostituirvi, dove vogliono spingervi ad entrare?)

B) Qual’è la rappresentazione sociale prevalente dell’educatore? Come lo definirebbe la gente comune? E l’utente? E il collega che lavora nella stessa struttura? In che modo le pratiche degli educatori riescono ad influenzarne le rappresentazioni esterne e viceversa? Eventualmente, come modificare, e in che direzione, il proprio agire, qualora si ritenga essenziale produrre una modificazione nella rappresentazione sociale della categoria? E al loro interno, gli educatori si auto-rappresentano secondo percorsi, motivazioni, e aspettative uniformi o variegate? (per gli psicologi, ad esempio, la ricerca di Palmonari, ha mostrato l’intreccio di quattro rappresentazioni interne prevalenti). Linee di ricerca per un futuro approfondimento, niente di più.

Per ora i dati disponibili, tratti dalle ricerche per la verità prevalentemente quantitative condotte  all’interno della categoria, mostrano  alcuni aspetti stabili della situazione esistente:

a) La professione del’educatore è ancora prevalentemente femminile, anche se ci sono differenze percentuali piuttosto rilevanti da regione a regione: in Lombardia, ad esempio, il rapporto maschi/femmine è quasi alla pari.

Rispetto a questo dato ormai acquisito sarebbe interesante indagare sul trend longitudinale (com’è cambiata la situazione negli ultimi 5 anni) e sulle  differenze tra le percentuali per sesso nella categoria educatori e le percentuali delle categorie contigue (ad esempio, sono di più le donne educatrici o le donne assistenti sociali; e le psicologhe? E così via).

Perchè la professione di educatore è così “femminile”? Solo per la consueta argomentazione sulla propensione delle donne ad operare nei settori in cui è fortemente presente la relazione e il “farsi carico”, o magari anche per motivazioni più sociologiche riguardanti le prospettive di carriera, che orientano diversamente uomini e donne.

b) La professione di educatore sembra  essere sempre meno  una “professione di passaggio”, una sorta di contenitore di aspettative ambivalenti tipiche delle fasi di transizione e di spazio per l’investimento di motivazioni socio-politiche. La strutturazione di percorsi formativi di base e di riqualificazioni pare aver agito nella direzione di far compiere scelte maggiormente definite ed operato una inevitabile selezione rispetto alla situazione precedente. Il “formarsi insieme” è stato dunque un passaggio importante nella costruzione della identità collettiva prima e professionale poi. Oggi siamo al di là del guado?

c) I dati indicano che i campi d’occupazione degli educatori si stanno  modificando: a fianco della tradizionale presenza nel settore dell’handicap, va sviluppandosi uno spazio sempre maggiore nella salute mentale e nelle tossicodipendenze. Come mai? E’ un segno di forza o di debolezza della categoria? Gli educatori sono pronti a cogliere questa come opportunità di crescita della categoria o temono invece di disperdere la professionalità acquisita nei settori storici in mille rivoli dequalificanti? Come fare in modo  che l’essere duttili e “figura di confine” non comporti uno svuotamento dell’identità e dello status a vantaggio di una centralità del “locus” di intervento? Inoltre, l’ingresso dell’educatore nei servizi pubblici, ancora estemporaneo e insufficiente, non ha modificato il dato storico secondo cui l’educatore è prevalentemente inserito nel privato sociale, e ciò è caratteristica tipica della categoria che la differenzia dalle categorie professionali contigue. Quanto incide questa peculiarità nel mantenere una certa “fragilità” dell’identità del’educatore, o al contrario, nel rafforzare l’orgoglio  per la differenza dagli altri?

“Gli ostacoli non mi fermano; ogni ostacolo conduce a una ferma risoluzione” Leonardo da Vinci

3. “Essere o non essere...” questa è la problematica normativa sulla formazione dell’educatore professionale

La figura dell’educatore e in generale dell’operatore socio-psico-pedagogico, risulta, come si è già precedentemente affermato, difficilmente definibile sul piano legislativo, non tanto per mancanza di interventi normativi da parte degli organi giurisdizionali, ma proprio per l’eccessiva e contraddittoria presenza di norme legislative  emanate de organismi diversi (delibere e Leggi Regionali, Decreti Ministeriali, D.P.R. e Leggi Nazionali, Sentenze del Consiglio di Stato, ecc.) che hanno reso la figura ed il ruolo dell’operatore socio-psico-pedagogico quanto mai complesso, confuso e contraddittorio.

In questo paragrafo si cercherà di presentare un breve quadro che ne definisca sinteticamente l’evoluzione storica-legislativa fino all’attuale situazione.

La denominazione di educatore risale alla Legge n.1494 del 1962 (Riordino dei ruoli organici del personale addetto agli istituti di rieducazione per minorenni) che prevedeva l’utilizzo di educatori specializzati o anche educatori di comunità negli istituti di rieducazione dipendenti dal Ministero di Grazia e Giustizia.

Per la preparazione di tali operatori sorsero negli anni ‘60 le prime scuole come ad esempio l’ESAE (Ente Scuola Assistenti Educatori) di Milano e la scuola diretta a fini speciali per educatori di comunità presso l’Università «La Sapienza» di Roma.

La funzione rieducativa di tali operatori venne estesa successivamente anche  ai carcerati adulti con la Legge n. 354 del 1975 e con il D.P.R. n. 431 del 1976.

Un secondo ambito di utilizzo della figura dell’educatore venne aperto con la Legge n.118 del 1971 che stabiliva nuove norme a favore dei mutilati ed invalidi civili aprendo così l’intervento nel settore dell’handicap.

Seguiva la Legge n.477 del 1973 (delega al governo per l’emanazione di norme sullo stato giuridico del personale direttivo, ispettivo, docente e non-docente della scuola materna, elementare, secondaria ed artistica dello stato) da cui deriveranno i Decreti Delegati che modificheranno profondamente la scuola italiana aprendola nel 1975 all’inserimento dei portatori di handicap nelle classi comuni con l’utilizzo sia di insegnanti di sostegno sia di assistenti educatori forniti dall’ente locale.

Sempre nel 1975 con il D.P.R. n.970 venivano istituiti i corsi biennali per la specializzazione del personale direttivo e docente delle scuole aventi particolari finalità, che prevedevano la preparazione anche di assistenti educatori per le scuole speciali per ciechi e  per i sordomuti. I corsi biennali, controllati dal Ministero della Pubblica Istruzione, permisero la formazione di insegnanti di sostegno di scuola materna e dell’obbligo per l’inserimento degli handicappati nelle classi comuni.

La Legge n. 517 aboliva le classi differenziali, dettava nuove norme sulla valutazione degli alunni, abolendo i voti in decimi ed istituiva il Servizio  socio-psico-pedagogico nella scuola dell’obbligo.

La circolare ministeriale n.167 del 1978 prevedeva una prima sperimentazione di tale Servizio scolastico con l’istituzione della figura dello psicopedagogista, cioè di un insegnante di ruolo con una laurea  in psicologia o in pedagogia con almeno tre esami in psicologia, che veniva distaccato dall’insegnamento con funzioni di supporto psicoeducativo per la programmazione didattica, per l’inserimento scolastico degli alunni handicappati, per l’orientamento, nonchè per il raccordo con i Servizi socio-sanitari territoriali.

Negli anni ‘60 e ‘70 quindi la legislazione nazionale prevedeva la figura dell’educatore denominato in modo differenziato con funzioni diverse in istituzioni dipendenti  da vari  ministeri. Avevamo così l’educatore specializzato o l’educatore di comunità per gli istituti di rieducazione e per le carceri, dipendenti dal Ministero di Grazia e Giustizia; gli assistenti educatori per le scuole speciali per ciechi e per sordi, nonchè educatori ed insegnanti di sostegno per le suole speciali e per le classi normali con inserimento di alunni portatori di handicap e ancora psicopedagogisti nella scuola dell’obbligo con funzioni di supporto psicoeducativo in via di sperimentazione, dipendenti dal Ministero della Pubblica Istruzione.

La Legge n.270 del 1982 bloccava l’esperienza del Servizio psico-pedagogico trasferendo la maggior parte delle funzioni previste per lo psicopedagogista alle èquipe delle Unità Sanitarie Locali, costituite in quegli anni con la riforma sanitaria nazionale.

Proprio la Riforma Sanitaria (Legge n.833/1978), che tendeva ad unificare tutti i servizi, attraverso l’istituzione delle Unità Sanitarie Locali (USL) portava spesso ad inserire anche i servizi socio-assistenziali e a valorizzare accanto alle figure dello psicologo e dell’assistente sociale anche quella dell’operatore socio-psico-pedagogico, che veniva indicato sempre più con la denominazione di educatore specializzato o educatore professionale, anche se non venivano definite nè precisate chiaramente il ruolo e le aree d’intervento.

Nel 1982 veniva costituita presso il Ministero degli Interni una commissione di studio che distingueva due aree specifiche di intervento per tale operatore: a) l’attività educativa culturale relativa alla promozione sociale, alla formazione permanente ed al tempo libero; b) l’attività socio-educativa e socio-assistenziale rivolta ai minori, agli anziani ed agli emarginati e devianti, nonchè all’inserimento scolastico e sociale dei portatori di handicap. Tale commissione utilizzava il termine di «educatore professionale», mentre altri studiosi (Bertolini,1985) preferivano utilizzare l’espressione di «operatore pedagogico».

Il D.P.R. n.162 del 1982 (Riordino delle scuole dirette a fini speciali, delle scuole di specializzazione e dei corsi di perfezionamento) riportava in ambito universitario la formazione dell’educatore così come quella dell’assistente sociale, prevedendo corsi triennali nelle Scuole dirette a fini speciali. Tuttavia le uniche scuole universitarie attivate furono le due scuole di Roma presso l’Università «La Sapienza» e presso il Magistero «Maria S.S. Assunta».

Contemporaneamente i D.P.R. n.347 e n.348 del 1983, che riguardavano il trattamento economico sia del personale dipendente dagli enti locali che quello del personale delle USL, portavano ad individuare i profili professionali ed i ruoli di tutto il personale, quindi in qualche modo veniva compresa anche la figura ed il ruolo dell’educatore professionale inquadrandolo nelle figure atipiche.

