DEL PRINCIPIO FEDERATIVO 
Pierre-Joseph Proudhon
(vedi anche 1 - 2 - 3)

 Introduzione e traduzione di Paolo Bonacchi

PREFAZIONE
di Paolo Bonacchi

IL PROFETA DEL FEDERALISMO

CAPITOLO I
DUALISMO POLITICO.
  AUTORITA' E LIBERTA':
OPPOSIZIONE E CONNESSIONE DI QUESTE DUE NOZIONI
CAPITOLO II
CONCETTI A PRIORI SUGLI ORDINAMENTI POLITICI :
REGIME DI AUTORITA'

CAPITOLO III
FORME DI GOVERNO

 CAPITOLO IV
TRANSAZIONE FRA I PRINCIPI:
ORIGINE DELLE CONTRADDIZIONI DELLA POLITICA.
CAPITOLO V
GOVERNI DI FATTO : DISSOLUZIONE SOCIALE.
 CAPITOLO VI
POSIZIONE DEL PROBLEMA POLITICO:
PRINCIPIO DI SOLUZIONE
 CAPITOLO VII
SVILUPPO DELL' IDEA DI FEDERAZIONE
 CAPITOLO VIII
COSTITUZIONE PROGRESSIVA
CAPITOLO IX
RITARDO DELLE FEDERAZIONI:
CAUSE DEL LORO RINVIO
 CAPITOLO X
IDEALISMO POLITICO:
EFFICACIA DELLA GARANZIA FEDERALE
CAPITOLO XI
SANZIONE ECONOMICA
FEDERAZIONE AGRICOLO- INDUSTRIALE

 Prefazione di Paolo Bonacchi

Presentazione 

Ci siamo impegnati nella traduzione di questo libro per diffondere l'idea del federalismo nella purezza dei suoi principi, come avrebbe detto Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Forse nessuno come lui ha saputo descriverlo in modo tanto efficace e comprensibile anche per i non addetti ai lavori. Non esiste cosa altrettanto importante per l'uomo moderno, quanto la diffusione delle informazioni. E' perfettamente inutile declamare i sacri principi dell'uguaglianza, della giustizia, della libertà, della democrazia e lasciare che la coscienza dei cittadini si formi in un modo arbitrario, incompleto oppure attraverso informazioni false.

Forze oscure agiscono contro gli uomini come contro la società. Queste forze si riassumono nell'ignoranza e nel potere che per dominare impediscono con la loro azione la crescita delle coscienze.

Non è facile al tempo d'oggi per un cittadino comune, avere la pazienza e la buona volontà necessarie per leggere un libro di politica scritto più di un secolo fa. Lo scempio che in Italia viene quotidianamente perpetrato contro lo spirito della società, ha alla fine allontanato gli italiani dalla passione della politica e dalla partecipazione alla vita collettiva. Tuttavia quelli che si vorranno cimentare nell' impresa di leggere "Del principio federativo" e si sforzeranno di capire quanto in esso contenuto, conosceranno quali siano le ragioni ed i principi del federalismo, di cui moltissimi oggi parlano senza conoscerlo. Il libro costituisce senza dubbio il testamento politico di uno dei più grandi pensatori del diciannovesimo secolo.

Se dovessimo affidarci ai giornali oppure alle televisioni di casa nostra per avere una idea chiara su ciò che è il federalismo, probabilmente non riusciremmo mai a capirlo. Quasi tutti oggi si dichiarano più o meno federalisti; la gente in genere crede che il federalismo consista approssimativamente nel portare le istituzioni un pò più vicine ai cittadini. Questo è vero solo nel senso che la prima condizione del federalismo è che i cittadini sono lo Stato, e che è loro interesse avere le istituzioni vicine per meglio controllarle ed indirizzarle.

La grande difficoltà nell'essere dei veri federalisti consiste nel fatto di conoscere le sue origini, i suoi principi e le ragioni sulle quali si appoggia. Chi si dichiara contrario al federalismo, poi, dovrebbe almeno avere il pudore di giustificare l'avversione con la sua conoscenza.

Del resto non si può neppure continuare ad avere la pretesa di cambiare lo Stato in senso federale, presentando ai cittadini un'immagine assurda, falsa, incompleta o di comodo di ciò che esso è, come ad esempio hanno fatto gli estensori del testo per la riforma della Costituzione riuniti in Commissione bilaterale. Questo documento, che è stato presentato dagli organi di informazione come riforma dello Stato italiano in senso federale, non è che una gigantesca truffa, un inganno, una miserabile menzogna. In esso di federalismo, non c'è assolutamente niente; è solo l'ennesimo trucco con cui i partiti vogliono continuare ad avere, attraverso il Parlamento, un potere superiore a quello del popolo che è Stato.

Sebbene sia sconosciuto al grande pubblico, le opere di Proudhon sono state studiate da sociologi, filosofi ed economisti ed il suo pensiero é stato condiviso sia da conservatori che da progressisti, da sindacalisti riformisti o rivoluzionari, da circoli di estrema destra e da circoli di estrema sinistra, da liberali e da comunisti ed anche da reazionari.

Molti hanno utilizzato le sue idee di volta in volta per affermare le loro tesi o per perseguire i propri scopi. I più attribuiscono ciò alle contraddizioni del suo pensiero in cui ognuno può vedere quello che gli torna comodo. La verità non ha definizioni, non ha partiti né correnti, né indirizzi particolari. Ma per trovarla, è necessario cercare con attenzione, guardare in profondità, e non limitarsi a leggere superficialmente o isolatamente solo le parti che corrispondono al nostro punto di vista. Forse é per questo che in molte parti delle opere di Proudhon, ognuno può ritrovare le proprie ragioni ed avere un'idea errata della frammentarietà e del disordine delle sue analisi. Leggendo le sue opere e riflettendo sul loro contenuto, è facile trovare la radice unitaria del suo pensiero.

Alla traduzione del testo non abbiamo aggiunto alcun commento personale o di scienziati della politica, o di filosofi, sociologi ed economisti su quanto egli ha scritto.

Ci è capitato di conoscerlo per caso, da semplici cittadini che ad un certo punto della vita, alcuni anni orsono, hanno voluto occuparsi della politica. Abbiamo avuto notevoli difficoltà a trovare le sue opere, ma alla fine siamo stati ricompensati.

Abbiamo cercato di capire al di fuori degli schemi, dei partiti, delle fazioni, degli indirizzi, e ci siamo convinti che ognuno deve farsi una sua idea personale dell'opera che qui presentiamo tradotta in italiano. I commenti, le note, le spiegazioni, le classificazioni, gli accostamenti, le divergenze, le esaltazioni e le condanne oppure i tagli suggeriti dalla convenienza ideologica di chi ha voluto interpretare questo autore con spirito di parte, influirebbero negativamente sulla libertà di giudizio del lettore. Che ognuno giudichi da sé, secondo la propria capacità ed esperienza: pensiamo che questo sia il modo migliore per apprezzare la sua opera ed entrare in sintonia col federalismo.

Il lavoro, a parte il rigore della traduzione, non ha alcuna pretesa scientifica. E' bene lasciare agli scienziati il compito di analizzare ed approfondire le singole parti dell'opera. In Del principio federativo Proudhon si rivolgeva direttamente ai suoi lettori, che erano più che altro semplici operai, artigiani, piccoli commercianti: gente comune che aveva poca o nessuna dimestichezza con la politica e le scienze sociali. Era per migliorare la loro condizione culturale e sociale che scriveva e studiava. Il nostro compito é solo quello di riproporre il suo pensiero e cercare di contraddire brevemente, con le sue stesse parole e con ciò che l'esperienza di questo secolo ci ha dimostrato, i giudizi negativi di coloro che per convenienza personale o politica, lo hanno condannato o dimenticato.

Via via che il libro scorrerà davanti ai vostri occhi vi renderete conto delle enormi forze che in ogni tempo agiscono nella società; della natura e dell'origine del potere; delle sue degenerazioni attraverso i partiti; di come la debolezza e l'eterna variabilità degli uomini influiscano sulla politica; ed ancora del perché si formi uno Stato unitario accentrato che con le sue infinite leggi permette lo sviluppo e la crescita della corruzione e dello spreco della ricchezza e come esso generi naturalmente l'elefantiasi della burocrazia. Conoscerete le ragioni per cui il grande capitale si allea volentieri con i partiti e come il popolo, in una democrazia, possa finire col non contare quasi niente essendo le elezioni solo una finzione, una maschera del potere. E' per questo che le leggi dello Stato non riflettono tanto la volontà del popolo, quanto quella dei gruppi economici che attraverso i partiti ed i sindacati lo dominano. Vi sembrerà che il libro sia stato scritto ieri e non centotrentacinque anni fa, perché sotto diversi aspetti, molte parti sono in perfetta sintonia con la situazione attuale della politica italiana.

