Tratto da: “Il terzo continente”
In viaggio alla ricerca delle motivazioni, delle aspettative e dello stile di vita dell’ “Essere” Educatore professionale di Barbara Martini (dal sito www.heoos.it). Per il testo intero vedi qui.

 

Stress e sindrome del burn-out nella professione di educatore

L'educatore: professione ricca di fascino e di irrisolte ambiguità. Se dopo averne analizzato il ruolo, le funzioni, le aspettative, si passa a valutare il "vissuto" degli educatori, non tutto risulta così lineare come può apparire dall'esterno: la fatica, la sofferenza, la "cottura" sono alte. Diventa importante comprendere a fondo -come si è già detto- le condizioni di lavoro, per individuare i rischi connessi a questa professione e i modi per sostenerli.
In questi anni di razionalizzazione produttiva il nuovo clima culturale ha favorito l'affermarsi di un concetto utile per definire una situazione presente in molti ambiti lavorativi: la burnout's syndrome, in italiano: sindrome da corto circuito. Già il nome lascia intendere, anche se in termini ancora generali, che si tratta del mancato raggiungimento da parte di un'energia della sua meta (cioè di un lavoro corto), e dell'attività di autodistruzione che questa deviazione determina.
Si può dire che la sindrome del burn-out è "una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi, vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risulatato delle condizioni in cui lavorano". E' cioè la condizione in cui un operatore sociale assume atteggiamenti rigidi e distruttivi e non solo rifiuta il suo lavoro, ma anche la ragione e lo scopo stesso.
Egli viene quindi a perdere quel "qualcosa" che gli permette di rispondere, nel modo migliore, più attento, più disponibile, alle richieste di coloro ai quali è diretta la sua professione.
L'operatore con la sindrome del burn-out attuerà così una modificazione delle percezioni, degli atteggiamenti e delle mete, con un cambiamento cognitivo. Progressivamente tutte le aree e le situazioni in cui l'operatore poteva incontrare un disagio verranno considerate effettivamente poco importanti, e abbandonate al disinteresse.
Oltre a ciò, altri autori hanno individuato come componente secondaria di questa sindrome, un sentimento di esaurimento fisico, accompagnato da labilità emozionale che si manifesta in "frequenti e tempestosi episodi di nervosismo".
Anche se una situazione come questa può essere presente in ogni lavoro, è interessante notare come, riferita alle professioni del sociale, diventi fenomeno oltre che condizione soggettiva: non solo quindi possibile evento personale, ma vera e propria malattia professionale. Il fenomeno del burn-out è infatti, un processo in cui una singola possibile linea di evoluzione dà nome al tutto e come tale assume diverse caratteristiche mentre si sviluppa; è quindi necessario studiarlo diacronicamente, dalla sua fase iniziale a quella finale, ma anche sincronicamente in quanto fenomeno costituito e influenzato da altri sottofenomeni.
Sinteticamente si può dire che il processo del burn-out comincia con una fase di stress, con componenti soggettive ed oggettive che poi si sviluppano e si definiscono. In base all'incidenza quantitativa delle suddette componenti, si delineano quattro possibili modi di sviluppo:
1. il burn-out vero e proprio (l'entrata in una fase di frustrazione);
2. l'utilizzazione di una difesa attiva;
3. l'assunzione di tecniche d'intervento;
4. la fuga in un'altra situazione lavorativa, che si vede più consona all'immagine ideale che si ha del proprio lavoro.

