Parti 1 e 2
LE DIFFERENTI UGUAGLIANZE
Figurazioni del nomadismo: "homelessness" e "rootlessness" nella teoria sociale e politica contemporanea (di Rosi Braidotti*)

Il motivo per cui intendo insistere sulle contraddizioni e i paradossi del caso europeo non è soltanto quello di avvicinare all'Europa il dibattito sul postmoderno/coloniale. È anche quello di affrontare la questione difficile eppure cruciale della correlazione storica che intercorre tra la crisi della postmodernità, esemplificata dal declino degli stati-nazione europei, e l'emergere di prospettive situate, le quali hanno a che fare con la decostruzione critica dell'essere bianco (whiteness). Ho affermato in precedenza che, per le persone che abitano la regione europea, la condizione "post" si traduce concretamente nella fine del mito dell'omogeneità culturale, la quale, come ha sostenuto Michael Walzer, costituisce il mito fondante della politica in Europa, così come il multiculturalismo rappresenta il mito centrale negli Stati Uniti.

Naturalmente, la storia europea ha fornito in qualsiasi periodo abbondanti prove dell'esatto contrario: le ondate d'immigrazione dall'est e dal sud ridicolizzano qualsiasi affermazione di omogeneità culturale in Euro pa, mentre la presenza costante di cittadini ebrei e musulmani sfida l'identificazione dell'Europa con la cristianità. Nondimeno, il mito dell'omogeneità culturale riveste un ruolo determinante per la narrazione del nazionalismo europeo. Nella nostra epoca, questi miti vengono smascherati e frantumati nelle questioni dei diritti e delle rappresentanze. Così, l'Unione Europea si trova a dover affrontare il seguente dilemma: si può essere europei e neri o musulmani? L'opera di Paul Gilroy sull'essere cittadino nero britannico è indicativa del fatto che l'essere cittadino europeo e nero si manifesta come questione conflittuale. Ma, vorrei aggiungere, altrettanto vale per l'essere bianchi. Una delle implicazioni radicali del progetto dell'Unione Europea è la possibilità di dare una collocazione specifica, un radicamento o una memoria storica, ai bianchi. Questo fatto può finalmente dare un fondamento razziale alla nostra collocazione e ciò sarebbe un evento molto importante perché in Europa, sino a pochissimo tempo fa, soltanto i sostenitori della supremazia bianca, possedevano una teoria riguardo alle peculiarità proprie della popolazione bianca. Come tutti i fascisti, essi sono degli essenzialisti biologici e culturali. A parte questo, il bianco è stato, molto semplicemente, invisibile, non visto, quantomeno dai bianchi stessi. Immersi nel puro candore liliale delle nostre fantasie universalistiche, sradicati (disembedded) e disincarnati, abbiamo sempre pensato di non avere colore. Poi è arrivata Toni Morrison a darci il colore che abbiamo. Nella sua analisi sulla rappresentazione del bianco in quanto categoria etnica nel cinema, Richard Dyer la definisce come "un vuoto, un'assenza, una negazione o ad dirittura una sorta di morte" . Essendo la norma, è invisibile, quasi fosse inevitabile o naturale. La fonte del potere rappresentativo del bianco è la sua inclinazione a essere tutto e nulla, mentre il nero, naturalmente, viene sempre etichettato come un colore. L'effetto di questa invisibilità strutturata e del processo di naturalizzazione del bianco si traduce nel suo mascherarsi dietro una "multicromaticità incolore". Il bianco contiene tutti gli altri colori. La conseguenza immediata di ciò sul piano politico e metodologico è che la whiteness è molto difficile da analizzare criticamente. Dyer afferma che: "il bianco si frantuma tra le mani non appena si comincia a esaminarlo". Esso tende a frammentarsi in sottocategorie: irlandesità, italianità, ebraicità ecc. Ne consegue che i non bianchi hanno una percezione molto più chiara del bianco rispetto ai bianchi stessi. Basti pensare all'importante lavoro di Bell Hooks sul bianco in quanto terrore e forza mortifera. Tuttavia, non è vero il contrario: i neri e le altre minoranze etniche non hanno bisogno di questa logica speculare per avere una loro propria collocazione.