Anche se i tempi sono diversi ed è perciò comprensibile che alcuni punti non corrispondano al modo di pensare di oggi, se leggerete il libro con attenzione, alla fine avrete un'idea chiara di come il federalismo sia una grande, profonda e progressiva rivoluzione sociale che senza violenza determinerà un radicale cambiamento della struttura dello Stato. Questa rivoluzione appare oggi sempre più necessaria per sostituire all'instabilità della politica ed all'insicurezza della società, un ordine politico basato sulla Legge intesa come contenuto del patto, del contratto fra cittadini e fra cittadini ed eletti. Ciò realizzerà nel tempo una Costituzione Progressiva, aderente allo spirito, agli interessi ed alle aspettative dei cittadini, e lo Stato non sarà che un effetto della loro volontà.

In poche parole: chi avrà la pazienza di leggere tutto il libro e di meditarlo, con ogni probabilità diventerà un vero federalista.

Capirà come col federalismo, che Proudhon presenta nella sua vera natura, ogni società di uomini possa progredire tranquillamente nella sicurezza e nel maggiore benessere, perché ognuno sa che lo Stato costruito dal popolo per il popolo, gli è amico e gli rende più libera, facile, serena e sicura la vita di ogni giorno.

Nel libro Proudhon chiede spesso ai suoi lettori " di aver pazienza ", " di leggere con pazienza ", " di avere la bontà di continuare a seguirlo" e che alla fine tutto sarà chiaro. Questa è la nostra stessa avvertenza, perché solo la comprensione e la conoscenza possono aiutarci ad uscire dal pantano politico, dal disordine morale, dall'egoismo individuale, dal degrado civile e sociale in cui in l'Italia sta sempre più sprofondando.

E' di questa conoscenza che l'Italia di oggi ha bisogno per cambiare, e quanto più ognuno saprà essere semplice e rigoroso nell'affermazione dei principi del federalismo, tanto più sarà possibile un' autentica trasformazione dello Stato: una rivoluzione graduale e pacifica che strappandolo dalle mani dei partiti, dei sindacati e del potere economico e rimettendolo nelle mani dei cittadini, porrà di nuovo il nostro paese in cammino verso la civiltà.

Ancora una cosa chiediamo ai lettori: non abbiate pregiudizi su Proudhon senza aver letto le sue opere. Egli ha sempre avuto contro il potere economico, il potere politico ed il potere delle Chiese; ma il modo arbitrario in cui attraverso la manipolazioni delle informazioni nel suo e nel nostro secolo essi abbiano rappresentato una economia, un potere, ed uno Spirito al servizio del progresso umano, è storia di menzogna e di violenza che tutti conoscono.

Il profeta del federalismo

Pierre-Joseph Proudhon non è stato l'unico sociologo federalista della storia, ma certamente è stato il suo più grande profeta. Per la maggior parte di noi non è facile credere ai profeti, specialmente a quelli politici. Ma quando l'esperienza ed il tempo hanno confermato le loro intuizioni nella pratica della vita sociale, il nostro spirito entra con facilità in sintonia con le loro osservazioni. Il verificarsi delle contraddizioni da essi indicate molto tempo prima che i fenomeni sociali le manifestassero, fanno sorgere spontaneamente la fiducia

La storia non ha reso ragione a questo grande pensatore. Egli stesso descrivendosi socialista, anarchico e ateo, si è autoescluso dalla considerazione di gran parte della pubblica opinione, e questa può essere una delle ragioni dei pregiudizi che molti si sono fatti di lui. Ma il significato di queste collocazioni era allora del tutto diverso da quello che noi gli attribuiamo oggi. Come il termine comunità, che egli usava per comunismo, non ha più oggi alcuna relazione con esso, così è probabile che per lui la parola socialista avesse più il significato di studioso dell'uomo e dei fenomeni che si verificano nella società, allo scopo di migliorare la condizione della vita umana che del politico, mentre per ateo probabilmente allora si intendeva solo un non cattolico.

Proudhon non era senza difetti. E' vero che ai nostri occhi essi appaiono tanto più grandi, quanto maggiore è la considerazione che abbiamo dell'uomo. La sua dura polemica contro gli ebrei, suscita meraviglia ai nostri giorni: una vasta coscienza, unita ad una potente intelligenza, si dileguano davanti ai giudizi che espresse sull'ebraismo. Dove dobbiamo ricercare la ragione di ciò? Per esprimere un giudizio obiettivo sulle questa sua posizione, bisognerebbe conoscere i suoi tempi e la situazione dell'ebraismo di allora. Niente nasce dal nulla. Verrebbe voglia di dire: "Chi non ha colpa, scagli la prima pietra."

Molte sono le ragioni del suo immeritato destino; sicuramente la sinistra intera che con estrema superficialità lo ha bollato di contraddittorio e borghese, e perciò di inattendibile, ne è la prima responsabile. Neppure in questo è stato smentito il vangelo del suo massimo messia. Marx infatti, dopo averlo definito "il Rousseau Voltaire di Luigi Bonaparte", ed aver espresso giudizi altamente positivi sul suo pensiero, in Miseria della filosofia, scritto in risposta al libro di Proudhon Sistema delle contraddizioni economiche o Filosofia della miseria, lo definisce un piccolo borghese e lo attacca con intolleranza e cruda violenza.

Alla fine il fallimento del comunismo, rendendo ragione a Proudhon, ha espresso il suo inappellabile giudizio proprio sulle dottrine di Marx. Proudhon, il profeta, alcuni decenni prima dell'avvento del comunismo, aveva intuito che la realizzazione pratica del pensiero marxista avrebbe condotto esattamente ai risultati conseguiti nei paesi dove esso è stato applicato. In ogni sua opera egli si dimostra un accanito oppositore della concezione comunista e sempre sostenitore della libertà.

In Che cosa è la proprietà, definiva il comunismo oppressione e schiavitù; sei anni più tardi nel suo libro Sistema delle contraddizioni economiche, riprende con vigore la sua condanna affermando che il comunismo sarebbe stato:"...Dittatura dell'industria, dittatura del commercio, dittatura del pensiero, dittatura della vita sociale e nella vita privata, dittatura in ogni luogo: tale è il dogma. ....... Dopo aver soppresso tutte le volontà individuali, il comunismo le concentra tutte in un'autorità suprema che esprime il pensiero collettivo e, come il motore immobile di Aristotele, dà il via a tutte le attività subalterne. Così, per il semplice sviluppo dell'idea, si è inevitabilmente portati a concludere che l'ideale del comunismo è l'assolutismo. Ed invano si potrebbe prendere come scusa che questo assolutismo sarà transitorio; se una cosa è necessaria un solo istante, essa lo diventa per sempre, la transizione è eterna."

Ma la sua più grande profezia fu quella sul federalismo che riassume in modo mirabile in una nota del cap. VII di Del principio federativo. In essa egli definisce una finzione di legista il contratto sociale di Rousseau, "...immaginata per rendere conto senza ricorrere al diritto divino, all'autorità paterna o alla necessità sociale, della formazione dello Stato e dei rapporti fra il governo e gli individui. Questa teoria, mutuata dai Calvinisti, costituiva nel 1746 un appannaggio della legge di natura e della religione. Nel sistema federativo, il contratto sociale è più di una finzione, è un patto positivo, effettivo, che è stato realmente proposto, discusso, votato e adottato e che si modifica regolarmente secondo la volontà dei contraenti. Fra il contratto federativo e quello di Rousseau e del 93, c'è tutta la distanza che passa fra la realtà e l'ipotesi." Tutti sembrano aver oggi dimenticato queste parole: per primi quelli che per dovere istituzionale dovrebbero conoscerle più di ogni altro e che invece le ignorano o per malafede o per tornaconto o semplicemente perché non le hanno meditate o addirittura mai lette. 

Il socialista, l'ateo e l'anarchico.

Ma torniamo al Proudhon che si presentava come socialista, anarchico ed ateo. Togliamoci il paraocchi dei pregiudizi e giudichiamolo, se ciò è opportuno, dalle sue stesse opere. Per lui essere socialista, significava probabilmente, l'abbiamo già detto, definire, isolare e conoscere le forze che agiscono nella società per effetto della natura e del comportamento variabile degli uomini e porre i risultati delle sue ricerche al servizio del miglioramento dell'uomo e della sua società. Proudhon vide come il socialismo presto trasmigrasse dall'esaltazione dell'individualità e della società, all'esaltazione della funzione e del ruolo dello Stato. Comprese allora che questo processo avrebbe portato, ovunque fosse stato realizzato, al comunismo, cioè alla miseria, alla povertà ed alla tirannia statalista, che è la peggiore di qualsiasi tirannia.