Il D.P.R. n.1219 del 1984 (Individuazione dei profili professionali del personale dei Ministeri in attuazione della Legge 11-07-1980, n.312) veniva a considerare la figura dell’educatore inquadrandola in quattro tipologie in funzione del tipo di attività e di livello di responsabilità assunto; avevamo così: a) operatore dell’area pedagogica, b) educatore, c) educatore -coordinatore, d) direttore dell’area pedagogica.

Infine il  Decreto Ministeriale 10-02-1984 del Ministero della Sanità, noto come Decreto Degan,(Identificazione dei profili professionali attinenti a figure atipiche ai sensi del D.P.R. n.761/1979) identificava l’educatore professionale nell’operatore in possesso di un diploma di abilitazione conseguito in un corso almeno biennale presso  strutture universitarie o presso presidi del Servizio Sanitario Nazionale. In tal modo  mentre il D.P.R. 162/1982 affidava la formazione dell’educatore professionale alle scuole universitarie dirette a fini speciali, un decreto del Ministero della Sanità, rifacendosi alla legislazione relativa alla riforma sanitaria, affidava anche alle USL il compito della formazione di tale figura.

Sulla base giuridica del Decreto Degan  molte regioni, soprattutto quelle dell’Italia settentrionale, con delibere e leggi regionali istituirono scuole o corsi, in genere triennali per educatori professionali, convenzionandoli con le USL per poter godere del finanziamento e del riconoscimento giuridico.

Un’indagine conoscitiva condotta  dalla Fondazione Moneta nel 1989-90 aveva individuato circa 60 corsi per educatori professionali in Italia, per la maggior parte istituiti presso regioni settentrionali. Il doppio canale, universitario e regionale, per la formazione dell’educatore professionale veniva invece bloccato dalla sentenza del Consiglio di Stato n.703 del 25-09-1990 che giudicava illegittimo il D.M. 10-02-1984 (Decreto Degan) del Ministero della Sanità che aveva aperto il canale della formazione professionale extra-universitaria, affidandola ai presidi sanitari.

Questa dichiarazione di illegittimità non ebbe effetto immediato, poichè le scuole regionali ed i corsi  presso le USL continuarono a funzionare ed ad essere finanziati, anche per il crescente bisogno di operatori educativi presso i servizi socio-sanitari ed assistenziali sia delle USL che degli enti locali o anche nell’ambito dell’ampia fioritura di iniziative socio-educative ed assistenziali dovute ad istituzioni del privato-sociale e del volontariato.

Mentre quindi il canale formativo extra-univeritario costituito appunto dalle scuole regionali e dai corsi delle USL continuava a formare educatori professionali, un decreto del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST del 11-02-1991) riformava profondamente il Corso di laurea in Pedagogia, istituendo il nuovo Corso di laurea in Scienze dell’Educazione con tre indirizzi: a) per insegnanti di scuola secondaria superiore, b) per educatori professionali extra-scolastici, c) per esperti nei processi di formazione. In tal modo  in tutte le Facoltà di Magistero a partire dall’anno accademico 1992-93 iniziava la formazione universitaria per l’educatore professionale a livello di laurea.

Si andava delineando a questo punto una situazione conflittuale fra i Servizi regionali sanitari ed assistenziali che prevedevano l’utilizzo di un operatore educativo diplomato che veniva assunto al V o al VI livello retributivo, mentre l’università offriva un  nuovo operatore  laureato da assumere all’VIII o al IX livello. Tale operatore laureato sembrava non in grado di assolvere alla totalità dei compiti attualmente affidati all’educatore diplomato, costringendo quindi i Servizi ad assumere altri operatori, cioè assistenti socio-sanitari al III a al IV livello, per assolvere tali compiti aggravando così i costi senza migliorarne la qualità.

Nel frattempo la Legge n.341 del 19-11-1990 (Riforma degli ordinamenti didattici universitari) aveva ordinato la formazione universitaria in tre livelli, eguagliandola alla legislazione europea. I tre livelli professionali previsti erano: 1) diploma universitario (laurea breve) con corsi biennali o triennali in sostituzione delle Scuole dirette a fini speciali; 2) laurea; 3) diploma di specializzazione. Inoltre veniva previsto il dottorato di ricerca per accedere alla carriera universitaria.

In conseguenza di ciò con Decreto MURST del 31-01-1992 veniva istituito il Diploma universitario per operatore socio-psico-pedagogico, che il Ministero dell’Università affidava a sette università italiane presso le facoltà di Magistero o di Lettere e Filosofia.

Tale diploma universitario per la formazione di quest’ultima figura, non potè essere attivato, in quanto  mancava l’approvazione della tabella delle discipline da parte del Consiglio Universitario Nazionale (CUN). Inoltre essendo stato appena istituito il nuovo Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione, una parte rilevante dei professori universitari di pedagogia si schierava a favore della formazione dell’educatore professionale a livello di laurea  ed escludeva il livello del diploma universitario, perchè riteneva necessario sottolineare la dignità ed il valore  della professionalità educativa di questa nuova figura nei servizi extra-scolastici sia sanitari che socio-assistenziali. Rifacendosi anche alla sentenza di illegittimità del Consiglio di Stato, relativo alle scuole ed ai corsi per educatori professionali dipendenti dalle USL, molti ritenevano che dovesse essere bloccata la formazione di educatori diplomati per privilegiare la formazione a livello di laurea.

L’altra parte dei professori universitari di pedagogia, insieme a tutti i professori universitari di psicologia, erano invece favorevoli all’istituzione del diploma universitario, come livello intermedio, tuttavia rimaneva aperta la discussione sull’identificazione della figura di questo operatore che il decreto del MURST (D.M. 31-01-1992) non indicava con chiarezza limitandosi ad elencare un vasto numero di figure professionali, che venivano comprese nel termine di «operatore socio-psico-pedagogico».

Il 14 -05-1992 a Milano veniva organizzato dall’Università Cattolica del Sacro  Cuore un convegno di studio  sulla formazione dell’educatore professionale a cui parteciparono studiosi di tutte le aree socio-psico-pedagogiche, nonchè funzionari regionali e responsabili dei servizi e direttori delle scuole  regionali.

Il convegno ha affrontato diversi temi e nodi cruciali sulla formazione, sia il problema dei due livelli: diploma universitario e laurea, sia del doppio canale: università e scuole regionali, sia della preparazione  professionale in funzione delle esigenze specifiche dei servizi, strettamente connesse al peso dato nell’ambito della formazione agli apprendimenti teorico-pratici, al tirocinio  professionale ed alla formazione personale. I funzionari e i responsabili dei Servizi regionali  ritenevano che la formazione professionale acquisita presso le scuole ed i corsi delle USL fosse particolarmente curata e pienamente corrispondente alle esigenze dei servizi, mentre ritenevano che l’università non fosse ancora sufficientemente attrezzata nel settore specifico della formazione professionale, pur riconoscendole un superiore livello scientifico.

Emergevano inoltre nodi conflittuali collegati sia ai livelli retributivi e quindi ai costi aggiuntivi che l’educatore laureato avrebbe apportato ai servizi, sia ancora all’incongruenza dell’organizzazione dei servizi progettati e programmati intorno alla  figura unica e polivalente dell’educatore professionale in contrapposizione alla pluralità e alla differenziazione dei compiti educativi nel caso dell’assunzione dell’educatore laureato insieme con l’operatore socio-assistenziale. Dopo questo convegno era  necessario incontrare tutti i docenti delle università a cui  era stato assegnato il compito della formazione, da parte del MURST,  per individuare le figure  professionali interessanti specificatamente il settore psicologico  o il settore pedagogico, ed infine  concordare una tabella delle discipline da proporre al CUN per l’approvazione. Negli incontri  successivi è emersa da parte degli insegnanti di pedagogia,  l’interesse per l’istituzione di un diploma universitario per la figura dell’educatore che si potesse raccordare con la laurea in Scienze dell’Educazione, mentre gli insegnanti di psicologia volevano la stessa cosa per le figure dello psicomotricista e dell’orientatore, con la possibilità per loro invece di inserirsi nel triennio  del Corso di laurea  in Psicologia.

Individuate queste quattro figure: l’educatore professionale e lo psicopedagogista, in ambito pedagogico, lo psicomotricista e l’orientatore in ambito psicologico, venivano elaborate le tabelle delle discipline, prevedendo un primo anno comune e successivamente due anni di specializzazione per ciascuna figura. Le quattro tabelle  con le discipline ordinate anno per anno venivano inviate al CUN per l’approvazione.

Successivamente nel mese di giugno del 1993 ad Arezzo, veniva organizzato un secondo Convegno nazionale  sulla formazione dell’educatore professionale che riuniva  tutti i docenti del precedente convegno, i responsabili dei servizi. E’ emersa da tale convegno la necessità da parte dei servizi di poter disporre di operatori forniti di diploma con una preparazione teorico-pratica polivalente in grado di rispondere alle esigenze differenziate dei diversi bisogni sociali, mentre veniva fatta presente la assai limitata possibilità di assorbimento nei settori dirigenziali e di coordinamento dei servizi per quanto riguardava i laureati in Scienze dell’Educazione. Si continuava a privilegiare la formazione extra-scolastica proposta con la riforma  del corso di laurea in Pedagogia e quella  dei servizi socio-assistenziali e la scelta del Corso di laurea in Scienze dell’Educazione nei tre diversi indirizzi previsti, mentre veniva rimandata nel tempo, o comunque ritenuta meno importante, l’attivazione del diploma universitario per l’operatore socio-psico-pedagogico.

 Nel  frattempo il Decreto Legge n.502 /1992 (Legge di riforma sanitaria) noto come Legge De Lorenzo, e successivamente il Decreto Legge n.517/1993, noto come Riforma Garavaglia, prevedeva all’art.6 la possibilità per le Facoltà di Medicina di proporre diplomi universitari per le figure paramediche, quindi per la formazione di tutto il personale sanitario infermieristico e tecnico della riabilitazione, utilizzando a tal fine le strutture ospedaliere. Sulla base di questo Decreto Legge sono stati istituiti con decreti del MURST ben dieci  diplomi universitari per operatori sanitari. Per ultimo con decreto del MURST del 15/12/1992, ma pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12-02-1994, è stato istituito il diploma universitario in riabilitazione psichiatrica e psico-sociale con tre indirizzi: a) riabilitativo, b) socio-psicoterapico, c) sociale.