Lo stress...
Il burn-out inizia con lo stress che è la condizione in cui si trova un organismo quando, ostacolato in modo permanente o temporaneo, diretto o indiretto, nella soddisfazione dei propri bisogni e aspirazioni, risponde alla situazione con uno stato di tensione emotiva, di esaurimento fisico, stanchezza, irritabilità: lo stress si instaura in breve quando le richieste ambientali costituiscono un peso o eccedono le risorse dell'individuo.
Esistono poi condizioni interne o soggettive di stress e sono legate ai discorsi dei paragrafi precedenti, quelli sulla motivazione. Chi sceglie questo lavoro lo fa con una motivazione soggettiva particolare. Pur essendo varie le motivazioni, si può individuare, secondo gli esperti, in chi compie questa professione, una motivazione od "inclinazione professionale" alla cura e alla conoscenza di se. Questa considerazione comporta una immagine ideale del proprio lavoro, come conferma una ricerca sugli educatori, da cui emerge che, per alcuni di loro vengono ritenuti elementi fondamentali per una visione positiva della professione la possibilità di instaurare relazioni significative con gli utenti, che vengono vissute come fonte di arricchimento reciproco e la conoscenza di sè attraverso il rapporto con l'utente.
Questo fa si che l'educatore reale si crei un'immagine ideale, una motivazione ideale, alla quale il soggetto deve rassomigliare il più possibile, creando situazioni di confronto che possono causare sensi di colpa e una interrogazione continua sulla propria efficienza. Questa è la prima causa soggettiva di stress.
La seconda causa soggettiva riguarda la negazione dell'oggettività del problema dell'altro contrapposta al proprio: fantasie e aspettative irrealistiche la dedizioni a casi impossibili, un riconoscimento sociale di questo successo, l'entusiasmo e la dedizione.
Si ritiene che all'inizio della carriera le "motivazioni ideali", a cui si accennato, e la loro frustrazione siano la causa quantitativamente più importante di stress. Tuttavia gli autori consultati sono unanimi nel riconoscere come, più che le condizioni interne in sè, sia il tipo delle condizioni oggettive di lavoro il motore di tutto il processo di burn-out. Possono essere delle condizioni di lavoro oggettive che non consentono un avvicinamento fra l'immagine ideale e l'individuo reale.
E.Spaltro dice che la motivazione al lavoro ha bisogno, per potersi mantenere tale, di essere corredata da condizioni materiali e di rapporti favorevoli. Mentre L.Grasso sostiene che la disaffezione al lavoro che riscontra nelle situazioni più stressanti non è indice di scarsa motivazione ma, al contrario, di un alto livello di motivazione che viene però frustrato da vari tipi di ostacoli. Pare quindi che per la motivazione intrinseca ad un lavoro, sia le frustrazioni che i premi, funzionano da "strumenti di controllo" e che l'unico intervento, che sembra favorirla, è l'apprezzamento ed il sostegno (espresso a livello verbale). Il feedback verbale, fornito da un altro individuo, non differisce quindi dal feedback che il soggetto si fornisce da sè: infatti servono entrambi a confermarlo nella sua "posizione" ideale.
Questa può essere definita una "fase di stagnazione" del processo del burn-out, che presuppone un sistema di cognitions (la motivazione ideale) che entrano in conflitto con un altro sistema di idee: le condizioni di lavoro (che è un insieme pertinente e dissonante col primo), determinando un disagio psichico.
Il burn-out propriamente detto non sarebbe altro che il perdurare della situazione di "dissonanza" della "fase di stagnazione", senza il ritorno nè a qualcosa d'altro; in altre parole è una "caduta di senso" che inibisce anzichè favorire ogni vera attività.
Segue alle fasi di stress e di stagnazione quella dell'apatia; qui il burn-out è ormai completo, l'operatore è "scoppiato". Un operatore in questa fase del burn-out ha un tipico atteggiamento di laisser faire (lasciar correre) nei confronti degli utenti del suo lavoro.

La difesa attiva...
Come altra possibilità rispetto alla difesa burn-out esiste quella che chiameremo difesa attiva: che consiste nel tentativo di modificare la situazione reale di lavoro.
Modalità questa certamente più proficua che non il ripiegamento soggettivo e il disinteresse, ma che presenta ugualmente una serie di contro-indicazioni: prima fra le quali il fatto che determina lo spostare il problema a livelli sempre più alti (e progressivamente immodificabili), dando luogo ad attese utopistiche e a speranze senza fondamento. E' questa la tipica ipersoluzione di cui parla P.Watzlawick .
Questo tipo di azione è razionale se il singolo o il piccolo gruppo hanno nell'organizzazione uno spazio di manovra per le opportune modificazioni, ma rivela la sua infondatezza se si pensa che le organizzazioni sono stressanti proprio nel momento in cui non esiste questo spazio di manovra.
Mentre il rischio della difesa burn-out è l'immobilismo, quello della difesa attiva è l'attivismo utopico, cioè il desiderio di fare qualcosa a tutti i costi senza valutare se possa essere alla fine utile.
Se anche la difesa attiva può essere votata al fallimento, ha però due vantaggi rispetto a quella burn-out: è meno regressiva, cioè mette in moto una serie di capacità, e se si perde il senso del proprio lavoro resta perlomeno il desiderio di modificare la realtà.

