Stress e sindrome del burn-out nella professione
di educatore
L'educatore: professione ricca di fascino e di irrisolte ambiguità.
Se dopo averne analizzato il ruolo, le funzioni, le aspettative,
si passa a valutare il "vissuto" degli educatori, non
tutto risulta così lineare come può apparire dall'esterno:
la fatica, la sofferenza, la "cottura" sono alte. Diventa
importante comprendere a fondo -come si è già detto-
le condizioni di lavoro, per individuare i rischi connessi a questa
professione e i modi per sostenerli.
In questi anni di razionalizzazione produttiva il nuovo clima culturale
ha favorito l'affermarsi di un concetto utile per definire una situazione
presente in molti ambiti lavorativi: la burnout's syndrome, in italiano:
sindrome da corto circuito. Già il nome lascia intendere,
anche se in termini ancora generali, che si tratta del mancato raggiungimento
da parte di un'energia della sua meta (cioè di un lavoro
corto), e dell'attività di autodistruzione che questa deviazione
determina.
Si può dire che la sindrome del burn-out è "una
progressiva perdita di idealismo, energia e scopi, vissuta da operatori
sociali, professionali e non, come risulatato delle condizioni in
cui lavorano". E' cioè la condizione in cui un operatore
sociale assume atteggiamenti rigidi e distruttivi e non solo rifiuta
il suo lavoro, ma anche la ragione e lo scopo stesso.
Egli viene quindi a perdere quel "qualcosa" che gli permette
di rispondere, nel modo migliore, più attento, più
disponibile, alle richieste di coloro ai quali è diretta
la sua professione.
L'operatore con la sindrome del burn-out attuerà così
una modificazione delle percezioni, degli atteggiamenti e delle
mete, con un cambiamento cognitivo. Progressivamente tutte le aree
e le situazioni in cui l'operatore poteva incontrare un disagio
verranno considerate effettivamente poco importanti, e abbandonate
al disinteresse.
Oltre a ciò, altri autori hanno individuato come componente
secondaria di questa sindrome, un sentimento di esaurimento fisico,
accompagnato da labilità emozionale che si manifesta in "frequenti
e tempestosi episodi di nervosismo".
Anche se una situazione come questa può essere presente in
ogni lavoro, è interessante notare come, riferita alle professioni
del sociale, diventi fenomeno oltre che condizione soggettiva: non
solo quindi possibile evento personale, ma vera e propria malattia
professionale. Il fenomeno del burn-out è infatti, un processo
in cui una singola possibile linea di evoluzione dà nome
al tutto e come tale assume diverse caratteristiche mentre si sviluppa;
è quindi necessario studiarlo diacronicamente, dalla sua
fase iniziale a quella finale, ma anche sincronicamente in quanto
fenomeno costituito e influenzato da altri sottofenomeni.
Sinteticamente si può dire che il processo del burn-out comincia
con una fase di stress, con componenti soggettive ed oggettive che
poi si sviluppano e si definiscono. In base all'incidenza quantitativa
delle suddette componenti, si delineano quattro possibili modi di
sviluppo:
1. il burn-out vero e proprio (l'entrata in una fase di frustrazione);
2. l'utilizzazione di una difesa attiva;
3. l'assunzione di tecniche d'intervento;
4. la fuga in un'altra situazione lavorativa, che si vede più
consona all'immagine ideale che si ha del proprio lavoro.
Lo stress...
Il burn-out inizia con lo stress che è la condizione in cui
si trova un organismo quando, ostacolato in modo permanente o temporaneo,
diretto o indiretto, nella soddisfazione dei propri bisogni e aspirazioni,
risponde alla situazione con uno stato di tensione emotiva, di esaurimento
fisico, stanchezza, irritabilità: lo stress si instaura in
breve quando le richieste ambientali costituiscono un peso o eccedono
le risorse dell'individuo.
Esistono poi condizioni interne o soggettive di stress e sono legate
ai discorsi dei paragrafi precedenti, quelli sulla motivazione.
Chi sceglie questo lavoro lo fa con una motivazione soggettiva particolare.