Come ha osservato Deleuze, il centro è morto e vuoto; non vi è alcun divenire. L'azione si svolge ai margini, dove le tribù nomadiche dei giramondo poliglotti sostano brevemente. L'esperienza degli immigrati bianchi tende a confermare l'insostanzialità del bianco. Poiché l'identità culturale è esterna e retrospettiva, per gli europei essa si definisce mediante il confronto con altri gruppi etnici, solitamente i neri. Questa è stata l'esperienza degli immigrati irlandesi, italiani ed ebrei in paesi quali gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia. Il loro "essere bianchi" emergeva per opposizione, come un fattore che segnava la distanza dai nativi e dai neri. Intellettuali femministe quali Brodkin Sacks hanno analizzato il fenomeno rappresentato da questo processo di "imbiancamento" (whitening) mediante cui gli immigrati di origine europea venivano trasformati in cittadini statunitensi. Si può constatare la misura in cui questo tipo di identità "imbiancata" è tanto illusoria quanto razzista, osservando come le comunità diasporiche degli immigranti di origine europea siano in realtà divise, tutte rinchiuse nei rispettivi ghetti, caratterizzate da un antagonismo reciproco e bloccate in un rapporto di mutuo sospetto. Nondimeno, tutte sono ugualmente "imbiancate" dallo sguardo del colonizzatore, teso a istigarle contro la popolazione nera.

Frankenberg esorta i bianchi ad assumere radicalmente il proprio corpo e le proprie responsabilità: riconoscendo nel loro posizionamento come soggetti l'elemento di razza, i bianchi potrebbero istituire spazi aperti nei quali operare in favore di forme antirazziste dell'essere bianchi, o quantomeno di strategie antirazziste intese a rielaborare l'idea dell'essere bianchi. Vorrei far notare che questa è una delle questioni chiave messe in gioco con il progetto d'integrazione europea, nonché la più incline a fallire. A tale riguardo, la mia personale strategia consiste nel rivendicare l'identità europea quale spazio di contraddizioni storiche e nel sottolineare la necessità politica di sviluppare una resistenza critica a identità egemoniche di qualsiasi natura. La mia scelta per rielaborare la whiteness nell'epoca della postmodernità implica in primo luogo situarla, denaturalizzarla, incarnarla e radicarla. Secondariamente, nomadizzarla, ovvero destabilizzarla, smantellare il suo potere egemonico. Per me, essere un soggetto europeo nomade significa essere in transito, tuttavia sufficientemente ancorata a una posizione storica da accettare la responsabilità che essa comporta. Questa definizione di individuo europeo transnazionale e tendenzialmente senza fissa dimora costituisce un netto miglioramento rispetto alla rivendicazione di qualsiasi altra specifica etichetta (italiano, irlandese ecc.). D'altro canto, colei che afferma ciò è pur sem pre una femminista post-strutturalista "imbiancata" italoaustraliana e francoolandese.