La fuga in un altro lavoro...
Se la difesa burn-out è una fuga nel personalismo soggettivo, questa terza soluzione è ugualmente una fuga, però nel senso proprio del termine.
Quando le condizioni di un lavoro hanno messo in discussione le le motivazioni ideali, chi attua questa fuga non vuole riesaminare queste motivazioni, ma il lavoro stesso.
Non bisogna però confondere la fuga con un procedimento ragionato di cambiamento di lavoro. Si ha un cambiamento quando il lavoratore si indirizza verso un altro lavoro in cui migliora il proprio status sociale o economico, o per cui nel passato ha studiato. Si ha fuga quando invece, dopo anni di lavoro stabile, ci si dedica a lavori precari o sottopagati o inusitati rispetto alla formazione professionale. Non va considerata fuga anche l'intraprendere un'attività stabile in un altro ambito di lavoro.
Questa fuga è quasi sempre individuale, e cela un certo senso di superiorità di chi va, verso chi invece resta nel vecchio lavoro. Chi se ne va si sente migliore o più energico rispetto a quelli che restano "a far niente".
Le scelte alternative per un operatore in fuga sono varie, però egli rimane sempre nell'ambito idealistico di cura di sè o degli altri. Infatti spesso operatori "fuggiti" ritornano o cercano di ritornare in ambienti di lavoro simili a quelli lasciati.

Una nuova tecnica di lavoro e di relazione...
Fino a questo momento, dalla fase di stagnazione del processo di burn-out si è visto l'operatore uscire sconfitto o almeno, "in ritirata".
C'è però una quarta possibilità: l'apprendimento di una tecnica migliore di relazione o di lavoro che permette di far fronte alla caduta dell'entusiasmo.
Se per uno staff l'unica possibilità per non estinguersi è una soluzione attiva e di cambiamento ambientale, per il singolo operatore la soluzione può passare attraverso un atto inizialmente cognitivo. Se l'operatore si rende conto, cognitivamente, che è lo sforzo personale o l'entusiasmo che gli permettono di incontrare il bisogno dell'altro può giungere anche ad un cambiamento comportamentale: ad una tecnica.
Solo quando un operatore può dire: "Ciò che ho imparato finora o che posso inventare adesso, mi permetterà di 'risolvere' il caso", fa una dichiarazione di superamento del burn-out e di professionalità e competenza.
Una dichiarazione che, certo, ne porta con sè anche altre, come: "In questo caso non mi devo coinvolgere troppo perchè non ci sono molto possibilità di riuscita", o " Questo caso è irrisolvibile per uno, forse qualcun altro può fare di meglio" oppure: "Questo caso ha possibilità di essere 'risolto' da me, mi impegno" o ancora: "Per questo caso la mia professionalità è inutile".
Nel momento in cui un operatore si chiede:
- Quali richieste mi sono state fatte?
- Quali risorse sono disponibili per venire incontro a tali richieste?
Egli inizia ad acquisire una tecnica di lavoro che gli consente di individuare i suoi limiti e le sue possibilità e può uscire in modo positivo dalla condizione burn-out.
In questo in senso, una tecnica non è un metodo che si imporre dall'esterno o imparare rapidamente, è bensì un complesso di sapere oggettivo e di risposte soggettive, diverso per ognuno che si fonda sull'esperienza e su adeguate strumentazioni e che permette all'operatore sociale di raggiungere un sufficiente grado di equilibrio o di distanza emotiva, e di superare il bisogno di "riconoscimento" da parte degli altri.