La nuova figura del  tecnico  della riabilitazione socio-psico-terapica modifica profondamente il quadro degli operatori dei Servizi socio-sanitari, accentuandone la medicalizzazione e la  psichiatrizzazione, interferendo con le competenze psico-terapeutiche e psico-pedagogiche sia dello psicologo sia dello psicomotricista; l’operatore psichiatrico rischia così si occupare tutti gli spazi disponibili non solo nei servizi sanitari di igiene mentale, ma anche quelli per la tossicodipendenza, degli anziani, dell’handicap, entrando in conflitto con le attuali figure presenti come quella dell’educatore professionale, dello psicologo, ecc., che hanno avuto in iter formativo diverso da quello del diploma universitario della Facoltà di Medicina.

Oggi il mercato e l’offerta in ambito sociale si presentano vastissimi e quanto mai confusi e contraddittori nella divisione delle competenze, nell’assegnazione dei posti, nella specializzazione  richiesta e in quella offerta. Negli stessi Servizi possiamo trovare sia operatori regolarmente assunti sprovvisti di diploma, col solo titolo di maturità di scuola  secondaria superiore, sia operatori con diploma di educatore professionale conseguito in scuole regionali o in corsi biennali o triennali dipendenti dalle USL, corsi tuttavia ormai dichiarati illegittimi dalla sentenza del Consiglio di Stato, oltre ad altri operatori atipici, psicomotricisti, logopedisti, ortofonisti, formati in scuole o corsi parauniversitari o professionali riconosciuti dagli enti locali o ancora in corsi privati.

 Le leggi sono state create e poi invalidate in una successione sufficientemente rapida da non rispondere alla domanda di mercato  poi subito chiusa o diversa appena l’offerta formata vi si presentava; figure dallo stesso titolo con livelli diversi di retribuzione con competenze non chiare. Quest’anno sono usciti i primi laureati in Scienze dell’Educazione e già l’università si trasforma, per rispondere ad un’altra richiesta di mercato, su una competenza ancora non definita, in Scienze della Formazione; escono le prime figure con diploma universitario dalla Facoltà di Medicina della riabilitazione sociale e psico-terapica, ma ancora non si sa quale sia la più adeguata ed economicamente  più appropriata al servizio.

Inoltre qualora il CUN approvasse le tabelle delle discipline per operatore socio-psico-pedagogico relativo alle quattro figure previste nel progetto  realizzato dai seminari di studio organizzati dal CRTI dell’Università cattolica avremmo gli educatori professionali, gli psicopedagogisti, gli psicomotricisti e gli orientatori in possesso del diploma universitario rilasciato dalle Facoltà di Magistero o di Psicologia o di Lettere e Filosofia.

Ipotizzare quindi uno scenario del mercato del lavoro per i Servizi sanitari e socio-assistenziali che presenti tale varietà eterogenea di operatori appare quanto mai assurdo; eppure rischieremo di incontrare ai concorsi pubblici tutte queste figure insieme, diplomati, laureati, dove gli operatori in possesso del diploma universitario rilasciato dalla Facoltà di Medicina risulterebbero in una situazione di netto vantaggio sia verso i laureati in Scienze dell’Educazione sia verso  quelli usciti dai corsi regionali o dalle scuole USL.

In tal modo però verrebbe accentuato il grave rischio di medicalizzazione che i Servizi psico-sociali ed assistenziali già presentano con l’aver concentrato o fatto dipendere dalle USL la maggior parte dei servizi.

Tale situazione confusiva e conflittuale non può sostenersi se non con grave crisi sia della qualità dei Servizi sia delle prospettive occupazionali degli operatori, per cui si rende necessario un intervento legislativo del potere politico che affronti insieme alle rappresentanze dei Servizi e degli educatori, radicalmente il problema in maniera drastica e determinata, anche se non certamente indolore, in modo da proporre soluzioni chiare e definitive che semplifichino l’iter formativo per gli operatori dei servizi sanitari, assistenziali e socio-educativi ed indichino chiaramente la filosofia  cui sia l’organizzazione dei Servizi sia la formazione degli operatori debba ispirarsi.

“Il valore di uno stato è a lungo andare il valore degli individui che lo compongono” J.S. Mill

4. Il nuovo profilo professionale: “Tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale”

Tornando al nostro tema conduttore,  che riguarda le motivazioni e le aspettative degli educatori verso questa loro professione, appare quanto mai interessante conoscere il nuovo profilo professionale appena stilato dal Ministro della Sanità. Il profilo più che  rispondere all’aspettativa degli educatori stessi, risponde a quella  del Ministero della Sanità e si presenta come “un ibrido” fra le due tesi.

Dopo una lunga trattativa che si è conclusa l’8 di ottobre del 1996 con un incontro di sette ore presso il Ministero della Sanità, (presenti l’attuale Ministro Rosy Bindi, i funzionari del ministero che si sono occupati negli ultimi anni del problema del profilo professionale dell’educatore, le Organizzazioni Sindacali, un rappresentante del collegio dei docenti di Medicina e il rappresentante dell’ANEP) il Ministro ha firmato la richiesta di parere al Consiglio di Stato sui decreti istitutivi dei profili professionali di:

·     Tecnico della prevenzione dell’ambiente e del lavoro

·     Assistente sanitario

·     Terapista occupazionale

·     Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva

·     Infermiere pediatrico

·     Tecnico dell’educazione e della riabilitazione  psichiatrica e psicosociale

Si riporta qui di seguito il testo integrale del regolamento del profilo professionale dell’educatore  uscito dalla trattativa con il Ministero della Sanità:

Ministero della Sanità

Regolamento concernente la individuazione della figura e relativo profilo professionale del tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale

IL MINISTERO DELLA SANITA’

VISTO l’art.6. comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.502, recante: “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art.1 della legge 23 ottobre 1992, n.421”, nel testo modificato dal decreto legislativo 7 dicembre 1993, n.517;

RITENUTO che, in ottemperanza alle precitate disposizioni, spetta al Ministro della Sanità di individuare con proprio decreto le figure professionali da formare ed i relativi profili, relativamente alle aree del personale sanitario, infermieristico e tecnico  della riabilitazione;

RITENUTO di individuare con singoli provvedimenti le figure professionali;

RITENUTO di individuare la figura del TECNICO DELL’EDUCAZIONE E DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA E PSICOSOCIALE;

RITENUTO di prevedere e disciplinare la formazione complementare;

VISTO il parere del Consiglio Superiore di Sanità, espresso nella seduta del 15 maggio 1996;

UDITO il parere del Consiglio di Stato espresso  nella adunanza generale del...............;

VISTA la nota, in data ...........con cui lo schema di regolamento è stato trasmesso, ai sensi dell’art.17 comma 3, della L. 23 agosto 1988, n.400, al Presidente del Consiglio dei Ministri;

ADOTTA IL SEGUENTE REGOLAMENTO

 ARTICOLO 1

1. E’ individuata la figura professionale del Tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale, con il seguente profilo: il tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’équipe multidisciplinare, interventi riabilitativi ed educativi sui  soggetti con disagio psicosociale e disabilità psichica.

2. Il tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale:

a) collabora alla valutazione del disagio psicosociale, della disabilità psichica e delle potenzialità del soggetto; analizza bisogni e istanze evolutive e rileva le risorse del contesto familiare e socio-ambientale;

b) collabora all’identificazione degli obiettivi formativo-terapeutici e di riabilitazione psicosociale e psichiatrica nonché alla formulazione dello specifico programma di intervento mirato al recupero e allo sviluppo del soggetto in trattamento;

c) attua interventi volti all’abilitazione/riabilitazione dei soggetti alla cura di sé e alle relazioni interpersonali di varia complessità nonché, ove possibile, ad una attività lavorativa;

d)opera nel contesto della prevenzione primaria sul territorio, al fine di promuovere lo sviluppo delle relazioni di rete, per favorire l’accoglienza e la gestione delle situazioni a rischio e delle patologie manifeste;

e)opera sulle famiglie e sul contesto sociale dei soggetti, allo scopo di favorirne il reinserimento nella comunità;

f)collabora alla valutazione degli esiti del programma di abilitazione e riabilitazione nei singoli soggetti, in relazione agli obiettivi prefissati.

3. Il Tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale contribuisce alla formazione del personale di supporto e concorre direttamente all’aggiornamento relativo al proprio profilo professionale;

4. Il Tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale svolge la sua attività professionale in strutture e Servizi  sanitari pubblici o privati, in regime di dipendenza o libero professionale.

Articolo 2

1. Con decreto del Ministero della Sanità è disciplinata la formazione complementare post-base in relazione a specifiche esigenze del Servizio sanitario nazionale.

ARTICOLO 3

1. Il diploma universitario di tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale, conseguito ai sensi dell’art.6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.502, e successive modificazioni, abilita all’esercizio della professione.

ARTICOLO 4

1. Con decreto del Ministro della Sanità di concerto con il Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica sono individuati i diplomi e gli attestati, conseguiti in base al precedente ordinamento, che sono equipollenti al diploma universitario di cui all’art.3 ai fini dell’esercizio della relativa attività professionale e dell’accesso ai pubblici uffici.

Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà  inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica Italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Roma, lì 08 ottobre 1996

              IL MINISTRO

     

Il decreto istitutivo della figura del Tecnico dell’ educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale dovrebbe ricomprendere l’educatore professionale che opera nel servizio sanitario. I decreti istitutivi, dopo il parere del Consigli di Stato, prima della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale devono essere registrati anche dalla Corte dei Conti, ma di fatto questo percorso non dovrebbe modificare i contenuti del profilo. Si può quindi ritenere che la richiesta  degli educatori di un riconoscimento giuridico nel mondo della sanità, riconoscimento che era stato messo in discussione dalla sentenza del Consiglio di Stato del 1990 che annullava il Decreto  Degan,  sia giunta ad una tappa importante e per certi aspetti definitiva, e questo ha un giudizio positivo.