Le sue origini modestissime, gli fecero presto comprendere quanto ingiusta fosse la miseria soprattutto per i fanciulli innocenti che come lui, senza colpa, dovevano subirla. Ancora ragazzo si chiese dove dovesse ricercarsi la causa che genera la povertà. Già in una delle sue prime opere, De la célébration du Dimanche, si propose di: "...trovare uno stato di eguaglianza che non sia né comunismo, né dispotismo, né dispersione, né anarchia ma libertà nell'ordine, ed indipendenza nell'unità."

Pur dichiarandosi socialista, non nascose mai a se stesso l'impotenza nella pratica di questa concezione politica, a causa soprattutto dell'altalenante velleitarismo riformista e della sua incoerenza pratica; ossia delle debolezze eterne del socialismo. Egli forse si definiva socialista perché aveva una concezione spirituale della società in cui, in contrasto col suo ateismo, cercava " un' ipotesi d' un Dio" senza la quale gli era "impossibile andare innanzi ed essere capito." " Se io seguo, attraverso le sue trasformazioni successive l'idea di Dio, trovo che questa idea è innanzitutto sociale; intendo dire che essa è piuttosto un atto di fede nel pensiero collettivo che un concetto individuale."

E' probabile che nel suo pensiero, dalla società emergesse un principio superiore dotato di forza e di una ragione segreta, quasi un Essere che lui non riusciva ad identificare nel Dio delle religioni e della storia. Gli uomini, sosteneva, non possono ingabbiare il destino di quell'Essere in un dogma, poiché si riassume nell'imprevedibilità del divenire, nell'imperscrutabilità dei disegni della natura, che si realizzano nella società umana con la continua ricerca di equilibrio fra le forze che in essa devono operare e che scontrandosi continuamente, generano conflitti, contrasti, lotte, ribellioni e rivoluzioni di ogni genere.

Egli considerò fondamentali due princìpi connessi opposti ed irriducibili su cui riposa ogni ordine politico: Autorità e Libertà. Considerò la Legge come "statuto arbitrale della volontà umana" (Della giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa vol.8), ed in essa indicò la forza in grado di mantenere in equilibrio i due princìpi. Si rese conto come da questa concezione derivasse la teoria del contratto, del patto, ossia della federazione, e come solo esso potesse eliminare la finzione della ragion di Stato e rendere docile il potere. Egli vide la Legge come espressione di quattro diverse concezioni. Secondo la Chiesa la Legge ed il potere discendono da Dio; per il comunismo nascono dalla proprietà; gli Stati sovrani postulano a loro giustificazione il bisogno di un qualsiasi ordine sociale, mentre per il federalismo, finalmente, il potere dello Stato non può derivare dalle finzioni, ma dalla somma delle volontà concrete e reali degli individui.

Egli comprese allora come il comunismo, eliminando semplicemente la proprietà e sostituendola col piano, disegnava una società in cui tutto è semplice e prevedibile. Il Dio del comunismo è il dogma, guai ad allontanarsene, guai a tradirlo, guai a contraddirlo. In esso tutto é facile da capire e da condividere, le soluzioni ai problemi che emergono nella vita della società risultano incredibilmente semplici e comprensibili: soddisfano l'innato bisogno di uguaglianza e di giustizia ed aboliscono tutti mali dell'uomo attraverso la dittatura del piano e la dittatura di una classe. La semplicità del comunismo, fu certamente la causa dei suoi successi e dei grandi entusiasmi che seppe suscitare nelle masse; ma i suoi princìpi rispondevano piuttosto al bisogno violento dell'anima collettiva di emergere dalla barbarie della grande disuguaglianza e della povertà, piuttosto che da una osservazione esauriente degli infiniti e complessi fenomeni che nella società continuamente si generano. Il tentativo di instaurare una società comunista, come tutti sappiamo, portò nel tempo al fallimento, ma produsse anche un insperato indebolimento sostanziale della fede nelle ideologie che, come il comunismo, presuppongono uno Stato ordinato secondo un dogma in grado di garantire un qualsiasi ordine sociale. Capì come gli Stati ideologici per affermare l'ordine sociale ipotizzato, abbiano sempre bisogno dell'accentramento del potere, e come sempre questo genera una smisurata burocrazia tirannica e violentatrice della libertà dei cittadini. Da ciò deriva per il popolo schiavitù e regresso, corruzione e degrado dell'ordine sociale, oppure violenza e guerra.

I socialisti italiani, che per primi avrebbero dovuto seguire il pensiero di Proudhon, non sono mai stati capaci di valutare con chiarezza il suo pensiero politico e si sono sempre vestiti con abiti comunisteggianti, che egli non avrebbe mai accettato né condiviso. " Per lui ( per il socialismo, scriveva Proudhon ) l'economia politica, considerata da molti come la fisiologia della ricchezza, non è altro che la pratica organizzata del furto e della miseria; come la giurisprudenza, decorata dai legisti del nome di ragione scritta, non è altro ai suoi occhi, che la compilazione delle rubriche del brigantinaggio legale e ufficiale,- e per dirlo in una sola parola , della proprietà.- Considerate nei loro rapporti queste due pretese scienze, l'economia politica ed il diritto formano, a detta del socialismo, la teoria completa della iniquità e della discordia. Passando poi dalla negazione all'affermazione, il socialismo oppone al principio di proprietà quello di associazione e si vanta di restaurare da cima a fondo l'economia sociale, ossia di costruire un nuovo diritto, una novella politica, istituzioni e costituzioni diametralmente opposte alle forme antiche. Come si vede, la linea di separazione fra il socialismo e l'economia politica è netta e l'ostilità flagrante. L'economia politica inclina alla consacrazione dell'egoismo, il socialismo pencola verso l'apoteosi e la comunanza."

Per lungo tempo i socialisti italiani hanno quasi completamente dimenticato la lezione di Proudhon. Forse questa è la ragione non meno importante dell'incoerenza che li ha portati all'insuccesso politico. Se solo lo avessero preferito a Marx ed alle sue teorie, se avessero diffuso le sue opere ed il suo pensiero, il socialismo sarebbe sempre apparso in tutta la sua profonda diversità dal comunismo, non si sarebbe mai trasformato in statalista e non avrebbe determinato tutti i compromessi e gli accordi con cui attraverso la loro mediazione i catto-comunisti sono stati in grado di isolare e screditare questo grande pensatore.

Provate a chiedere nelle librerie qualche opera di Proudhon, la risposta sarà quasi sempre negativa; andate per le biblioteche a chiedere i suoi libri, forse troverete qualche sua opera in francese, in edizioni vecchie di decine e decine di anni, quelle che sono state tradotte in italiano spesso sono introvabili. Non parliamo poi dell'Università dove fino a poco tempo fa le sue opere erano all'indice e nessuno poteva permettersi di presentare una tesi sul federalismo, mentre infinite erano quelle che trattavano anche gli aspetti più marginali del pensiero di Marx o del comunismo.

Per cambiare bisogna essere disposti ad osare, a rischiare, a volere con tutte le forze il cambiamento. Non esiste né Repubblica né Democrazia senza una corretta informazione. Non è possibile escludere Proudhon dal dibattito sul federalismo. Di fatto il socialismo italiano oltre ad aver emarginato il suo pensiero, non si è curato affatto del suo federalismo che oggi avrebbe potuto consentirgli un autentico rinnovamento politico e culturale.

Pochi socialisti zelanti hanno cercato di salvare Proudhon presentandolo talvolta soprattutto come avversario della libertà di mercato e della proprietà. Proudhon, seppure non privo di ripensamenti anche profondi, era un uomo libero: un pensatore che poneva la libertà personale e collettiva, anche quella di mercato, alla base del progresso e della civiltà. I tentativi di assoldare Proudhon nel campo dei collettivisti liberticidi non sono altro che ciarlataneria politico culturale, opportunismo ideologico e convenienza del momento.