Pur essendo varie le motivazioni, si può individuare, secondo
gli esperti, in chi compie questa professione, una motivazione od
"inclinazione professionale" alla cura e alla conoscenza
di se. Questa considerazione comporta una immagine ideale del proprio
lavoro, come conferma una ricerca sugli educatori, da cui emerge
che, per alcuni di loro vengono ritenuti elementi fondamentali per
una visione positiva della professione la possibilità di
instaurare relazioni significative con gli utenti, che vengono vissute
come fonte di arricchimento reciproco e la conoscenza di sè
attraverso il rapporto con l'utente.
Questo fa si che l'educatore reale si crei un'immagine ideale, una
motivazione ideale, alla quale il soggetto deve rassomigliare il
più possibile, creando situazioni di confronto che possono
causare sensi di colpa e una interrogazione continua sulla propria
efficienza. Questa è la prima causa soggettiva di stress.
La seconda causa soggettiva riguarda la negazione dell'oggettività
del problema dell'altro contrapposta al proprio: fantasie e aspettative
irrealistiche la dedizioni a casi impossibili, un riconoscimento
sociale di questo successo, l'entusiasmo e la dedizione.
Si ritiene che all'inizio della carriera le "motivazioni ideali",
a cui si accennato, e la loro frustrazione siano la causa quantitativamente
più importante di stress. Tuttavia gli autori consultati
sono unanimi nel riconoscere come, più che le condizioni
interne in sè, sia il tipo delle condizioni oggettive di
lavoro il motore di tutto il processo di burn-out. Possono essere
delle condizioni di lavoro oggettive che non consentono un avvicinamento
fra l'immagine ideale e l'individuo reale.
E.Spaltro dice che la motivazione al lavoro ha bisogno, per potersi
mantenere tale, di essere corredata da condizioni materiali e di
rapporti favorevoli. Mentre L.Grasso sostiene che la disaffezione
al lavoro che riscontra nelle situazioni più stressanti non
è indice di scarsa motivazione ma, al contrario, di un alto
livello di motivazione che viene però frustrato da vari tipi
di ostacoli. Pare quindi che per la motivazione intrinseca ad un
lavoro, sia le frustrazioni che i premi, funzionano da "strumenti
di controllo" e che l'unico intervento, che sembra favorirla,
è l'apprezzamento ed il sostegno (espresso a livello verbale).
Il feedback verbale, fornito da un altro individuo, non differisce
quindi dal feedback che il soggetto si fornisce da sè: infatti
servono entrambi a confermarlo nella sua "posizione" ideale.
Questa può essere definita una "fase di stagnazione"
del processo del burn-out, che presuppone un sistema di cognitions
(la motivazione ideale) che entrano in conflitto con un altro sistema
di idee: le condizioni di lavoro (che è un insieme pertinente
e dissonante col primo), determinando un disagio psichico.
Il burn-out propriamente detto non sarebbe altro che il perdurare
della situazione di "dissonanza" della "fase di stagnazione",
senza il ritorno nè a qualcosa d'altro; in altre parole è
una "caduta di senso" che inibisce anzichè favorire
ogni vera attività.
Segue alle fasi di stress e di stagnazione quella dell'apatia; qui
il burn-out è ormai completo, l'operatore è "scoppiato".
Un operatore in questa fase del burn-out ha un tipico atteggiamento
di laisser faire (lasciar correre) nei confronti degli utenti del
suo lavoro.
La difesa attiva...
Come altra possibilità rispetto alla difesa burn-out esiste
quella che chiameremo difesa attiva: che consiste nel tentativo
di modificare la situazione reale di lavoro.
Modalità questa certamente più proficua che non il
ripiegamento soggettivo e il disinteresse, ma che presenta ugualmente
una serie di contro-indicazioni: prima fra le quali il fatto che
determina lo spostare il problema a livelli sempre più alti
(e progressivamente immodificabili), dando luogo ad attese utopistiche
e a speranze senza fondamento. E' questa la tipica ipersoluzione
di cui parla P.Watzlawick .
Questo tipo di azione è razionale se il singolo o il piccolo
gruppo hanno nell'organizzazione uno spazio di manovra per le opportune
modificazioni, ma rivela la sua infondatezza se si pensa che le
organizzazioni sono stressanti proprio nel momento in cui non esiste
questo spazio di manovra.