In merito poi alla valutazione del testo del profilo  è importante ricordare alcuni punti:

1. Che questo decreto viene  emanato in ottemperanza alle disposizioni dell’art.6 del decreto legge 502/92 e successive modificazioni sul “Riordino della disciplina in materia sanitaria...” che conferisce al Ministro della Sanità il compito di individuare le figure professionali da formare e i relativi profili relativamente alle aree del personale sanitario infermieristico, tecnico e della riabilitazione. Non è, cioè, un decreto che poteva, ne doveva riconoscere ed inquadrare la figura  dell’Educatore professionale “a tutto campo”, quella figura unica che gli educatori chiedono da tempo e che dovrà essere comunque oggetto di una legge specifica che vada  verso l’istituzione dell’albo professionale e del relativo Ordine.

2. L’individuazione dell’ordinamento  didattico per il “Tecnico dell’educazione...” avverrà in un secondo momento  e dovrà avere l’approvazione da parte del Consiglio  Universitario Nazionale. Con ogni probabilità sarà comunque un percorso  interno alla Facoltà di Medicina  e potrebbe  ricalcare in buona parte l’ordinamento didattico del già  esistente Diploma per Tecnici della riabilitazione psichiatrica e psicosociale, approvato dal CUN nel febbraio 1994. Si può ritenere però che esistano degli spazi di mediazione rispetto ai quali le parti in causa, e fra queste anche l’ANEP, dovranno  attivarsi nel futuro prossimo.

3. Il profilo approvato è il risultato di una  integrazione tra quello che era il profilo dell’Educatore professionale  che l’associazione degli educatori (l’ANEP) aveva presentato al Ministero all’inizio di questo anno e il profilo  presentato dai docenti di psichiatria della Facoltà di Medicina relativo al Tecnico della riabilitazione psichiatrica e psicosociale. Il rappresentante dell’ANEP che ha svolto la trattativa, pur non condividendo l’impostazione generale del decreto e la cultura che lo ha ispirato, ha ritenuto che non approvare questa mediazione avrebbe significato far approvare il profilo  del Tecnico della riabilitazione psichiatrica senza alcuna modifica.

4. Dovrà essere valutato con attenzione anche l’art.2 che disciplina la “formazione complementare post-base”, ossia una formazione specifica e mirata in relazione alle esigenze dei servizi. Su questo tipo di formazione, comune a tutti gli altri profili, la discussione è appena iniziata.

Non si può nascondere che questo decreto  rischia di fatto di  complicare ulteriormente le cose per quanto riguarda l’individuazione del percorso  formativo (che si sperava fosse unico) che avrebbe dovuto formare la figura  unica che  gli educatori auspicavano.

In futuro, infatti, potremmo avere, oltre alla formazione prevista con questo provvedimento, i percorsi formativi realizzati da Scienze dell’Educazione che si sta già trasformando in Scienze della Formazione (educatore professionale laureato, ma forse anche una serie di diplomi universitari per settori specifici) e con  ogni probabilità, una formazione regionale e provinciale per educatori che operano nel settore socio-educativo (privato-sociale e pubblico).

Si rende sempre più pressante quindi l’esigenza di una legge che vada a disciplinare le funzioni e la formazione di tutte quelle figure professionali che, in vari ambiti e con diverse formazioni, individuano la propria identità in un approccio professionale di tipo pedagogico-educativo.

Anche su questo versante purtroppo lo scenario non è tranquillizzante: ancora troppi appaiono gli interessi in campo per riuscire  ad unificare le tre  diverse proposte di legge in merito. Sostanzialmente tre sono i punti di divergenza:

·   il livello della formazione (laurea o diploma);

·   il doppio binario (università e/o istituti di formazione superiore);

·   le norme transitorie (sanatoria e/o riqualificazione).

Si ricorda però che, da parte della Società Italiana di Pedagogia, promotrice  di una delle tre proposte di legge, nel proporre l’albo dei pedagogisti (educatori professionali e formatori), ci sia stata una grande apertura in sede di prima applicazione della legge, ad accogliere nell’albo anche gli educatori diplomati.

 Nasce da parte degli educatori, dei soggetti di questo profilo quindi, una riflessione opportuna, circostanziale sulle modalità di  compilazione di  questo decreto fatto un pò “a tavolino”, considerando poco le proposte dei protagonisti stessi che si sono visti calare dall’alto una “veste” professionale decisamente stretta.

Leggendo la nuova definizione di “Tecnico dell’educazione...”, si rimane un po' perplessi riguardo al significato che si attribuisce a questa parola specifica e a quello che vuole rappresentare e suscitare in chi la legge e ancora di più in chi ne deve far uso. Insomma l’idea  che  il termine “Tecnico...” offre è  di riduzione di specificità dentro un canale ben definito, che è quello limitato ad un settore appunto tecnico. 

Il tecnico, è largamente inteso nella collettività come figura di esperto in tecnologia , cioè in meccanica, in un’attività prevalentemente manuale, con l’utilizzo di strumenti  specifici, questo per considerare l’immagine che offre. Questa immagine di “Tecnico” risulta un po'  fredda e  limitata,   ristretta ad una tecnicizzazione... ma di che cosa poi?  Si può relegare  la figura ad alcune competenze “umane” divise dalle altre (l’aspetto sanitario diviso da quello sociale) quando in realtà dovrebbero legarsi insieme? Specializzazione sull’aspetto umano in un  ambito, quello educativo, che per sua natura non può essere scomposto. E allora perchè separare rigidamente  il “sociale” (riabilitazione psicosociale) dal “sanitario” (riabilitazione pschiatrica)?  Perchè questa differenza, questa suddivisione: non riguarda forse la stessa dimensione educativa? La riabilitazione è cosa separata dall’educazione? Da questa definizione viene il dubbio che sia proprio così ; ecco la parcellizzazione  e la sconnessione delle competenze e quindi anche della integrità della figura stessa, così l’educatore potrebbe apparire davvero un tecnico asettico.

La specializzazione ad oltranza e la frammentazione delle competenze (ci si riferisce anche ai canali di formazione per gli educatori, che saranno divisi in “psicosociale” e in “sanitario”) ha infine orientato la definizione del nuovo profilo proprio su ciò che più non si voleva e contro la quale gli educatori hanno combattuto con tutte le forze: la divisione (al posto dell’unità).

L’ attenzione dovrebbe essere posta affinchè non si accentuino aspetti che caratterizzano tale professionalità prevalentemente nel settore sanitario, ma vengano invece valorizzate quelle competenze finalizzate alla promozione del  benessere individuale e collettivo, per permettere all’educatore, in analogia con altre professioni sociali, di essere impegnato anche nella tutela e nello sviluppo dei diritti della persona.

La frammentazione delle competenze e una specializzazione più definita , però portano  ad una inevitabile scissione e sconnessione della risposta ai bisogni, che risulterà avere ovviamente le stesse caratteristiche della proposta: questo per la difficoltà ad operare verso il bisogno della persona nella sua interezza, che non può essere per ovvie ragioni suddiviso, sezionato, nell’ambito educativo in “bisogno sanitario” e in “bisogno sociale”.

 La politica sociale compiuta fino a qui si è in parte contraddetta , perchè persegue l’aspetto della prevenzione che ha affidato al “sociale”  rispetto a quello della cura che ha affidato al “sanitario”, ma interviene poi per problemi economici, prevalentemente nell’emergenza della cura, questo  spiega in parte l’incoerenza. Pensare di  dividere le competenze  sociali da  quelle sanitarie per l’educatore è come dire che un’altra figura sociale,  ad esempio  lo psicologo, debba avere una formazione sanitaria se opera con i disabili psichici, i  tossicodipendenti, ecc., e una sociale se opera con gli anziani con i minori, con l’infanzia; certo che la sua esperienza si  rafforzerà  a seconda del settore in cui è più impegnato , ma a nessuno verrebbe mai in mente di  affermare che gli ambiti d’intervento in cui opera lo psicologo debbano essere suddivisi, e che possa operare   in  un settore più che in un altro, poichè la  sua formazione  e il suo ambito d’azione riguarda la prevenzione e la salute dell’individuo in tutti i suoi aspetti.

Infatti questa scissione tra sanitario e sociale è piuttosto conflittuale perché l’aspetto sanitario si pone come quello curativo di riparazione in un’ottica politica che invece guarda alla prevenzione. Ancora il settore dei malati psichici, dei tossicodipendenti rientra in discorso sanitario e non in uno socio-sanitario, il sanitario ancora non comprende di fatto il sociale e questo crea confusione anche nella gestione stessa. Così anche l’educatore è definito nel decreto quale operatore sanitario, così pure il primo orientamento formativo è compiuto dalla Facoltà di Medicina. Non è una sterile battaglia fra termini , ma tra contenuti purtroppo non ancora  chiari.

Tornando così aIl’inizio del discorso, il  termine  “Tecnico...” pare davvero inadeguato e lontano da quelli che sono i veri contenuti e le  ampie competenze che questa professione vuole rappresentare; invece che esteso ad una cultura umanistica che comprenda ben tutto l’essere umano: l’osservazione, la prevenzione, la salute, la condivisione, la presenza, la riflessione, l’affettività, sembra che la figura del tecnico dell’educazione, sia limitata alle tecniche del settore specifico e agli strumenti di quel solo settore.

 Forse questa è una naturale conseguenza della nostra evoluzione economica che vuole  dividere e suddividere ogni cosa in materia tecnica per una migliore economia dei consumi e delle risorse: ognuno ormai è specializzato in un  determinato campo d’azione,  è espertissimo e competente nel suo “pezzettino” con una discontinuità per tutto il resto  chiaramente. E’ un’ottica di analisi che lascia fuori spesso la sintesi, che rappresenta il potere di “legare” ogni cosa fra sé, l’unità che ricollega tutto.

Considerando l’orientamento attuale della nostra  società, non ci si stupisce di questa frammentazione che ha coinvolto anche il Governo stesso che ha ridefinito i suoi Ministri come “Tecnici”; anche la stessa USL è diventata in questa ottica di produzione, di efficienza tecnica  Azienda USL,  gestita da un “tecnico”  esperto in amministrazione; dove si prediligono spesso le competenze economiche alle altre, in un “villaggio globale”  dove possono necessitare  fino a tre tipi di tecnici diversi per la riparazione di un unico elettrodomestico. 