Se la risposta che egli stesso diede al suo libro Che cosa è la proprietà scritto nel 1840, é : "La proprietà é un furto", bisogna precisare che la sua idea della proprietà si riferiva "alla somma degli abusi odiosi" che dalla proprietà possono derivare ed alla violenza che essa è in grado di esercitare sui ceti più deboli, ignoranti ed indifesi. Egli cercava la via per un sistema sociale di uguaglianza assoluta. Capì che una simile opera "...richiederebbe gli sforzi riuniti di venti Montesquieu" e che ".. se non é concesso ad un sol uomo di portarla a termine, uno solo può cominciare l'impresa."

Prima di lui, mille anni prima di Cristo, un popolo credette di trovare la via dell'uguaglianza nella libertà, attraverso un sistema di organizzazione dello Stato passato alla storia come DEMOCRAZIA. Probabilmente per secoli ancora l'uomo cercherà la soluzione che saprà conciliare il bisogno di uguaglianza col bisogno della libertà. Le società moderne, ripongono oggi la fede assoluta nel primato dell'economico sull'umano e restano in genere indifferenti dinanzi alle sofferenze di milioni di creature. Tuttavia costrette dalle loro stesse contraddizioni derivanti dall'indefinito confine della libertà con l'arbitrio, l'abuso, il capriccio, esse saranno costrette a ricercare ordinamenti diversi, in cui il furto derivante dagli eccessi della proprietà, dalla soddisfazione dei capricci, dall'arbitraria interpretazione delle leggi della vita, sia sempre più limitato dall'avvento di una nuova e più vasta coscienza individuale e collettiva. A questo mirava Proudhon con tutte le sue forze. Tale tempo è forse lontano da noi, ma le enormi disuguaglianze fra i popoli, la violenza, la povertà, le guerre, l'ignoranza, la sottile e sempre più evidente asservimento degli Stati al grande capitale, costringeranno gli uomini a questa ricerca, oppure per gran parte del genere umano perdurerà lo stato di miseria e di sofferenza per continuare a permettere quello che Proudhon definiva come l'ingiusto furto di pochi a danno di molti.

A questo egli cercava una soluzione ancora giovane. La trovò molti anni più tardi, ormai ammalato, nei principi del Federalismo che egli intendeva come patto fra uomini basato su un rapporto di cooperazione e di comprensione reciproca per perseguire la giustizia ed il bene comune attraverso la Legge intesa come stato arbitrale della volontà umana: principio di equilibrio fra l'Autorità e la Libertà.

Proprio a causa del suo grande senso dell'uguaglianza e della libertà Proudhon non poteva appartenere ad una Religione che, come l'ideologia, ha la pretesa di affermare l'eterna verità con il suo dogma. Ma il tormento del dubbio, un Dio, un Essere, uno Spirito rimane incessante in lui. I suoi scritti affermano il rifiuto, ma traspare sempre evidente in lui che il cuore ha ragioni che la ragione non conosce (Pascal). Nelle Contraddizioni afferma ad un certo punto: " Si ricorda anche, qualche volta, che se il sentimento della Divinità affievolisce fra gli uomini; se l'ispirazione dall'alto si ritira progressivamente per far posto alle deduzioni dell'esperienza, se vi è scissione sempre più flagrante fra l'uomo e Dio; se questo progresso, forma e condizione della nostra vita, sfugge alle percezioni di una intelligenza infinita, e per conseguenza antistorica; se, per dir tutto, il richiamo alla Provvidenza per parte di un governo è nello stesso una codarda ipocrisia ed una minaccia alla libertà; nulladimeno il consenso universale dei popoli, manifestato con lo stabilimento di tanti diversi culti, e la contraddizione per sempre insolubile che tocca l'umanità nelle sue idee, le sue manifestazioni e le sue tendenze, indicano un rapporto segreto della nostra anima, e per essa dell'intera natura, con l'infinito, rapporto la cui determinazione esprimerebbe nello stesso tempo il senso dell'universo e la ragione della nostra esistenza."

Nel segreto della sua coscienza egli covava una profonda fede nello Spirito di Dio che vedeva emergere dalla società degli uomini come " un Essere fantastico, denso di motivi di stupore e di misteri ". Forse per nessuno come per lui, la spiritualità non era sinonimo di appartenenza ad una religione. Egli fu quindi un credente dello Spirito, mai un uomo religioso. Sempre alla ricerca delle ragioni e delle vie del progresso per favorire l'evoluzione dello Spirito, che vedeva come proiezione della società, dedicò la sua vita e la sua opera geniale alla ricerca delle contraddizioni umane, sociali, politiche ed economiche, la cui ordinata composizione considerava "come condizioni essenziali dell'equilibrio universale". Nel silenzio del suo cuore, egli cercava di capire "....se l'umanità tende a Dio secondo l'antico dogma, oppure se essa stessa diventa Dio".

Come molti, Proudhon aveva cercato il Dio della storia ma non lo aveva trovato, tuttavia il suo cercare lo libera dall'ateismo, che forse la maschera di un potente razionalismo gli imponeva.

Il suo spirito libero e la profondità della sua coscienza, lo condussero a definirsi anarchico. Ma cosa intendeva egli per anarchia? Vale la pena, per chiarezza, ripetere la sua concezione della società formulata ad appena trenta anni in Célébration du Dimanche: " Trovare uno stato di eguaglianza sociale che non sia né comunismo, né dispotismo, né frazionamento, né anarchia, ma libertà nell'ordine ed indipendenza nell'unità." Dice ancora molti anni più tardi nel suo Del principio federativo: " Come variante del regime liberale, ho indicato l'ANARCHIA o governo di ognuno da parte di sè stesso, in inglese self-government. L'espressione di governo anarchico implica una sorta di contraddizione, la cosa sembra impossibile e l'idea assurda. Non c'è qui che da rivedere il termine; la nozione di anarchia, in politica è razionale e positiva come nessun'altra. Essa consiste nel fatto che, una volta ricondotte le funzioni politiche alle funzioni della produzione, l'ordine sociale risulterebbe solo dal fatto delle transazioni e degli scambi. Ognuno allora potrebbe dirsi autocrate di se stesso. Il che è l'estremo opposto dell'assolutismo monarchico. .......... Malgrado il richiamo potente della libertà, né la democrazia né l'anarchia nella pienezza ed integrità della loro idea, si sono realizzate in nessun luogo."

Volendo combattere un principio oppure un'idea, non esiste metodo migliore che denigrare il suo sostenitore, di condannarlo ieri al rogo della carne, oggi a quello delle opere. Così le grandi Chiese dell'umanità degli ultimi due secoli, quella cattolica e quella marxista, applicando alle sue opere una collaudata esperienza di mistificazione e di condanna, hanno confinato Proudhon nell'oscurità. Ma il loro giudizio non è altro che la condanna di sé stesse all'intolleranza, alla discriminazione; alla falsità, all'incomprensione. Accusato di ateismo dalla Chiesa, di liberalismo e di essere un borghese dai comunisti, di comunista dai liberali, Proudhon è passato alla storia come uno dei pensatori più contraddittori della sua epoca. Ma proprio la storia ha poi mostrato che la contraddizione non era nel suo pensiero, ma nella natura stessa delle cose e degli uomini e niente più del comunismo, del socialismo, dello stesso liberalismo oggi tanto di moda, lo hanno dimostrato e lo dimostreranno.

La contraddizione vera è nelle ideologie, nelle religioni, e nelle costruzioni logiche della mente umana, che partendo da un'analisi sempre incompleta e personale della realtà, pur contenendo una parte di verità, hanno la pretesa di possedere la ricetta della felicità universale e della verità eterna; le prime per ciò che è materiale, le seconde per ciò che è spirituale. Le contraddizioni sociali derivano, ancora, dalla concezione indefinita della Libertà, che per certi ha confine nelle leggi della natura, per altri è senza confine e comprende l'arbitrio e l'abuso, per altri ancora è solo capriccio e cieca soddisfazione del proprio egoismo.

Per Proudhon non esiste una ricetta per la felicità universale; come non esisterà per lungo tempo la mente che in un lampo di genio concepirà la struttura di una società in perfetta armonia con le leggi materiali della vita e con le attese dello Spirito. Egli era un osservatore, un profondo analizzatore della società e degli uomini e per di più dotato di una eccezionale intuizione. Comprese che i rapporti sociali ed individuali sono soggetti a continue contraddizioni e possono essere composti nel modo migliore lasciando i cittadini liberi di darsi gli ordinamenti che gli sembrano i più adatti in relazione al variare dei tempi e degli interessi, per perseguire gli scopi materiali e morali in cui credono, e che questo comporta per necessità una forte restrizione dell'azione dello Stato nella società.