La politica delle figurazioni
Non è il minore dei paradossi della postmodernità quello di porre
in primo piano il ruolo dell'immaginazione in quanto pratica e area sociale fortemente conflittuale. Appadurai parla di una ricerca di controllo sull'immaginario sociale contemporaneo. Il ciberspazio è una delle aree dove attualmente sta infuriando questa battaglia. Nel femminismo, la lotta sull'immaginario, in modo particolare per quanto riguarda le pratiche di rinominazione e risignificazione, ha una lunga storia. Nei miei lavori, l'ho analizzata in termini di figurazioni. Una figurazione non è una mera metafora bensì una mappa cognitiva politicamente aggiornata che legge il presente in termini di situazione radicata individuale. Basata sulla teoria di Adrienne Rich della "politica della collocazione", la nozione di figurazione è stata ridefinita attra verso il contributo illuminante delle concezioni post-strutturaliste sul discorso, evolvendosi nell'idea elaborata da Donna Haraway dei "saperi situati" in quanto genealogie o responsabilità incarnate. La questione è molto semplice e, così come l'ha formulata il movimento femminista, ben prima che Deleuze la esprimesse in termini fi losofici, significa che noi abbiamo bisogno di imparare a pensare differentemente la nostra condizione storica; dobbiamo reinventare noi stesse. Questo progetto trasformativo inizia con l'abbandono di quelle modalità di pensiero storicamente istituite che, sino a oggi, hanno fornito la visione "standard" della soggettività umana. Sarebbe bene per noi abbandonare tutto ciò in favore di una visione decentrata e multistratificata del soggetto in quanto entità dinamica e in continuo cambiamento, situata in un contesto mutante.

Il nomade esprime le mie figurazioni di una comprensione situata e culturalmente differenziata del soggetto. Tale soggetto si può definire anche postmoderno/industriale/coloniale, a seconda delle proprie collocazioni individuali. Queste collocazioni dif feriscono e tali differenze sono importanti. Nella misura in cui gli assi della differenziazione quali classe, razza, etnia, genere, età e altri an cora interagiscono reciprocamente nella costruzione della soggettività, il concetto di nomadismo si riferisce al realizzarsi simultaneo di molti di essi. La soggettività nomadica riguarda la simultaneità di identità complesse e multilivello. Parlare come femminista comporta il riconoscimento della priorità del genere nella strutturazione di queste relazioni complesse. Il soggetto nomadico è un mito, o una fiction politica, che mi consente di pensare e muovermi attraverso categorie costituite e livelli di esper ienza. È implicita nella mia scelta di fare uso di tale figurazione la fiducia nel potere e nella pertinenza dell'immaginazione, della mitopoiesi, quale strada per uscire dalla crisi politica e intellettuale di questi tempi postmoderni. Le costruzioni politiche possono essere più efficaci, qui e ora, rispetto ai sistemi teoretici. La scelta di una figura iconoclasta, mitica, quale è quella del soggetto nomadico, rappresenta di conseguenza una mossa contro il pensiero teoretico e, soprattutto, filosofico convenzionale. Essa si ricollega a Nietzsche e a una contro-tradizione alquanto polemica presente nella filosofia occidentale. Questa figurazione possiede un richiamo immaginativo che trovo in sintonia con il movimento transnazionale che segna la nostra situazione storica. Nel mio ultimo libro, ho fatto una distinzione tra la soggettività nomadica e altre due figurazioni alle quali viene spesso (svantaggiosamente) paragonata: quella dell'immigrato e quella dell'esule. L'itinerario classico dell'immigrato è compreso entro siti fissi: dalla "casa" ai paesi "ospiti", attraverso una serie di spostamenti consecutivi. Ho sostenuto che l'immigrante ­ in quanto figura segnata da privazioni economiche ­ tende ad aggrapparsi ai valori "domestici" mentre cerca di adattarsi a quelli dell'ambiente ospitante (una lastra gelata di storia). L'esule, d'altro canto, segna la separazione radicale dal, e l'impossibilità di ritornare al punto di partenza. Molto spesso per ragioni politiche, l'esule non conosce periodici movimenti di andata e ritorno tra due siti relati vamente fissi. Il nomade è invece per l'abbandono e la decostruzione di ogni senso di identità fissa. Il nomadico è affine a ciò che Foucault ha definito come contromemoria, una forma di resistenza all'assimilazione o all'omologazione a modalità dominanti di rappresentazione del sé. Le femministe sono coloro che possiedono una coscienza periferica; si sono dimenticate di dimenticare le ingiustizie e la povertà simbolica: la loro memoria è attivata controcorrente; mettono in atto una ribellione dei saperi soggiogati. Lo stile nomadico riguarda le transizioni e i passaggi senza destinazioni predeterminate o patrie perdute. Così, il nomadismo si riferisce a quel tipo di coscienza critica che resiste a integrarsi in modi socialmente codificati di pensiero e di comportamento.