La cultura dominante ha contaminato anche il settore socio-sanitario travolgendo tutto come un’onda senza valutare correttamente cosa fosse realmente utile fare: forse dare più voce in capitolo a chi vi opera nell’interno “on the road”, potrebbe servire.

Speriamo che questa differenziazione si riduca sempre più e si faccia chiarezza e coerenza ottimizzando  le risorse per affrontare e dare una risposta adeguata ai due termini della questione: il  Bisogno dell’uomo e le scarse risorse economiche dello Stato.

Con questo  non si vuole screditare il nuovo profilo, ma si  vuole  far notare una contraddizione di campo su cui vale la pena di riflettere almeno un po’.

Questo decreto rappresenta in ogni caso una grossa conquista verso il lungo viaggio di autodefinizione, di riconoscimento, e di crescita  che spetta  a questa nuova professionalità (e il proverbio dice che il viaggio più lungo inizia muovendo il primo passo).

“Il perfetto ascolto è quello  di chi ascolta se stesso più che gli altri. La vista perfetta è quella di chi vede più se stesso che gli altri. Perchè non si può capire l’altro se non si capisce se stessi e non si può vedere la realtà dell’altro se prima non si è scandagliata la propria. Chi sa davvero ascoltare ti sente anche quando non dici nulla” Anthony De Mello

5. La professionalità dell’educatore tra motivazioni e aspettative

 Fino ad ora ci si è interrogati sulle motivazioni e sulle aspettative legate  alla categoria stessa degli educatori, dividendole teoricamente in due parti: quelle “interne” al proprio gruppo, come la ricerca di una identità comune, la condivisione di desideri, l’appartenenza alla categoria e gli sforzi legati ad essa, e quelle “esterne” al gruppo, come la ricerca del riconoscimento sociale, la richiesta di formazione, l’intervento all’interno delle strutture pubbliche, ecc.

Ci si è occupati quindi delle motivazioni di una massa  numericamente consistente di individui che interagiscono tra loro, che per quanto intrinsecamente  affini, sono diverse da quelle legate alla singola persona fuori dal gruppo. Queste ultime motivazioni  risultano appartenere alla storia personale, al vissuto storico emotivo, cognitivo e motorio della persona stessa, che per certi aspetti è quasi insondabile e molto spesso inconsapevole, inconscio. Patrimonio unico e originale come le impronte digitali, le motivazioni e le aspettative verso il proprio lavoro, risultano il terreno più fertile d’indagine per seminare ipotesi e capire  chi è la persona  che svolge questa attività e in quale direzione vada il suo “Essere” nel mondo.

Malgrado l’impossibilità  concreta a verificare la connessione tra questa professione e la  peculiarità dei vissuti personali unici ed irripetibili, si può pensare di fare delle ipotesi comuni circa le energie che muovono gli educatori  a  svolgere e a vivere come particolare ruolo, questa professione.

E’ interessante poi  non dimenticare che tale attività, fino a pochi decenni fa, era legata allo spirito di carità di religiosi e del mondo cattolico in generale, quindi a dei valori  morali e spirituali dell’uomo. Se  col tempo la società ha trovato spazio per riconoscere la necessità di questa figura che è divenuta anche laica - anzi, soprattutto laica -, ciò potrebbe significare  che si sono modificati anche i valori morali e spirituali dell’uomo comune di oggi, o forse ancora che sono cresciuti e sentiti da più persone che se ne fanno carico. Nascono alcune domande in proposito: l’educatore potrebbe essere una di queste  persone oppure no? Quale eredità storica e mandato sociale hanno assunto gli educatori?  Quali avi storici hanno nel loro “album di famiglia”? E soprattutto quali nuove “istantanee” vogliono scattare?

Chiaramente è impossibile pensare di dare una risposta scientifica a tali quesiti, ne  questo vuole essere l’intento di tale testo, che si propone invece di aprire semplicemente delle riflessioni riguardo all’argomento con la consapevolezza di lasciare domande aperte. Fare delle riflessioni in proposito significa poter avvalersi dell’esperienza pratica e della teoria, delle conoscenze acquisite e dei vissuti per arrivare ad una sempre maggiore consapevolezza di , per essere più presenti (proprio come si cita più avanti) e aperti alla lettura delle interazioni.  Si possono così semmai connettere le informazioni, collegare le assonanze, le sintonie, le energie e le sinergie, cercare insomma di connettere la molteplicità che ci appartiene come esseri umani, poter valutare quasi contemporaneamente sia l’analisi che la sintesi del nostro essere.

Forse non basterebbe neanche una delle mega ricerche di Alberoni per riuscire a tracciare linee un pò più definite; l’obiettivo non è comunque la definizione di una teoria , ma ripeto, la possibilità di  una crescita personale e professionale.

Motivazione, obiettivi ed emozione...

Non è quindi irragionevole, alla luce di ciò, sostenere che una domanda fondamentale sia :perchè gli educatori fanno questo lavoro? Sembra chiaro che buona parte del comportamento umano è guidata da scopi, vale a dire che è diretta a raggiungere uno scopo o un risultato. Sicchè ci si comporta in una determinata maniera perchè si vuole raggiungere un qualche risultato.

Le ragioni, o gli scopi, che appaiono dirigere il nostro comportamento, sono i nostri motivi, e i risultati che il nostro comportamento sembra diretto a raggiungere sono i nostri obiettivi. Esistono poi motivi inconsapevoli. La motivazione e l’emozione poi si intrecciano molto strettamente. Ross Buck (psicologo statunitense), ha proposto che le emozioni siano considerate come indicazioni o esplicitazioni del potenziale motivazionale. Il termine potenziale motivazionale si riferisce alla nostra capacità di intraprendere una varietà di corsi d’azione.

 In questo momento state leggendo questa pagina, ma siete capaci di fare una grande varietà di altre cose. Buck suggerisce  che questo potenziale di comportamento può essere attualizzato da “sfide” lanciate dall’ambiente circostante. Così in una situazione di pericolo (per esempio del fumo che invade la vostra stanza), l’aumento della disponibilità a fuggire o combattere il fuoco sarebbe rappresentato dall’emozione della paura.

Secondo la teoria di Buck, le emozioni agiscono come l’indicatore del livello della benzina della nostra automobile. Al pari dell’indicatore che vi dice quanta benzina è rimasta, influenzando con ciò il vostro comportamento, gli “indicatori” fisiologici, espressivi e cognitivi delle emozioni vi informano (e informano gli altri) del vostro potenziale  motivazionale.

Motivazione e obiettivi nella professione...

Pare opportuno in questo senso condividere il significato del termine professione, sia per quanto attiene al suo peso letterale, sia per quanto attiene alla letteratura psico-sociale.

«Professione», la cui origine etimologica è in pro-fiteor (pro = davanti e fateri = mi confesso, mi riconosco), indica ciò di cui la persona dà pubblicamente dimostrazione di credenza, rappresenta l’attività manuale o intellettuale da cui si ricava  un certo guadagno.

Già nel suo significato etimologico il termine contiene sia un aspetto legato alla persona e al suo modo di pensarsi, sia un aspetto legato a ciò che pubblicamente appare di ciò che la persona fa.

In merito poi alla professione di «educare» c’è da riconoscere che essa  richiede una continua attività di scomposizione e ricomposizione di significati sociali e personali, di riconnessione di elementi  interni ed esterni, di collegamenti e di separazioni che richiamano “l’apprendere dall’esperienza”, nella sua duplice espressione di fascino e di fatica, e la formazione.  Intorno a questa professionalità si riconosce poi la figura dell’educatore stesso come il primo strumento educativo che collega inscindibilmente, per il suo operato, ciò che pensa di sè in ciò che rappresenta e fa  pubblicamente. Essere con la propria persona il primo strumento di lavoro, significa offrire la possibilità di rappresentare ed essere risorsa per la crescita dell’altro; rinvia alla gestione del proprio esserci e del proprio essere limitato.

L’esperienza del limite che si è per sè e per l’altro, assumendo una funzione di autorità educativa, così come il lavorare tenendo conto dei limiti esistenti, costituisce una dimensione imprescindibile su cui si regge una adeguata gestione della propria professionalità.

L’interazione educativa richiama infatti una situazione problematica in cui non è concessa all’educatore una neutralità asettica o la tranquillità di chi possiede visioni bonificanti e apodittiche (dimostrazioni logiche della verità): gli è richiesta una costante capacità di interrogarsi su ciò che fa, sui suoi sentimenti ed intenzioni, sulle sue modalità d’azione.

 In generale, per mantenere la relazione con l’Altro dentro confini di ‘normalità’, è importante accostarcisi con spontaneità e fiducia, senza ammantarsi di falsi ideali e aspettative incongrue (l’altro non è la nostra missione in terra, nè siamo per lui l’angelo salvatore, anche se in determinate situazioni è facile poterlo credere).

 L’educatore deve ri-orientare continuamente i propri riferimenti concettuali ed i quadri di sapere acquisiti, i modelli di pensiero e gli approcci conoscitivi sedimentati, per meglio ‘adattarsi’ e comprendere i contesti di realtà che incontra e che sfuggono a predeterminazioni e letture rigide e universali. Di volta in volta è costretto a chiedersi il significato di ciò che accade, a interpretare le dinamiche presenti, ad orientare la sua azione in termini di funzionalità alle specifiche esigenze.

Si tratta di un atteggiamento difficile e faticoso, oltre che emotivamente costoso, definito dai requisiti della capacità di pensare e della identificazione parziale con gli oggetti del proprio lavoro, in grado di sostenere, cioè, movimenti di avvicinamento e messa a distanza, di coinvolgimento e sospensione dell’azione, tali da consentire l’adeguata regolazione tra il ‘non essere troppo dentro’ e il ‘non essere troppo fuori’.

La consapevolezza del Sé...