Dalla storia prese il termine federazione e lo sviluppò secondo la sua intelligenza, per rendere più comprensibili i princìpi su cui riposa l'ordine politico ed aprire così la strada per una concezione innovativa delle forze che agiscono nella società. Egli vide come infinite contraddizioni continuamente emergono per effetto dell'azione di queste forze, e come queste contraddizioni possano essere composte in un equilibrio duraturo e pacificamente in un regime di libertà e di cooperazione fra gli uomini attraverso il federalismo.

Io sono sicuro che più che il tempo passerà, più renderà giustizia a questo grande dell'umanità.

L'avvenire del mondo, sarà un avvenire di federazioni, di libertà e di cooperazione oppure, parafrasando lui, gli uomini assaporeranno il purgatorio dei prossimi secoli.

Pierre Joseph Proudhon 

DEL PRINCIPIO FEDERATIVO

PREFAZIONE DELL'AUTORE 

Quando qualche mese orsono, a proposito di un articolo sull'Italia nel quale io difendevo la federazione contro il sistema unitario, i giornali belgi mi accusarono di propagandare l'annessione del loro paese alla Francia, la mia sorpresa fu grande. Non sapevo cosa credere: se ad una allucinazione del pubblico oppure ad un tranello della polizia, e la mia prima reazione fu allora di domandare ai miei accusatori se mi avessero letto: in questo caso se fosse serio che mi facessero una simile accusa. Si sa come finì per me questa incredibile disputa. Certo non mi ero affrettato, dopo un esilio di più di quattro anni, ad approfittare dell'amnistia che mi autorizzava a rientrare in Francia; traslocai rapidamente.

Ma quando ritornato in patria ho visto con lo tesso pretesto, la stampa democratica accusarmi di abbandonare la causa della rivoluzione, inveire contro di me, non più all'annessionista ma all'apostata, confesso che la mia sorpresa è arrivata al colmo. Mi sono chiesto se fossi un Epinemide uscito dalla sua caverna dopo un secolo di sonno, o se per caso non fosse la stessa democrazia francese, prendendo esempio dal liberalismo belga, ad aver subito un processo involutivo. Mi appariva chiaro che federazione e contro rivoluzione o annessione fossero termini incompatibili: ma mi ripugnava credere alla defezione in massa del partito al quale fino allora ero stato vicino, e che, non contento di rinnegare i suoi principi, arrivava, nella sua febbre di unificazione, perfino a tradire il suo paese. Ero impazzito, oppure il mondo si era messo a mia insaputa a girare in senso contrario? Come il topo di la Fontaine, sospettando che sotto ci fosse qualche macchinazione, pensai che la scelta più saggia fosse di aggiornare la mia risposta e di osservare per qualche tempo, gli stati d'animo. Sentivo che avrei dovuto prendere una risoluzione energica ed avevo bisogno, prima di agire, di orientarmi su un terreno che, da quando ero uscito dalla Francia mi sembrava esser stato sconvolto, ed in cui gli uomini che avevo conosciuto mi apparivano come figure estranee.

Dov'è oggi il popolo francese, mi chiedevo? Cosa accade nelle differenti classi della società? Quale idea è germogliata nell'opinione pubblica e quali sono le aspirazioni della massa? Dove va la nazione ? Dov'è l'avvenire? Chi seguiremo ed in che cosa crediamo?

Andavo avanti così interrogando uomini e cose, cercando nell'angoscia e raccogliendo solo risposte desolate. Il lettore mi permetta di esprimergli alcune mie considerazioni: serviranno come giustificazione per una pubblicazione il cui tema confesso essere molto al di sopra delle mie forze.

Per prima cosa ho preso in esame la classe media, un tempo anche chiamata borghesia, e che ormai non può più portare questo nome. L'ho trovata fedele alle sue tradizioni alle sue tendenze ai suoi principi benché avanzi con passo celere verso il proletariato. Se la classe media dovesse ritornare padrona di se stessa e del Potere; se dovesse essere chiamata a rifarsi una costituzione secondo le sue idee ed una politica secondo il suo cuore, si potrebbe senza dubbio prevedere cosa accadrebbe. Astraendo da ogni preferenza dinastica, la classe media ritornerà al sistema del 1814 e del 1830, forse con una lieve modifica concernente la prerogativa regia, analoga all'emendamento apportato all'art.. 14 della Carta dopo la rivoluzione di luglio. La monarchia costituzionale, in una parola, ecco qual è ancora la fede politica e la segreta speranza della maggioranza borghese. Ecco la misura della fiducia che essa ha in se stessa; né il suo pensiero, né la sua determinazione vanno oltre. Ma, proprio a causa di questa predilezione per la monarchia, la classe media, nonostante abbia numerose e forti radici nel presente e benché, per l'intelligenza, la ricchezza, il numero, essa costituisca la parte più considerevole della nazione, non può essere considerata come l'espressione dell'avvenire; si rivela come il partito per eccellenza dello statu quo, è lo statu quo personificato.

Ho portato in seguito la mia attenzione sul governo, sul partito di cui è più propriamente l'organo, e, devo dire, li ho trovati in fondo sempre gli stessi, fedeli all'idea napoleonica, malgrado le concessioni che strappano loro, da un lato lo spirito del secolo, dall'altro l'influenza di quella classe media senza la quale e contro la quale non è possibile alcun governo. Che l'Impero sia reso a tutta la sincerità della sua tradizione, che la sua potenza sia pari alla sua volontà, e domani avremo con gli splendori del 1804 e del 1809 le frontiere del 1812; rivedremo il terzo Impero d'Occidente con le sue tendenze all'universalità e la sua autocrazia inflessibile. Ora, è precisamente a causa di questa fedeltà alla sua idea che l'impero, pur essendo l'attualità stessa, non può dirsi l'espressione dell'avvenire, poiché affermandosi come conquistatore ed autocratico, negherebbe la libertà, poiché lui stesso , promettendo un coronamento dell'opera, si è posto come governo di transizione. L'impero è la pace, ha detto Napoleone III . Sia; ma allora l'impero non essendo più la guerra non potrebbe essere lo statu quo?

Ho osservato la Chiesa e gli rendo volentieri giustizia; è immutabile. Fedele al sua dogma, alla sua morale, alla sua disciplina, come al suo Dio, non fa concessioni al secolo se non nella forma; non fa suo lo spirito del tempo e non cammina con lui. La Chiesa sarà l'eternità, se volete, la più alta espressione di statu quo: non è il progresso; né potrebbe essere l'espressione dell'avvenire.

Come la classe media ed i partiti dinastici, come l'Impero e la Chiesa, anche la Democrazia è frutto del presente; lo sarà finché esisteranno delle classi superiori ad essa una monarchia e delle aspirazioni di nobiltà, una Chiesa ed un sacerdozio; fintantoché non sarà compiuto un livellamento politico, economico e sociale.

Dopo la Rivoluzione francese, la democrazia ha scelto il motto: Libertà, Uguaglianza. Poiché per sua natura e funzione essa è il movimento, la vita, la sua parola d'ordine è: Avanti! La democrazia poteva dunque dirsi, e sola può essere l'espressione dell'avvenire; questo è in effetti ciò che il mondo ha creduto dopo la caduta del primo impero e al tempo dell'avvento della classe media. Ma per esprimere l'avvenire, per mantenere le promesse, sono necessari dei principi, un diritto, una scienza, una politica, tutte cose di cui la Rivoluzione sembrava aver posto le basi. Ora, ecco che, cosa inaudita, la Democrazia si mostra infedele a se stessa; ha rotto con le sue origini, mostra la schiena ai suoi destini. Da tre anni la sua condotta è stata una abdicazione, un suicidio. Senza dubbio fa ancora parte del presente: ma come partito dell'avvenire non esiste più. La coscienza democratica è vuota: un pallone sgonfiato, che qualche consorteria, qualche intrigante politico si lancia, ma che nessuno ha il segreto per farla rigonfiare. Ormai non ci sono più idee: al loro posto fantasie romantiche, miti, idoli. L'89 è stato accantonato, il 48 messo alla berlina .Quello che resta non ha più senso politico, né senso morale, né senso comune; è l'ignoranza completa , l'ispirazione dei grandi giorni totalmente perduta. Quello che la posterità non potrà credere, è che fra la moltitudine di lettori che una stampa privilegiata mantiene ce n'è appena uno su mille che sospetti cosa significhi la parola federazione. Senza dubbio, gli annali della Rivoluzione non ci hanno fatto capire grandi cose al riguardo; ma insomma non si può essere il partito dell'avvenire fossilizzandosi nelle passioni di un'altra epoca; il vero compito della Democrazia è di produrre le sue idee, di modificare per conseguenza la propria parola d'ordine. La Federazione è la parola nuova sotto la quale la Libertà, l'Uguaglianza, la Rivoluzione, con tutte le sue conseguenze, sono apparse nell'anno 1859 alla Democrazia. I liberali ed i democratici, vi hanno visto altro che un complotto reazionario !