È la sovversione delle convenzioni stabilite che definisce la condizione nomadica, non l'azione puramente fisica del viaggiare. Ma altre figurazioni vengono alla mente, e non soltanto quelle classiche di zingari ed ebrei erranti. All'interno degli "etno-paesaggi" della postmodernità, stiamo attualmente sperimentando una proliferazione di figurazioni alternative della soggettività postumanista. Basti pensare ai lavoratori itineranti, agli immigrati illegali, ai frontalieri del sesso, nonché alle varie forme di dislocamento, diaspora e ibridazione. Al cyborg di Donna Haraway e all'accoppiata postmoderna di Zygmunt Bauman: il turista e il vagabondo. L'essere senza casa (homeless) e l'essere senza radici (rootless) costituiscono significati forti della nostra situazione presente. Ancora una volta, la teoria femminista è all'avanguardia in questo processo, avendo prodotto costruzioni politiche forti al fine di riscrivere la Donna non come "l'Altro del Medesimo" ma piuttosto come l'altro nella sua grande diversità. Luce Irigaray predilige figurazioni che fanno riferimento alla morfologia femminile, ma il ventaglio delle alternative disponibili è alquanto indicativo: Monique Wittig sceglie di chiamare il soggetto femminista (postdonna) come "lesbico" e le fa eco la politica della parodia e del "mascheramento" di Judith Butler. Nancy Miller definisce la sua donna come il soggetto femmina e femminista di un'altra storia. De Lauretis la chiama "soggetto eccentrico", Trin Minh Ha"l'altra inappropriata", Spivak"il soggetto post-coloniale", Alice Walker la Womanist, Gloria Anzaldua mestiza. Altre figurazioni sono state proposte: da quella del "pendolare" a quella del viaggiatore in transito. Chantal Mouffe parla di processi permanenti di ibridazione e nomadizzazione. Ma sono state offerte anche altre figurazioni storicamente specifiche: la sposa per corrispondenza; la prostituta illegale; la vittima dello stupro di guerra che cerca asilo politico nell'unione europea senza riuscire a ottenerlo, perché lo stupro non conferisce lo status di rifugiato politico; la domestica filippina che ha sostituito la figura più familiare della babysitter o della ragazza alla pari, sino a giungere alle cyberfemministe che si travestono elettronicamente mentre navigano in Internet. La lista è aperta.

Queste figurazioni sono tutte materialmente radicate e quindi non metaforiche. Helma Lutz analizza queste nuove forme di dislocazione in termini di "professioni migratorie femminili". Un modo di definire la posta politica messa in gioco nella lotta per il controllo dell'immaginario sociale nella postmodernità è quindi di indicare la transfigurazione generale in atto all'orizzonte dei nostri sempre mutevoli etno-paesaggi. In questa cornice, il nomadismo ­ con o senza Deleuze ­ è stato sottoposto all'indagine critica. Stuart Hall teme un uso alla moda del termine, che potrebbe disincarnare i soggetti nomadici e non riuscire a rendere giustizia alle loro specifiche collocazioni storiche. Kaplan e Grewal esprimono una forte resistenza a qualsiasi tipo di metafore del viaggio, ma in particolare a quelle della dislocazione che caratterizzano tanta parte della filosofia post-strutturalista. Secondo loro, si tratterebbe di una forma di orientalismo filosofico, un modo di sentimentalizzare l'esotico. Essi sono critici nei suoi confronti quanto lo sono io delle metafore del femminile usate nelle stesse filosofie. Zygmunt Bauman respinge la figurazione nomadica per ragioni del tutto diverse: essa non è abbastanza radicale. I nomadi ritornano sempre e tendono a seguire rotte prestabilite, non riuscendo così a liberarsi sufficientemente da un errato senso di finalità teleologica. James Clifford teme indebite assimilazioni del nomadismo da parte dei post-modernisti neo-primitivisti occidentali, i quali lo metaforizzerebbero in un nuovo paradigma adeguato alle loro specifiche collocazioni. E difende invece le immagini di viaggio, che sono storicamente inscritte e perciò chiaramente definibili (agenti, frontiere, guide, documenti, visti, eccetera). Anche Clifford predilige, come Bauman, la figurazione del pellegrino, a dispetto delle sue risonanze teosofiche. E si unisce a Stuart Hall e Paul Gilroy nell'enfatizzare forme di creolizzazione, transculturalità, diaspore e ibridazione. Sottolineando il fatto che tutti questi posizionamenti mobili del soggetto sociale sono l'effetto della postmodernità transnazionale, dichiara che:

"alla fine del ventesimo secolo, tutte le comunità o, quantomeno, la maggior parte di esse, hanno dimensioni dia sporiche. Alcune, tuttavia, sono più diasporiche di altre".

Sono pienamente d'accordo. E parlando dalla specifica collocazione geopolitica e storica che ho delineato nella prima parte di questo saggio intendo riaffermare nuovamente la mia posizione: le figurazioni di una soggettività mobile, complessa e mutevole non avranno vita effimera. Parlando come donna femminista europea poststrutturalista antirazzista bianca e "imbiancata", sono a favore di figurazioni della soggettività nomadica che agiscano quale decostruzione permanente del fallologo centrismo eurocentrico. All'interno di tale logica la coscienza nomadica rappresenta il nemico. Come scrisse Nietzsche:

Noi che siamo senza dimora ­ oggi, tra gli europei non mancano certo coloro che possono a buon diritto definirsi senza dimora in un senso specifico e onesto. [...] Noi proviamo disapprovazione per tutti quegli ideali che potrebbero portare qualcuno a sentirsi a casa propria persino in questo fragile, frammentato periodo di transizione. [...] Noi che siamo senza dimora costituiamo una forza in grado di spezzare il ghiaccio e tutte le altre "realtà" troppo sottili.

Questo appello si interseca con ed è situato nello scambio dialogico con altre forme specificamente collocate di deradicamento o di diaspore. Getta le basi per un'alleanza con esse. La poetessa ganaense Aben Busia, esprime la stessa cosa riferendosi alla diaspora africana quando dice: "possiamo andare ovunque, fuorché a casa". A questa affermazione fanno eco, da una differente collocazione nell'Occidente, Caren Kaplan e Inderpal Grewal, le quali ci invitano ad abbandonare la casa, perché spesso la casa è teatro di sessismo e razzismo, un luogo che noi dobbiamo rielaborare in modo politico, costruttivo e collettivo. A ciò vorrei aggiungere, insieme con Deleuze e altri ancora, che le identità fisse devono essere lasciate alle spalle, in quanto luoghi della sedentarietà che generano passioni reattive quali cupidigia, paranoia, gelosia edipica e altre forme di costipazione simbolica. Si tratta di qualcosa di completamente diverso rispetto al tipo di cosmopolitismo elitario che in questi tempi viene affermato da Martha Nussbaum e che in precedenza fu sostenuto da Virginia Woolf nella sua famosa dichiarazione:

"In quanto donna non ho patria, in quanto donna la mia patria è il mondo intero."

Per quanto io resista alla portata universalistica di tale affermazione [...] ritengo che in quest'epoca di movimenti transnazionali e di "cittadinanze flessibili", la realtà si approssimi piuttosto a un'osservazione di Aihwa Ong riportata da Clifford:

"Posso vivere in qualsiasi posto del mon do, purché sia vicino a un aeroporto".