Quindi al fine di fornire una dimensione complessa al cui interno leggere e collocare la relazione in quanto possibilità educativa significativa, si vuole cercare di  evidenziare la validità di un collegamento fra il processo di costruzione del Sé, come processo che vede nel rapporto con l’Altro la sua attuazione e che conosce in attività di scambio, di condivisione, di negoziazione di esperienze affettive, emotive e cognitive significative, la propria ragion d’essere e il cercare di vivere in modo costruttivo  ed educativo il proprio proporsi come educatore ad un utente che in noi deve trovare la sua occasione di individuazione e di esperienza di Sé. E’ richiesta quindi una continua rinegoziazione e ridefinizione del proprio Sé in quanto persona e in quanto educatore. Meta di questo itinerario è allora una sempre  maggiore consapevolezza di Sé, come certezza di stabilità, di scoperta di un baricentro interno, che consenta “[...] una continuità personale nel corso delle trasformazioni del tempo, dello spazio e dei ruoli sociali”. [2]

Con questa ottica  si vuole porre attenzione  alle dinamiche che si creano tra educatore e utente, “ [...] dove nell’accettazione di quanto sia insignificante la nostra vita senza quei ‘significativi altri’, [...] significativi nella misura in cui entrare in intimità intersoggettiva con loro consente di portare alla luce aspetti del Sé altrimenti destinati a restare nel privato, ignoti  a noi stessi”. [3]

Si vive un’esperienza di contenimento nei confronti dell’utente che rimette in gioco quotidianamente l’immagine e l’organizzazione del proprio Sé.

Prendersi cura di sé per prendersi cura degli altri...

L’ambito è quello del “prendersi cura” nel senso di assumersi le responsabilità che emergono dall’incontro con l’altro, dal riconoscimento reciproco, dall’accogliere l’altro in sé, garantendogli e garantendosi un’esperienza di Sé  strutturante ed evolutiva. Come sottolineano altri  esperti del settore, è un compito relazionale difficile e faticoso che costringe ad un confronto continuo con la propria realtà interna, con la propria capacità di farsi carico della sofferenza  propria ed altrui. In questo gioco  di incontro tra un Sé con un altro Sé, nasce uno spazio di sperimentazione, di un’area transizionale, che consente di stabilire relazioni significative,  dove nulla è mai dominato, mai posseduto seppur offra dei legami di continuità con  la possibilità di separarsi e distinguersi e far provare all’utente la possiblità di “continuare ad esistere” anche nell’assenza dell’altro.

Aspettative positive...

Quello che conta è di riuscire a mantenere sempre viva una aspettativa positiva di cambiamento, creando le condizioni perchè ciò possa avvenire. In assenza di aspettative positive, l’agire quotidiano tende progressivamente a perdere di significato e a scadere nella routine dell’assistenzialismo fine a se stesso, che finisce con il sancire dell’altro solo una dimensione di irrecuperabilità e che esaurisce rapidamente tutte le energie, mettendo fuori gioco l’operatore.

Concludendo, in base a quanto esposto finora, si può desumere che due sono i filoni che si intrecciano nel determinare “l’essere” (dell’) educatore:

·   la maturazione personale

·   la formazione professionale

Infatti la dove si parla di capacità di tenere sotto controllo i sentimenti ostili, trovare un equilibrio, mantenere le giuste distanze, creare rapporti basati sull’empatia e sull’attenzione partecipe, porsi aspettative positive di cambiamento ecc., si entra in campo della maturazione personale sia emotiva che psichica.

M.Canao e G. Moretti affermano che:

 “ L’Altro richiede infatti la capacità, da parte di chi se ne occupa, di ricomporre costantemente in una unità significativa gli eventi psichici relazionali quotidiani. Si tratta di un impegno cui è difficilissimo far fronte se non si dispone di un solido e stabile sentimento di identità e della libertà psicologica che può derivare soltanto dalla risoluzione dei propri bisogni infantili di dipendenza.

 In assenza di risultati quantificabili, di strategie tecniche efficaci, di riferimenti precisi per la validazione del proprio lavoro, è solo sul terreno dell’equilibrio personale che l’operatore può giocare la difficile partita dell’attività quotidiana.

Il nucleo dell’intervento consiste infatti in primo luogo, nel saper discernere i propri bisogni da quelli dell’Altro e nel saper individuare, all’interno dei propri messaggi, la grande quantità di contenuti impliciti che, in definitiva, possono costituire l’essenza di quanto l’Altro percepisce, oltreché la prima chiave di lettura della relazione”.

“Il compito di essere più felici si può svolgere. Studia” S. Ceccato

6. Motivazione e personalità

Riguardo alla maturazione e all’equilibrio  personale citati nel paragrafo precedente, come fondamentali per la serenità propria e per il buon esercizio della professione di educatore, è interessante  riflettere e collegare quelle che sono considerate da ricerche in campo, le caratteristiche proprie comportamentali, emotive, cognitive e affettive delle persone realizzate.

A questo sono state orientate le ricerche di Abraham Maslow, uno psicologo americano appartenente alla corrente della Psicologia Umanistica.

Maslow si è occupato in particolare di psicologia della salute, che al contrario della psicologia della malattia, si occupa di prevenzione primaria (si propone di mantenere lo stato di salute prima che insorga il disagio) - che per inciso  sta alla base della nuova politica sociale -. Maslow nel 1971 studia individui sani e realizzati per capire come non entrare nella malattia e parte per fare questo da alcuni presupposti teorici.

Questi i presupposti:

1. la natura umana è buona;

2. i bisogni dell’essere umano sono buoni;

3. i sentimenti primari sono buoni;

4. le capacità dell’uomo sono spontaneamente volte al bene;

5. il male è una pausa/sospensione della bontà e della grandezza umana ed è la reazione alla frustrazione dei bisogni della persona (il male non è innato).

Per Maslow l’educazione  è un processo  che deve facilitare lo sviluppo dell’individuo: l’approccio al bambino ad esempio deve essere un approccio positivo poichè la sua natura è buona. Questa natura buona va facilitata attraverso attività scolastiche che si svolgono in un clima di fiducia e di libertà. L’insegnante che crede nella bontà dei bambini saprà aiutarli nella ricerca ed espressione delle loro capacità. In base  a queste considerazioni Maslow studia numerosi soggetti sani ed autorealizzati, e ne  distingue due  categorie:

·     soggetti giovani

·     soggetti nella piena maturità

Il grado di realizzazione che riscontra è di molto maggiore nei soggetti maturi, (contrariamente a quello che si potrebbe pensare ad una prima ipotesi), e in base a questo egli formula questa ipotesi: “non ci sono stadi o tappe per la maturazione. Nei giovani possiamo parlare di “buona” crescita, ma il processo di maturazione, realizzazione, evoluzione non termina con la fine dell’adolescenza (come sostengono alcuni)”. In realtà è un processo che si svolge lungo tutto l’arco dell’esistenza. Secondo Maslow una persona  non è matura  ad una particolare età: egli considera come segni della evoluzione/ realizzazione di un individuo, il suo amore per la vita, per gli altri e per il mondo.

In Motivazione e personalità [4] nel 1973 a seguito degli studi compiuti, Maslow elenca alcune caratteristiche che ha costantemente  riscontrato nelle persone “sane” e “realizzate”.

Queste caratteristiche sono:

1.  una percezione realistica delle persone e dell’ambiente;

2.  un’accettazione di sé, degli altri, della natura (vita e morte);

3.  una spontaneità, semplicità e naturalezza;

4.  una capacità di individuare e affrontare i problemi,

5.  un godimento della compagnia degli altri e della solitudine;

6.  un’autonomia e un’indipendenza;

7.  una capacità di cogliere aspetti nuovi della realtà;

8.  un carattere democratico ed un equilibrio morale (non moralismo);

9.  umorismo, creatività, originalità,

10. una capacità di vivere intensamente (nel “qui ed ora”) ogni esperienza

(dimensione spirituale vasta che fa essere sereni nelle difficoltà quotidiane).

Maslow individua però alcune condizioni necessarie per lo sviluppo sano della persona, che deve obbligatoriamente aver ricevuto risposta ai bisogni fondamentali, in una sorta di scala graduale dove gli ultimi bisogni emergono  solo se i primi sono stati soddisfatti. Questi i bisogni fondamentali:

1. bisogni fisiologici;

2. bisogno di sicurezza (difesa dal pericolo e protezione, sicurezza affettiva da parte della figura primaria);

3. bisogno di appartenenza (difesa, sostegno, affetto dalla famiglia e dai gruppi primari);

4. bisogno di stima (autotomia e stima);

5. bisogno di autorealizzazione (delle proprie potenzialità/essere ciò che si desidera essere);

6. bisogni cognitivi (conoscere);

7. bisogni estetici (bellezza, equilibrio, saggezza).

“Se non abbiamo cura di noi stessi, non possiamo avere cura degli altri” W.Gaylin

7. Conoscere le proprie motivazioni professionali

Chi sceglie una professione al servizio delle persone, lo fa anche per servire, aiutare gli altri, per “fare del bene” a se e agli altri. Alla domanda sul perchè abbiamo scelto di lavorare al servizio delle persone dovremo quindi rispondere: “per aiutare gli altri e me”. Con questo, possiamo dire di aver individuato le motivazioni di fondo della nostra scelta? No, non esattamente. E’ importante essere più precisi per quanto riguarda le motivazioni che ci hanno spinti a impegnarci in un lavoro di questo tipo. E’ importante capire cos’è che ci fa andare al lavoro ogni mattina e quali gratificazioni ne ricaviamo. Se il lavoro che facciamo non corrisponde alle nostre esigenze, sarà difficile che riusciamo veramente a venire incontro ai bisogni delle altre persone. Abbiamo tutti bisogno di un’occupazione che ci faccia sentire bene con noi stessi, un lavoro che ci sembri importante. E ciò è necessario soprattutto per chi opera nell’ambito dei servizi alle persone, in quanto riceviamo spesso dai nostri colleghi e - più in generale - dalla società messaggi contraddittori sul valore di quello che stiamo facendo.

Se non  siamo convinti del valore di quello che facciamo, nasce il problema che si potrebbe chiamare del “soltanto...”.