Dopo l'istituzione del suffragio universale, la Democrazia, considerando che era venuto il suo regno, che il proprio governo aveva superato le prove, che non c'era altro da discutere che la scelta degli uomini, e che essa si riteneva la forma suprema dell'ordine, ha voluto infine costituirsi a sua volta come partito dello statu quo. Lungi dall'essere padrona degli affari, già si accomoda per l'immobilismo. Che fare dunque quando ci si considera Democrazia, si rappresenta la Rivoluzione e si è arrivati all'immobilismo? La Democrazia ha ritenuto che la sua missione fosse quella di riparare le antiche ingiustizie, di risollevare le nazioni oppresse, in una parola , di rifare la storia! E' ciò che essa esprime col termine Nazionalità, scritto come intestazione del suo nuovo programma. Non contenta di farsi partito dello statu quo, si è fatta partito reazionario. E siccome la Nazionalità, nel senso in cui la comprende e l'interpreta la Democrazia, ha per corollario l' Unità , essa ha messo il sigillo alla sua abiura, dichiarandosi definitivamente potere assoluto, indivisibile ed immutabile.

La Nazionalità e l'Unità , ecco cos'è al giorno d'oggi la fede, la legge, la ragion di Stato, ecco quali sono gli Dei della Democrazia. Ma la Nazionalità per essa non è che una parola, perché nel pensiero dei democratici essa non rappresenta che un'utopia. Quanto all' Unità, vedremo nel corso di questo scritto, ciò che bisogna pensare del regime unitario. Ma posso dire nel frattempo, a proposito dell' Italia, e dei rimaneggiamenti a cui è soggetta la carta politica di questo paese, che questa unità che ha suscitato un cosi vivo entusiasmo dei cosiddetti amici del popolo e del progresso, non è altro nel pensiero dei furbi, che un affare, un grosso affare, mezzo dinastico e mezzo bancocratico, verniciato di liberalismo, ammantato di cospirazione ed al quale onesti repubblicani male informati o ingannati, servono da chaperon.

Tale Democrazia, tale giornalismo. Dall'epoca in cui condannavo nel Manuale dello speculatore di borsa, il ruolo mercenario della stampa, nulla è cambiato; essa non ha fatto che allargare il giro dei suoi affari. Tutto ciò che un tempo essa possedeva di ragione, di spirito, di critica, di conoscenza, di eloquenza, si è ridotto, salvo rare eccezioni, a queste due parole che ho preso in prestito dal gergo del mestiere: DIFFAMAZIONE e Pubblicità. Essendo stata affidata ai giornali la questione italiana, né più né meno si trattasse di una società in accomandita, questi stimati pezzi di carta, come una claque che obbedisce al segnale del capo, hanno cominciato a trattarmi da mistificatore, da giullare, da borbonico, da papalino, da Erostrato da rinnegato, da venduto: abbrevio la litania. Dopo assumendo un tono più calmo, si sono messi a ricordare che io ero stato l'irriducibile nemico dell' Impero e di ogni governo, della Chiesa e di ogni religione, come di tutta la morale: un materialista, un anarchico, un ateo, una sorta di Catilina letterario che sacrifica tutto, pudore e buonsenso, alla smania di far parlare di se, e la cui tattica ormai scoperta consisteva nell'associare subdolamente la causa dell' Imperatore a quella del Papa, spingendoli entrambi contro la democrazia, al fine di screditare gli uni mediante gli altri, tutti i partiti e tutte le opinioni, e di elevare un monumento al mio orgoglio sulle rovine dell'ordine sociale. Tale è stato il senso delle critiche di fondo del Siècle, dell' Opinion nationale, di La presse, di l'Echo de la Presse, di la Patrie, del Pays, dei Débats: alcuni li ometto, perchè non li ho letti tutti. Si è ricordato, in questa occasione, che io ero stato la principale causa della caduta della repubblica; e si sono trovati dei democratici assai rammolliti di cervello per dirmi all'orecchio che un simile scandalo non si sarebbe ripetuto, che la democrazia era reduce dalle follie del 1848, e che il primo a cui essa destinava le sue balle conservatrici, ero io.

Non vorrei affatto attribuire a delle violenze ridicole, degne dei fogli che le ispirano, più importanza di quanta ne meritino; le cito come esempio dell'influenza del giornalismo contemporaneo e come testimonianza dello stato degli animi. Ma se il mio amor proprio d'individuo se la mia coscienza di cittadino sono al di sopra di simili attacchi, la stessa cosa non è per la mia dignità di scrittore interprete della Rivoluzione. Ne ho abbastanza degli oltraggi di una democrazia decrepita e dei soprusi dei suoi giornali. Dopo il 10 dicembre 1848, vedendo la maggior parte del paese e tutta la potenza dello Stato rivolti contro ciò che mi sembrava essere la Rivoluzione, tentai di avvicinarmi ad un partito che, sebbene sprovvisto di idee valeva ancora per il numero. Questo fu uno sbaglio, che ho amaramente rimpianto, ma da cui sono ancora in tempo a tornare indietro. Dobbiamo essere noi stessi, se vogliamo essere qualcosa: formiamo, se è il caso, con i nostri avversari ed i nostri rivali delle federazioni, mai delle fusioni. Quel che mi sta accadendo da tre mesi, mi ha fatto decidere, irreversibilmente. Fra un partito caduto nel romanticismo che in una filosofia del diritto ha saputo scoprire un sistema di tirannia, e nelle manovre della speculazione una forma di progresso; per il quale i sistemi dell'assolutismo sono virtù repubblicana e le prerogative della libertà sinonimo di rivolta; fra quel partito, io dico, e l'uomo che cerca la verità della Rivoluzione e la sua giustizia, non vi può essere niente in comune. La separazione è necessaria, e, senza risentimento né timore, io la compio.

Durante la prima rivoluzione, i giacobini, avvertendo di volta in volta il bisogno di ritemprare la società, effettuavano su loro stessi quello che allora si chiamava epurazione. E' ad una prova di questo genere che io invito quello che resta degli amici sinceri ed illuminati dalle idee dell'89. Sicuro dell'appoggio di una élite, potendo contare sul buonsenso delle masse, io rompo da parte mia, con una fazione che non rappresenta più niente. Dovessimo essere non più di un centinaio, questo è abbastanza per ciò che oso incominciare. In ogni tempo la verità ha servito i propri persecutori; ma anche se dovessi cadere vittima di quelli che sono deciso a combattere, avrei almeno la consolazione di pensare che una volta spenta la mia voce, il mio pensiero otterrà giustizia e che prima o poi i miei nemici saranno i miei apologeti.

Ma che cosa dico? non ci sarà né processo né esecuzione: il giudizio del pubblico mi ha già scagionato. Non era forse corsa la voce, riportata da molti giornali, che la risposta che pubblico in questo momento avrebbe avuto per titolo: gli Iscarioti? ... Niente è valido quanto la giustizia della pubblica opinione. Ahimè! A torto darei al mio opuscolo questo titolo cruento, anche se troppo meritato per qualcuno. Dopo due mesi che esamino gli stati d'animo, mi sono reso conto che se la democrazia brulica di Giuda, vi si trovano ancor più S.Pietro ed io scrivo per questi almeno quanto per quelli. Ho dunque rinunciato alla gioia d'una vendetta; mi riterrò molto fortunato se come il gallo della Passione, potrò far rientrare in se tanti deboli di coraggio, e restituir loro con la coscienza l'intelligenza.

Poiché in una pubblicazione la cui forma era piuttosto letteraria che didattica, si è cercato di non cogliere il pensiero che ne costituiva lo spirito, sono costretto a ritornare ai procedimenti della scuola e di argomentare secondo le regole. Divido dunque questo lavoro, molto più lungo di quanto avessi voluto, in tre parti: la prima, la più importante per i miei ex correligionari politici, la cui ragione sta soffrendo, avrà per scopo quello di enunciare i principi della materia; - nella seconda applicherò questi principi alla questione italiana ed allo stato generale degli affari , dimostrando la follia e l'immoralità della politica unitaria; - nella terza, risponderò alle obbiezioni di quei Signori giornalisti, benevoli o ostili, che hanno creduto doversi occupare del mio ultimo lavoro, e farò vedere, per mezzo del loro esempio, il rischio che corre la ragione delle masse, sotto l' influenza di una teoria distruttrice di ogni individualità.