Questa è un'affermazione nomadica che riguarda il viaggiare, ma è legata alla condizione dell'essere senza casa. Per apprezzarne il valore dobbiamo affidarci alla ricchezza di risorse dei soggetti nomadici e alle loro specifiche forme di radicamento nel corpo e nel contesto. Cito dal New York Times:

Circa una dozzina di persone vivono ora permanentemente all'aeroporto Kennedy, trovando posto durante la notte nei cavernosi terminal internazionali che non chiudono mai, dormendo come viaggiatori stanchi sulle sedie modulari o sul pavimento. Costituiscono un gruppo diverso dai senza casa che dormono nelle strade o nelle metropolitane. Infatti, essi sono invisibili, si danno quotidianamente da fare per mescolarsi al traffico umano. Non appaiono sporchi o aggressivi, e raramente chiedono l'elemosina. La maggior parte di loro sono malati mentali, ma non costituiscono un pericolo per se stessi o per gli altri. Alcuni sono molto istruiti. Preferiscono le condizioni che trovano nell'aeroporto riscaldato, dotato di aria condizionata e relativa mente privo di criminalità rispetto a quelle della strada. [...] A Chicago, la città ha aperto quattro anni or sono un centro di accoglienza dotato di 80 posti letto per togliere i senza casa dall'aeroporto O'Hare dopo che le cose si erano spinte troppo oltre: alcune persone avevano portato delle piante per abbellire i loro angoli.

Gli spazi di transizione richiedono negoziazioni costanti. Benché la familiare sala d'attesa della piccola stazione ferroviaria sia stata sostituita quale punto di sosta nomadico dagli sfarzosi saloni aeroportuali, il desiderio di decorarli con le proprie piante o i propri disegni rimane altret tanto forte. In un'epoca di sempre maggiore diffusione in tutti gli spazi pubblici di dispositivi elettronici di alta tecnologia per la sicurezza, gli aeroporti possono risultare per i senza casa più accoglienti rispetto alle stazioni ferroviarie o della metropolitana. In parte perché, per quanto appaia paradossale, gli aeroporti possono funzionare a un ritmo più lento rispetto alla normale stazione ferroviaria sottoposta a traffico pendolare. Mostrando di possedere un immenso talento mimetico, i senza casa che vivono negli aeroporti si camuffano da ciò che effettivamente sono: persone che trasportano i propri bagagli mescolandosi al flusso del traffico umano. Là dove essi sono diversi rispetto ai passeggeri forniti di biglietto di viaggio è nel non avere la minima intenzione di, né i mezzi finanziari per allontanarsi dagli edifici aeroportuali, che essi abitano in vece come loro dimore. In una sorta di "miseenabyme" del viaggiare, essi enfatizzano l'importanza della collocazione nel determinare quale senso, se mai ve n'è alcuno, può essere attribuito al concetto di mobilità. I senza casa sono nomadi che non viaggiano. Come ha scritto Bell Hooks (e qui rispondo a James Clifford):

`Viaggio' non è una parola che può essere facilmente evocata per parlare del Middle Passage, del Trail of Tears, dello sbarco degli immigrati cinesi nell'Ottocento, del confinamento subito dai giapponesi americani durante la seconda guerra mondiale o della condizione dei senza casa. Teorizzare questi diversi spostamenti è cruciale al fine di comprendere qualsiasi politica della collocazione.