E’ un problema che emerge con chiarezza quando, durante una cena o ad una festa ad esempio, alla domanda: “E tu cosa fai?”, rispondiamo : “Sono soltanto un educatore professionale”, e con ciò si dice che  quello che facciamo, non lo riteniamo importante. Se si vuole lavorare nel campo dei servizi  alle persone, dobbiamo sapere cosa rende questo lavoro importante per noi, importante per la gente a cui ci rivolgiamo e importante per la società nel suo insieme.

Ritornando all’esempio della cena, dove ad una precisa domanda ci siamo presentati come un operatore sociale. Se il nostro interlocutore è una persona che fa un altro tipo di lavoro, dovremo aspettarci battute del tipo: “Deve essere un lavoro molto impegnativo”, oppure:” Piacerebbe molto anche a me ma si guadagna così poco”, oppure: ”Certo che devi avere una pazienza enorme”, o, più spesso: “Oh, deve essere così gratificante!”. Il significato reale di questi commenti è: “Non capisco cosa ci trovi in queste cose, ma immagino sia bene che qualcuno se ne occupi”. Non è escluso neppure che le persone a noi più vicine reagiscano seccamente: ”Perchè non puoi lavorare con la gente normale?, oppure: “Come pensi di mantenerti con uno stipendio così basso?”.

L’idea che emerge da queste reazioni è che di solito chi si impegna in una professione sociale riceve minori gratificazioni tangibili (soprattutto di tipo economico)  rispetto a chi lavora in un settore produttivo. Le persone che riescono a trovare soddisfazione in un lavoro di questo genere sono invece in grado di riconoscere le gratificazioni (non di tipo economico) proprie del loro lavoro.

Individuare le motivazioni: il punto di vista degli operatori

Si è intervistato un certo numero di operatori sulle ragioni della loro scelta di lavorare nel campo dei servizi alle persone. Sono stati interpellati anche alcuni studenti avviati a una professione di questo tipo.

Ecco un campione di risposte:

Un operatore:

“Lavoro con la gente in difficoltà perchè  è divertente!”

Alcuni operatori di un centro di accoglienza:

“E’ ogni giorno diverso”

“Riesco a intervenire efficacemente sulla vita degli altri”

“Imparo molto , e intellettualmente stimolante”

Tre  ex insegnanti, ora responsabili di una struttura terapeutica residenziale:

“E’ proprio per gli utenti difficili e per i loro problemi impossibili che vale la pena di lavorare”

“Mi piace la gente con cui lavoro”

“E’ un lavoro che cambia in continuazione”

Un programmatore di computer che ha lavorato per 6 anni come volontario con adulti disabili:

“Mi dà equilibrio e mi aiuta a capire il vero valore delle cose”

Alcuni studenti di un corso per educatori:

“E’ un’occasione per restituire alla comunità l’aiuto che ho ricevuto”

“Un modo per sentirmi in contatto con il genere umano”

“Essere capace di aiutare gli altri è una cosa che mi dà forza”

“Per che cosa viviamo se non per renderci l’un l’altro la vita meno difficile?” G Eliot

8. Conoscere le proprie motivazioni personali

  Secondo gli esperti del settore é importante che ognuno di noi sappia per quali motivi sceglie una professione di servizio alle persone. Perchè se non siamo sicuri del motivo per cui facciamo quello che facciamo, sarà difficile riuscire a sostenere i nostri dubbi e i messaggi contraddittori dell’opinione pubblica sul valore del nostro lavoro.

Si vuole così riassumere  sinteticamente le conclusioni a cui i ricercatori sono arrivati:

1. E’ giusto avere, oltre alle motivazioni altruistiche, anche delle motivazioni di tipo “egoistico”, come ad esempio pensare di poter avere un buon guadagno dal proprio lavoro.

2. E’ giusto “divertirsi” durante il proprio lavoro. E’ possibile fare un lavoro estremamente serio e trovare piacere nel farlo. Non c’è nulla di male nel lavorare divertendosi.

3. E’ giusto anche avere delle motivazioni disinteressate, come il desiderio di poter migliorare un po' la vita delle persone.

4. Qualunque cosa facciamo, dobbiamo farla perchè noi lo volgiamo, e non perchè qualcun altro se lo aspetta da noi. Chi ama veramente il proprio lavoro e lo trova gratificante, lavora assai meglio di chi non ama quello che fa.

“Cambia te stesso insieme al mondo” Weldon

9. Conoscere i propri limiti

Perchè per te è così importante fare una cosa che molti altri troverebbero così poco piacevole? E’ anche qui importante secondo la ricerca in campo, conoscere i propri limiti perchè nessuno è perfetto e nessuno può avere una risposta a tutto. Se è vero che in futuro potremo avere risposte che oggi non abbiamo, è anche vero che avremo altre nuove domande a cui dovremo cercare di dare risposta.

In prospettiva, riusciremo a essere molto più efficaci se accettiamo i seguenti principi:

1. Non possiamo essere in grado di rispondere a tutto e probabilmente non abbiamo nemmeno una adeguata conoscenza di tutti i problemi importanti.

2. E’ quindi evidente che commetteremo degli errori.

3. Commettere errori è legittimo.

4. Non è accettabile ripetere continuamente il medesimo errore.

5. E’ giusto e auspicabile chiedere aiuto quando non sappiamo cosa fare.

Tra i limiti personali c’è da dire che ognuno di noi presenta una diversa e originale combinazione di punti di forza e di lati deboli, ma vi sono problemi  comuni  che si ritrovano spesso in chi lavora nei servizi alle persone.

Ad esempio:

· non possiamo voler bene a tutte le persone che dovremmo aiutare (a volte non ci sono nemmeno simpatiche);

· non potremo riuscire a salvare tutti (non sarà possibile raggiungere in tutti i nostri interventi il massimo risultato);

· il tempo non è mai sufficiente (spesso non riusciamo a gestire il nostro tempo);

· vi saranno sempre delle situazioni legate al lavoro e alle persone con cui lavoriamo che causeranno forti reazioni emotive (qualcosa che “ci tocca sul vivo” e le nostre reazioni possono non essere adeguate: ognuno ha i suoi punti deboli);

· Non è detto che si debba lavorare nello stesso posto per tutta la vita (può essere che lo sviluppo di nuovi interessi , o la scoperta che il lavoro non è più gratificante ci portino a cambiare mestiere, non c’è niente di male, non sempre si può trovare gratificazione nella stessa cosa per tutta la vita).

Poi sussistono anche limiti esterni a noi, cioè non dipendenti da ciascuno di noi, come:

· il limite della struttura, delle organizzazioni che fornisce il  servizio;

·   il limite del denaro insufficiente;

· alcuni programmi sono in contrasto con i valori fondamentali della solidarietà sociale;

· nessuno ne sa abbastanza (vi sono problemi che nessuno sa come risolvere completamente. Non si può essere competenti su tutto, essere avvocati, amministratori, politici o ricercatori, si può però ricercare le persone che hanno il potere  e le conoscenze per farlo e  superare i limiti strutturali del “sistema”).

Allora si può sostenere che in qualunque tipo di lavoro ci sono vantaggi e svantaggi, momenti di gratificazione e momenti di poco entusiamo; e poi ancora che ognuno di noi è unico nel riconoscere ciò che è piacevole e ciò che non lo è, cosa riteniamo gratificante e cosa invece riteniamo sia  un sacrificio.

Per i ricercatori sacrificio e gratificazione devono equilibrarsi perchè il risultato finale possa essere positivo. Sappiamo quando siamo contenti o no del nostro lavoro, ma il vero punto della questione sta nel riconoscere quei fattori specifici che fanno la differenza tra chi è professionalmente soddisfatto e chi invece vuole trovare una posizione diversa. Diversissime sono le ragioni,  che possono variare dalle competenze date sul lavoro poco stimolanti, dalla difficoltà a “lasciare fuori” il lavoro dalla nostra vita  o ancora interferenze fra le due cose. Ecco perchè è così importante trovare un equilibrio tra la vita professionale e la vita privata.

10. Stress e sindrome del burn-out nella professione di educatore

L’educatore: professione ricca di fascino e di irrisolte ambiguità. Se dopo averne analizzato il ruolo, le funzioni, le aspettative,  si passa a valutare il “vissuto” degli educatori, non tutto risulta così lineare come può apparire dall’esterno: la fatica, la sofferenza, la “cottura” sono alte. Diventa importante  comprendere a fondo -come si è già detto- le condizioni di lavoro, per individuare i rischi connessi a questa professione  e i modi per sostenerli.

In questi anni di razionalizzazione produttiva il nuovo clima culturale ha favorito l’affermarsi di un concetto utile per definire una situazione presente in molti ambiti lavorativi: la burnout’s syndrome, in italiano: sindrome da corto circuito. Già il nome lascia intendere, anche se in termini ancora generali, che si tratta del mancato raggiungimento da parte di un’energia della sua meta (cioè di un lavoro corto), e dell’attività di autodistruzione che questa deviazione determina.

 Si può dire che la sindrome del burn-out è “una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi, vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risulatato delle condizioni in cui lavorano”. [5] E’ cioè la condizione in cui un operatore sociale assume atteggiamenti rigidi e distruttivi e non solo rifiuta il suo lavoro, ma anche la ragione e lo scopo stesso.

Egli viene quindi a perdere  quel “qualcosa” che gli permette di rispondere, nel modo migliore, più attento, più disponibile, alle richieste di coloro ai quali è diretta la sua  professione.

L’operatore con la sindrome del burn-out attuerà così una modificazione delle percezioni, degli atteggiamenti e delle mete, con un cambiamento cognitivo. Progressivamente tutte le aree e le situazioni in cui l’operatore poteva incontrare un disagio verranno considerate effettivamente poco importanti, e abbandonate al disinteresse.

Oltre a ciò, altri autori hanno individuato come componente secondaria di questa sindrome, un sentimento di esaurimento fisico, accompagnato da  labilità emozionale che si manifesta in “frequenti e tempestosi episodi di nervosismo”.

Anche se una situazione come questa può essere presente in ogni lavoro, è interessante notare come, riferita alle professioni del sociale, diventi fenomeno oltre che condizione soggettiva: non solo quindi possibile evento personale, ma vera e propria  malattia professionale. Il fenomeno del burn-out è infatti, un  processo in cui una singola possibile linea di evoluzione dà nome al tutto e come tale assume diverse caratteristiche mentre si sviluppa; è quindi necessario  studiarlo diacronicamente, dalla sua fase iniziale a quella finale, ma anche sincronicamente in quanto fenomeno costituito e influenzato da altri sottofenomeni.