Prego le persone, di qualsiasi opinione esse siano, che, pur non condividendo la sostanza delle mie idee, hanno accolto le mie prime osservazioni sull'Italia con qualche attenzione, di accordarmi ancora la loro simpatia. Non spetterà a me, nel caos intellettuale e morale nel quale siamo sprofondati, in quest'ora in cui i partiti si distinguono, come i cavalieri che combattono nei tornei, solo per il colore dei loro nastri, che gli uomini di buona volontà, giunti da ogni punto dell'orizzonte, trovino finalmente una terra consacrata sulla quale possano almeno tendersi una mano leale e parlare un linguaggio comune. Questa terra è quella del diritto, della morale, della libertà e del rispetto per l'umanità in tutte le sue manifestazioni, individuo famiglia, associazione, Stato; terra della giustizia pura e franca in cui fraternizzino senza distinzione di partiti, di scuole, di culti, di rimpianti, di speranze, tutte le anime generose. Quanto a quella frazione malandata della democrazia, che ha creduto di diffamarmi con ciò che essa definisce gli applausi della stampa legittimista, clericale e imperiale, non le dirò per il momento che una parola; cioè che l'infamia se infamia c'è è tutta sua. Stava ad essa applaudirmi: il più grande servizio che potrò renderle sarà di averglielo dimostrato.

CAPITOLO I

DUALISMO POLITICO. - AUTORITA' E LIBERTA': OPPOSIZIONE E CONNESSIONE DI QUESTE DUE NOZIONI

Prima di dire cosa si intende per federazione conviene ricordare in qualche pagina, l'origine e la filiazione dell'idea. La teoria del sistema federativo è del tutto nuova: credo di poter dire che non è ancora stata formulata da nessuno. Ma essa è intimamente legata alla teoria generale dei governi, diciamo più precisamente, ne è la conclusione necessaria.

Fra tante costituzioni che la filosofia propone e che la storia mette alla prova, una sola riunisce le condizioni di giustizia, di ordine, di libertà e di durata senza le quali la società e l'individuo non possono vivere. La verità è una come la natura: sarebbe strano che fosse diversamente per lo spirito e per la sua opera più grandiosa, la società. Tutti i pubblicisti hanno ammesso questa unità della legislazione umana e, senza negare la varietà delle applicazione che la differenza dei tempi e dei luoghi e lo spirito proprio che ogni nazione reclamano; senza disconoscere il ruolo che spetta alla libertà in tutti i sistemi politici, tutti si sono sforzati di conformarvi le loro dottrine. Io cerco di dimostrare che questo tipo di costituzione unica, che alla fine sarà riconosciuta come la più grande conquista della ragione dei popoli, non è altro che il sistema federativo. Ogni forma di governo che si allontana da essa, deve essere considerata come una creazione empirica, un abbozzo provvisorio, più o meno comodo, sotto la quale la società trova riparo un istante e che, come la tenda dell'Arabo, si leva la mattina dopo averla montata la sera. E' dunque qui indispensabile una analisi severa, e la prima verità importante che il lettore deve conquistare da questa lettura, è la convinzione che la politica, variabile all' infinito come arte di applicazione, è, quanto ai principi che la reggono, una scienza dimostrativa esatta né più né meno che la geometria e l'algebra.

L'ordine politico riposa fondamentalmente su due principi contrari, l'AUTORITA', e la libertà: il primo iniziatore, il secondo determinatore; avente questo per corollario la ragione libera, quello la fede che induce all'obbedienza.

Penso che contro questa prima proposta, non possa alzarsi alcuna voce. L'Autorità e la Libertà sono tanto antiche nel mondo quanto la razza umana: esse nascono con noi, e si perpetuano in ciascuno di noi. Osserviamo solamente una cosa, alla quale pochi lettori presterebbero essi stessi attenzione: questi due principi formano, per così dire una coppia di cui i due termini, indissolubilmente legati l'uno all'altro, sono nondimeno irriducibili l'uno contro l'altro e restano, qualunque cosa noi facciamo, in lotta perpetua. L'Autorità suppone inconfutabilmente una libertà che la riconosca o che la neghi; la Libertà a sua volta, nel senso politico della parola, suppone un'autorità che tratti con essa, frenandola o tollerandola. Sopprimetene l'una, l'altra non avrà più senso: l'autorità senza una libertà che discuta, resista o si sottometta è una parola vana; la libertà senza una autorità che gli faccia da contrappeso è un non-senso.

Il principio di autorità, principio familiare, patriarcale, magistrale, monarchico, teocratico, tendente alla gerarchia, alla centralizzazione, all'assorbimento, è dato dalla natura, dunque essenzialmente fatale o divino, come si preferisce. La sua azione, combattuta, impedita dal principio contrario, può estendersi indefinitamente , ma senza mai poter scomparire.

Il principio di libertà, personale, individualista, critico; fattore di divisione, di elezione, di transazione, è dato dallo spirito. Principio essenzialmente arbitrale di conseguenza superiore alla natura di cui si serve, alla fatalità che domina; illimitato nelle sue aspirazioni; suscettibile come il suo contrario, di estensione e di riduzione, ma incapace quanto esso di esaurirsi per il suo sviluppo, come di estinguersi per costrizione.

Ne consegue che in ogni società, anche la più autoritaria, una parte è necessariamente riservata alla libertà; parimenti in ogni società, anche la più liberale, una parte è destinata all'autorità. Questa condizione è assoluta; nessun sistema politico può sottrarsi ad essa. A dispetto della ragione il cui sforzo tende incessantemente a risolvere la diversità nell'unità, i due principi rimangono a confronto e sempre in opposizione. Dalla loro tendenza contraria ed inevitabile e dalle loro reciproche reazioni, risulta la dinamica della politica.

Tutto questo, lo confesso, non è forse molto nuovo, e più di un lettore si chiederà se questo è tutto ciò che io ho da fargli capire. Nessuno nega i concetti di natura e di spirito per quanto oscuri possano apparire; nessun pubblicista si sogna di smentire, contro l'autorità o la libertà, benché la loro conciliazione o la loro eliminazione, sembrino ugualmente impossibili. Dove dunque mi propongo di arrivare ripetendo questo luogo comune?

Lo dirò subito: che tutte le costituzioni politiche, tutti i sistemi di governo, compresa la federazione, possono ricondursi a questa formula, l'Equilibrio dell'Autorità per mezzo della Libertà e vice versa; è in conseguenza di questo che le categorie adottate dopo Aristotele dalla moltitudine degli autori e grazie ai quali i tipi di governo si classificano, gli Stati si differenziano, le nazioni si distinguono, monarchia, aristocrazia, democrazia, ecc., eccetto la federazione, si riducono a delle costruzioni ipotetiche, empiriche, dalle quali la ragione e la giustizia non ottengono che una soddisfazione imperfetta; è che tutti questi sistemi, fondati sugli stessi dati incompleti, diversi solo per gli interessi, i pregiudizi, le consuetudini, in fondo si assomigliano e si equivalgono; che quindi, se non fosse per il disagio causato dall'applicazione di questi falsi sistemi, e per le passioni esasperate, gli interessi disconosciuti, le aspettative deluse, che spingono ad accusarsi gli uni con gli altri, saremmo, alla fine molto vicini a comprenderci; perché infine tutte queste divisioni di partiti fra i quali la nostra immaginazione scava degli abissi, tutte quelle diversità di opinioni che ci sembrano inconciliabili, tutti questi antagonismi fortuiti che ci appaiono senza rimedio, troveranno finalmente il loro equilibrio definitivo nella teoria del governo federale.

Quante cose, direte voi, in una contrapposizione grammaticale: AUTORITA'-Libertà!....- Ebbene! si. Ho osservato che le intelligenze comuni, che i bambini colgono meglio la verità ricondotta ad una formula astratta, più che dalla pesantezza di un volume di dissertazioni e di fatti. Ho voluto comunque abbreviare questo lavoro per quelli che non possono dedicarsi troppo alla lettura, e renderlo più incisivo lavorando su delle semplici nozioni. AUTORITA'-Libertà, due idee opposte una all'altra, condannate a vivere in eterna lotta o a perire insieme: ecco, ciò certamente non è difficile da comprendere. Abbiate soltanto la pazienza di leggermi, amici lettori, e se avete compreso questo capitolo molto corto, mi direte in seguito le vostre impressioni.