Le collocazioni sono storie materializzate e radicate, le cui diversità possono essere spiegate e devono essere rispettate. La coscienza nomadica che ho auspicato rappresenta la decostruzione dell'idea fallologocentrica ed eurocentrica di una coscienza trionfale il cui compito si ritiene debba essere quello di sovrintendere all'agire umano in tutti i suoi aspetti. L'occhio sempre vigile della Ragione che scruta e controlla i propri domini rappresenta una figurazione efficace di questa visione ossessiva della soggettività. Un'altra immagine classica è quella del biblico Albero della Conoscenza, il quale dovrebbe racchiudere ogni possibile ramificazione. A questa fissità e a questa pretesa di universalità vorrei contrapporre invece la visione di una soggettività "imbiancata" di natura mutevole, parziale, incarnata e, di conseguenza, resa responsabile. Essa definisce il soggetto come un apparato complesso dotato di memoria e capace di funzionare all'interno di strutture negoziate collettivamente. Mettendo in gioco questa immagine contro la visione sedentaria e monolitica della soggettività classica nell'occidente, mi sono associata a coloro che chiedono la decostruzione, in termini di nomadismo, di tale visione egemonica.

Possiamo fare una sola cosa di questa visione classica della soggettività: distruggerla. Il nomade è letteralmente un viaggiatore "spaziale" che, di volta in volta, costruisce e smantella gli spazi in cui vive prima di procedere nel viaggio. Lui/lei funziona secondo uno schema di ripetizioni che non è privo di un certo ordine, benché non abbia una destinazione definitiva. L'opposto del turista, l'antitesi dell'emigrante, il viaggiatore nomadico è interessato soltanto all'atto dell'andare, dell'attraversare. Il nomadismo è una forma di divenire intransitivo: segna un insieme di trasformazioni senza prodotto finale. I soggetti nomadici creano mappe politicamente consapevoli per la loro stessa sopravvivenza. I viaggiatori nomadici sono dei geni dell'oralità, si affidano al ricordo e conoscono i luoghi a memoria. Di qui l'importanza del "visitare", inteso non in senso borghese, ma, piuttosto, come il tentativo di condividere la stessa collocazione radicata. Questa modalità del "visitare" è esattamente opposta rispetto alla pratica consumistica della percezione dell'"altro" attraverso il posizionamento del soggetto come turista. La "visita" è uno scambio che richiede responsabilità e interesse. Il nomadismo femminista segna lo specifico itinerario politico delle donne femministe che sono a favore della molteplicità, della complessità, dell'antiessenzialismo e di coalizioni antirazziste ed ecologiste. Le femministe nomadiche mirano a smantellare le strutture di potere che sostengono le opposizioni dialettiche dei sessi, rispettando al contempo la diversità delle donne e la molteplicità che è presente in ogni singola donna. In quanto immaginario sociale ed espressione di una sensibilità con temporanea di natura tanto estetica quanto politica, il nomadismo dilaga tra le ragazzacce, le rivoltose e le guerrigliere dell'era post-femminista. La loro strategia politica è una ripetizione giocosa e mimetica. L'infinita capacità di Kathy Acker di "alterare" se stessa; l'occupazione di spazi pubblici quali strade o piazze da parte di artiste che vi installano opere costituite da slogan tratti dall'esperienza di dominazione e intimidazi one patita dalle donne. Artiste nomadiche come Catherine Richards e Cindy Sherman esplorano la loro corporeità reale e virtuale attraverso opere che affrancano l'esperienza carnale delle donne dal regime scopico maschile. Incidono la loro propria carne, come fa Orlan, ma dalla carne recidono e asportano anche, come fanno Kruger e Holzer. Sperimentano acusticamente con i loro impianti sonori corporei: voce, risonanza, timbro, muscolarità. Le femministe nomadiche viaggiano in Internet assumendo identità fatte di dati digitali il cui genere è comunque determinato. Non cessano mai di mettere a nudo e smantellare il razzismo, il maschilismo, la violenza maschile e la stolidità di un patriarcato che annichilisce l'anima, senza per questo fare mai concessioni né a fedi essenzialiste nella superiorità femminile né a una possibile omologazione all'idea postmoderna di un flusso di identità che si vorrebbe trascendere il genere. Esse cercano di coniugare la complessità con l'impegno nei confronti del progetto di rafforzamento delle differenze rese possibili dal femminismo.

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