Sinteticamente si può dire  che  il  processo del burn-out comincia con una fase di stress, con componenti soggettive ed oggettive che poi si  sviluppano e si definiscono. In base all’incidenza quantitativa delle suddette componenti, si delineano quattro possibili modi di sviluppo:

1.  il burn-out vero e proprio  (l’entrata in una fase di frustrazione);

2.   l’utilizzazione di una difesa attiva;

3.   l’assunzione di tecniche d’intervento;

4.  la fuga in un’altra situazione lavorativa, che si vede più consona all’immagine ideale che si ha del proprio lavoro.

Lo stress... 

Il burn-out inizia con lo stress  che è la condizione in cui  si trova un organismo quando, ostacolato in modo permanente o temporaneo, diretto o indiretto, nella soddisfazione dei propri bisogni e aspirazioni, risponde alla situazione con uno stato di tensione emotiva, di esaurimento fisico, stanchezza, irritabilità: lo stress si instaura in breve quando le richieste ambientali costituiscono un peso o eccedono le risorse dell’individuo.

Esistono poi condizioni interne o soggettive di stress e sono legate ai discorsi dei paragrafi precedenti, quelli sulla motivazione. Chi sceglie questo lavoro lo fa con una motivazione soggettiva particolare. Pur essendo varie  le motivazioni, si può individuare, secondo  gli esperti, in chi compie questa professione, una motivazione od “inclinazione professionale” alla  cura e alla conoscenza di se. Questa considerazione comporta una immagine ideale del proprio lavoro, come conferma una ricerca sugli educatori, da cui emerge che, per alcuni di loro vengono ritenuti elementi fondamentali per una visione positiva della professione la possibilità di instaurare relazioni significative con gli utenti, che vengono vissute come fonte di arricchimento reciproco e la conoscenza di sè attraverso il rapporto con l’utente.

 Questo fa si che l’educatore reale si crei un’immagine ideale, una motivazione ideale, alla quale il soggetto deve rassomigliare il più possibile, creando situazioni di confronto che possono causare sensi di colpa e una interrogazione continua sulla propria efficienza. Questa è la prima causa soggettiva di stress.

La seconda causa soggettiva riguarda la negazione dell’oggettività del problema dell’altro contrapposta al proprio: fantasie e aspettative irrealistiche la dedizioni a casi impossibili, un riconoscimento  sociale di questo  successo, l’entusiasmo e la dedizione.

Si ritiene che all’inizio della carriera le “motivazioni ideali”, a cui si accennato, e la loro frustrazione siano la causa quantitativamente più importante di stress. Tuttavia gli autori consultati sono unanimi nel riconoscere come, più che le condizioni interne in sè, sia il tipo delle condizioni oggettive di lavoro il motore di tutto il processo di burn-out. Possono essere delle condizioni di lavoro oggettive che non consentono un avvicinamento fra l’immagine ideale e l’individuo reale.

 E.Spaltro dice che la motivazione al lavoro ha bisogno, per potersi mantenere tale, di essere corredata da condizioni materiali e di rapporti favorevoli. Mentre L.Grasso sostiene che la disaffezione al lavoro che riscontra nelle situazioni più stressanti non è indice di scarsa motivazione ma, al contrario, di un alto livello di motivazione che viene però frustrato da vari tipi di ostacoli. Pare quindi che per la motivazione intrinseca ad un lavoro, sia le frustrazioni che i premi, funzionano da “strumenti di controllo” e che l’unico intervento, che sembra favorirla, è l’apprezzamento ed il sostegno (espresso a livello verbale). Il feedback verbale, fornito da un altro individuo, non differisce quindi dal feedback che il soggetto si fornisce da sè: infatti servono entrambi a confermarlo nella sua “posizione” ideale.

Questa può essere definita una “fase di stagnazione” del processo del burn-out, che presuppone un sistema di cognitions (la motivazione ideale) che entrano in conflitto con un altro sistema di idee: le condizioni di lavoro (che è un insieme pertinente e dissonante col primo), determinando un disagio psichico.

Il burn-out propriamente detto non sarebbe altro che il perdurare della situazione di “dissonanza” della “fase di stagnazione”, senza il ritorno nè a qualcosa d’altro; in altre parole è una “caduta di senso” che inibisce anzichè favorire ogni vera attività.

Segue alle fasi di stress e di stagnazione quella dell’apatia; qui il burn-out è ormai completo, l’operatore è “scoppiato”. Un operatore in questa fase del burn-out ha un tipico atteggiamento di laisser faire (lasciar correre) nei confronti degli utenti del suo lavoro.

La difesa attiva...

Come altra possibilità rispetto alla difesa burn-out esiste quella che chiameremo difesa attiva: che consiste nel tentativo di modificare la situazione reale di lavoro.

Modalità questa certamente più proficua che non il ripiegamento soggettivo e il disinteresse, ma che presenta ugualmente una serie di contro-indicazioni: prima fra le quali il fatto che determina lo spostare il problema  a livelli sempre più alti (e progressivamente immodificabili), dando luogo ad attese utopistiche e a speranze senza fondamento. E’ questa la tipica ipersoluzione di cui parla P.Watzlawick .

Questo tipo di azione è razionale se il singolo o il piccolo gruppo hanno nell’organizzazione uno spazio di manovra per le opportune modificazioni, ma rivela la sua infondatezza se si pensa che le organizzazioni sono stressanti proprio nel momento in cui  non esiste questo spazio di manovra.

Mentre il rischio della difesa burn-out è l’immobilismo, quello della difesa attiva è l’attivismo utopico, cioè il desiderio di fare qualcosa a tutti i costi senza valutare se possa essere alla fine utile.

Se anche la difesa attiva può essere votata al fallimento, ha però due vantaggi rispetto a quella burn-out: è meno regressiva, cioè mette in moto una serie di capacità, e se si perde il senso del proprio lavoro resta perlomeno il desiderio di modificare la realtà.

La fuga in un altro lavoro...

Se la difesa burn-out è una fuga nel personalismo soggettivo, questa terza soluzione è ugualmente una fuga, però nel senso proprio del termine.

Quando le condizioni di un lavoro hanno messo in discussione le le motivazioni ideali,  chi attua questa fuga non vuole riesaminare queste motivazioni, ma il lavoro stesso.

Non bisogna però confondere la fuga con un procedimento ragionato di cambiamento di lavoro. Si ha un cambiamento quando il lavoratore  si indirizza verso un altro lavoro in cui migliora il proprio status sociale o economico, o per cui nel passato ha studiato. Si ha fuga quando invece, dopo anni di lavoro stabile, ci si dedica a lavori precari o sottopagati o inusitati rispetto alla formazione professionale. Non va considerata fuga anche l’intraprendere un’attività stabile in un altro ambito di lavoro.

Questa fuga è quasi sempre individuale, e cela un certo senso di superiorità di chi va, verso chi invece resta nel vecchio  lavoro. Chi se ne va si sente migliore o più energico rispetto a quelli che restano “a far niente”.

Le scelte alternative per un operatore in fuga sono varie, però egli rimane sempre nell’ambito idealistico di cura di sè o degli altri. Infatti spesso operatori “fuggiti” ritornano o cercano di ritornare in ambienti di lavoro simili a quelli lasciati.

Una nuova tecnica di lavoro e di relazione...

Fino a questo momento, dalla fase di stagnazione del processo di burn-out  si è visto l’operatore uscire sconfitto o almeno, “in ritirata”.

C’è però una quarta possibilità: l’apprendimento di una tecnica migliore di relazione o di lavoro che permette di far fronte alla caduta dell’entusiasmo.

Se per uno staff l’unica possibilità per non estinguersi è una soluzione attiva e di cambiamento ambientale, per il singolo operatore la soluzione può passare attraverso un atto inizialmente cognitivo. Se l’operatore si rende conto, cognitivamente, che è lo sforzo personale o l’entusiasmo che gli permettono di incontrare il bisogno dell’altro può giungere anche ad un cambiamento comportamentale: ad una tecnica.

Solo quando un operatore può dire: ”Ciò che ho imparato finora o che posso inventare adesso, mi permetterà di ‘risolvere’ il caso”, fa una dichiarazione di superamento del burn-out e di professionalità e competenza.

Una dichiarazione che, certo, ne porta con sè anche altre, come: ”In questo caso non mi devo coinvolgere troppo perchè non ci sono molto possibilità di riuscita”, o “ Questo caso è irrisolvibile per uno, forse qualcun altro può fare di meglio” oppure: ”Questo caso ha possibilità di essere ‘risolto’ da me, mi impegno” o ancora: ”Per questo caso la mia professionalità è inutile”.

Nel momento in cui un operatore si chiede:

— Quali richieste mi sono state fatte?

— Quali risorse sono disponibili per venire incontro a tali richieste?

Egli inizia ad acquisire una tecnica di lavoro che gli consente di individuare i suoi limiti e le sue possibilità e può uscire in modo positivo dalla condizione burn-out.

In questo in senso, una tecnica non è un metodo che si imporre dall’esterno o imparare rapidamente, è bensì un complesso di sapere oggettivo e di risposte soggettive, diverso per ognuno che si fonda sull’esperienza e su adeguate strumentazioni  e che permette all’operatore sociale di raggiungere un sufficiente grado di equilibrio o di distanza emotiva, e di superare il bisogno di “riconoscimento” da parte degli altri.

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[1] tratto dall’omonimo articolo di Rossana Di Renzo e Maurizio Marzari del periodico “EP” dell’Anep, n°1 del marzo 1995.

[2] M.Ammaniti (a cura di), La nascita del Sé, Laterza, Bari,1989, pag.10

[3] S.Bordi, Psicoanalisi e nascita del Sé, in M.Ammaniti, op.cit., pag.145.

[4] A. Maslow, Motivazione e personalità,1973, citato nel testo di D.Francescato, Star bene insieme a scuola, Milano, edizioni Nis.

[5]  J.Edelwich - A. Brodsky, Burnout,Human sciences press, N.Y. 1980

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