Mentre il rischio della difesa burn-out è l'immobilismo,
quello della difesa attiva è l'attivismo utopico, cioè
il desiderio di fare qualcosa a tutti i costi senza valutare se
possa essere alla fine utile.
Se anche la difesa attiva può essere votata al fallimento,
ha però due vantaggi rispetto a quella burn-out: è
meno regressiva, cioè mette in moto una serie di capacità,
e se si perde il senso del proprio lavoro resta perlomeno il desiderio
di modificare la realtà.
La fuga in un altro lavoro...
Se la difesa burn-out è una fuga nel personalismo soggettivo,
questa terza soluzione è ugualmente una fuga, però
nel senso proprio del termine.
Quando le condizioni di un lavoro hanno messo in discussione le
le motivazioni ideali, chi attua questa fuga non vuole riesaminare
queste motivazioni, ma il lavoro stesso.
Non bisogna però confondere la fuga con un procedimento ragionato
di cambiamento di lavoro. Si ha un cambiamento quando il lavoratore
si indirizza verso un altro lavoro in cui migliora il proprio status
sociale o economico, o per cui nel passato ha studiato. Si ha fuga
quando invece, dopo anni di lavoro stabile, ci si dedica a lavori
precari o sottopagati o inusitati rispetto alla formazione professionale.
Non va considerata fuga anche l'intraprendere un'attività
stabile in un altro ambito di lavoro.
Questa fuga è quasi sempre individuale, e cela un certo senso
di superiorità di chi va, verso chi invece resta nel vecchio
lavoro. Chi se ne va si sente migliore o più energico rispetto
a quelli che restano "a far niente".
Le scelte alternative per un operatore in fuga sono varie, però
egli rimane sempre nell'ambito idealistico di cura di sè
o degli altri. Infatti spesso operatori "fuggiti" ritornano
o cercano di ritornare in ambienti di lavoro simili a quelli lasciati.
Una nuova tecnica di lavoro e di relazione...
Fino a questo momento, dalla fase di stagnazione del processo di burn-out
si è visto l'operatore uscire sconfitto o almeno, "in
ritirata".
C'è però una quarta possibilità: l'apprendimento
di una tecnica migliore di relazione o di lavoro che permette di far
fronte alla caduta dell'entusiasmo.
Se per uno staff l'unica possibilità per non estinguersi è
una soluzione attiva e di cambiamento ambientale, per il singolo operatore
la soluzione può passare attraverso un atto inizialmente cognitivo.
Se l'operatore si rende conto, cognitivamente, che è lo sforzo
personale o l'entusiasmo che gli permettono di incontrare il bisogno
dell'altro può giungere anche ad un cambiamento comportamentale:
ad una tecnica.
Solo quando un operatore può dire: "Ciò che ho
imparato finora o che posso inventare adesso, mi permetterà
di 'risolvere' il caso", fa una dichiarazione di superamento
del burn-out e di professionalità e competenza.
Una dichiarazione che, certo, ne porta con sè anche altre,
come: "In questo caso non mi devo coinvolgere troppo perchè
non ci sono molto possibilità di riuscita", o " Questo
caso è irrisolvibile per uno, forse qualcun altro può
fare di meglio" oppure: "Questo caso ha possibilità
di essere 'risolto' da me, mi impegno" o ancora: "Per questo
caso la mia professionalità è inutile".
Nel momento in cui un operatore si chiede:
- Quali richieste mi sono state fatte?
- Quali risorse sono disponibili per venire incontro a tali richieste?
Egli inizia ad acquisire una tecnica di lavoro che gli consente di
individuare i suoi limiti e le sue possibilità e può
uscire in modo positivo dalla condizione burn-out.
In questo in senso, una tecnica non è un metodo che si imporre
dall'esterno o imparare rapidamente, è bensì un complesso
di sapere oggettivo e di risposte soggettive, diverso per ognuno che
si fonda sull'esperienza e su adeguate strumentazioni e che permette
all'operatore sociale di raggiungere un sufficiente grado di equilibrio
o di distanza emotiva, e di superare il bisogno di "riconoscimento"
da parte degli altri. |