CAPITOLO II

CONCETTI A PRIORI SUGLI ORDINAMENTI POLITICI : REGIME DI AUTORITA' e REGIME DI LIBERTA'

Conosciamo i due principi fondamentali ed antitetici di ogni governo: autorità , libertà.

In virtù della tendenza dello spirito umano a ricondurre tutte le idee ad un unico principio, e per conseguenza ad eliminare quelle che gli sembrano inconciliabili con questo principio, si possono dedurre, a priori, due regimi differenti da queste due nozioni primordiali, a secondo della preferenza o della priorità accordata all'una o all'altra: il regime di Autorità ed il regime di Libertà.

Inoltre, essendo la società composta da individui, e potendo concepire il rapporto dell'individuo col gruppo, dal punto di vista politico, in quattro modi differenti, ne risultano quattro forme di governo, due per ogni regime:

I. Regime di Autorità.

A) Governo di tutti da parte di uno; MONARCHIA O PATRIARCATO

a) Governo di tutti da parte di tutti; Comunismo o Panarchia.

Carattere essenziale di questo regime nelle sue due specie è L' INDIVISIONE del potere.

II. Regime di Libertà.

B) Governo di tutti da parte di ognuno; - DEMOCRAZIA;

b) Governo di ognuno da parte di ognuno; - Anarchia o Autogoverno.

Carattere essenziale di questo regime, nelle due specie, è la DIVISIONE DEL POTERE.

Niente di più, niente di meno. Questa classificazione data a priori dalla natura delle cose e razionalmente deducibile, è matematica. Finché la politica sarà considerata come il risultato di una costruzione sillogistica, come naturalmente la ritengono i vecchi legislatori, non può restare di qua, né andare di là. Questo semplicismo è degno di nota: ci mostra fin dalle origini e sotto tutti i regimi, come il potere dello Stato si sia sforzato di dedurre le sue costituzioni da un solo elemento. La logica e la buona fede sono primordiali in politica; qui è precisamente la trappola.

Osservazioni. - I° Noi sappiamo come si configura il governo monarchico, espressione primitiva del principio di autorità. De Bonald ce l'ha detto: è a causa dell'autorità paterna. La famiglia è l'embrione della monarchia. I primi Stati, furono generalmente delle famiglie o tribù governate dal loro capo naturale, marito, padre, patriarca, ed alla fine re.

Sotto questo regime lo sviluppo dello Stato si realizza in due modi: 1° con la generazione o la moltiplicazione naturale della famiglia, tribù o razza; 2° con l'adozione cioè con l'incorporazione volontaria o forzata delle famiglie e tribù vicine, ma in modo tale che le tribù riunite facciano con la tribù madre, una sola famiglia, una stessa casata. Questo sviluppo dello Stato monarchico può raggiungere delle dimensioni immense, che vanno fino a centinaia di milioni di uomini, sparsi per centinaia di miglia quadrate.

La panarchia, pantocrazia o comunismo, sorge naturalmente con la morte del monarca o capo della famiglia, con la dichiarazione dei sudditi, fratelli, figli, o associati, di voler rimanere indivisi, senza eleggere un nuovo capo. Questa forma politica è rara, tanto che non ci sono esempi, essendo in essa l'autorità più pesante e l'individualità più oppressa che sotto qualsiasi altra. Essa è stata adottata quasi esclusivamente da associazioni religiose, che in tutti i paesi e sotto tutti i culti, hanno teso all'annientamento della libertà. Ciò non di meno l'idea è posta a priori, come l'idea della monarchia; essa potrà trovare la sua applicazione nei governi di fatto ed è per questo che noi dobbiamo menzionarla almeno per memoria.

Così la monarchia, sorta dalla natura, giustificata per conseguenza nella sua idea, ha una sua legittimità ed una sua moralità: e lo stesso accade per il comunismo. Ma vedremo presto come queste due varietà dello stesso regime non possano, malgrado si fondino su dati concreti e deduzioni ragionevoli, mantenersi nel rigore dei loro principi e nella purezza della loro essenza, e come esse siano condannate a rimanere sempre nello stato di ipotesi. Infatti malgrado la loro origine patriarcale, il loro temperamento pacifico, l'attrattiva di assolutismo e di diritto divino, la monarchia ed il comunismo, conservando nel loro sviluppo la sincerità della loro origine, non si sono realizzati in nessun luogo.

II. Come si pone a sua volta il governo democratico, espressione spontanea del principio di libertà? Jean-Jacques Rousseau e la Rivoluzione ce l'hanno insegnato in base alla convenzione. Qui la fisiologia non centra niente; lo Stato appare come il prodotto, non più della natura organica, della carne, ma della natura intelligibile che è lo spirito.

Sotto quest'altro regime, lo sviluppo dello Stato ha luogo per accesso o per libera adesione. Nello stesso modo in cui si considera che tutti i cittadini abbiano aderito al contratto, così lo straniero che accede alla cittadinanza, è considerato aderente a sua volta: è a questa condizione che ottiene i diritti e le prerogative di cittadino. Se lo Stato deve sostenere una guerra e diventa conquistatore, il suo principio lo porterà ad accordare alle popolazioni conquistate, gli stessi diritti di cui godono i propri concittadini: è ciò che si chiama isonomia. Tale era presso i Romani, la concessione del diritto di cittadinanza. I giovani stessi, una volta maggiorenni, sono tenuti a giurare il patto; in realtà, non è perché sono figli di cittadini che divengono cittadini a loro volta, come avviene nella monarchia in cui i figli dei sudditi sono sudditi per nascita, o come nelle comunità di Licurgo e di Platone, in cui appartenevano allo Stato: per essere membro di una democrazia, bisogna, indipendentemente dalla qualità di ingenuus, aver scelto il sistema liberale.

La stessa cosa avrà luogo per l'adesione di una famiglia di una città, di una provincia: è sempre la libertà che ne è il principio e ne fornisce le ragioni.

Così, allo sviluppo dello stato autoritario, patriarcale monarchico o comunista, si contrappone lo sviluppo dello stato liberale, contrattuale e democratico. E siccome non ci sono limiti naturali all'estensione della monarchia, cosa che in tutti i tempi e presso tutti i popoli ha suggerito l'idea di una monarchia universale o messianica, non esistono neanche dei limiti naturali all'estensione dello stato democratico, e questo suggerisce ugualmente l'idea di una democrazia o repubblica universale.

Come variante del regime liberale, ho indicato l'ANARCHIA o governo di ognuno da parte di se stesso, in inglese, self-government. Poiché l'espressione di governo anarchico implica una sorta di contraddizione la cosa sembra impossibile e l'idea assurda. Non c'è qui che da rivedere il termine; la nozione di anarchia, in politica, è razionale e positiva come nessun'altra. Essa consiste nel fatto che una volta ricondotte le funzioni politiche alle funzioni della produzione, l'ordine sociale risulterebbe solo dal fatto delle transazioni e degli scambi. Ognuno allora potrebbe dirsi autocrate di se stesso, il che è l'estremo opposto dell'assolutismo monarchico.

Nello stesso modo, del resto, la monarchia ed il comunismo, giusti secondo la natura e la ragione, hanno la loro legittimità e la loro etica senza che mai essi possano realizzarsi nel rigore e nella purezza della loro idea; nello stesso modo la democrazia e l'anarchia fondate sulla libertà e sul diritto, perseguendo un ideale coerente col loro principio, hanno la loro legittimità e la loro moralità. Ma noi vedremo anche che a dispetto della loro origine giuridica e razionale, esse non possono, a causa della crescita e dello sviluppo della popolazione e del territorio, mantenersi nella severità e nella purezza dei loro principi e che sono condannate a rimanere nello stato dei perpetui desiderata. Malgrado il richiamo potente della libertà, né la democrazia né l'anarchia, nella pienezza ed integrità della loro idea, si sono realizzate in alcun luogo.

 CAPITOLO III

FORME DI GOVERNO

E' tuttavia con l'aiuto di questi giochetti metafisici che si sono stabiliti fin dall'inizio del mondo tutti i governi della terra, ed è con questi che giungeremo a chiarire l'enigma politico, per poco che noi vogliamo darcene pena. Che mi si perdoni dunque l'insistenza, come si fa con i ragazzi a cui si insegnino gli elementi della grammatica.

In quel che precede non si troverà una parola che non sia la più perfetta possibile. Non si procede diversamente nella matematica pura. Il nostro errore principale non è nell'uso delle nozioni, bensì nelle esclusioni che, sulla base di pretesti della logica, ci permettiamo di fare nella loro applicazione.

a) Autorità-Libertà; ecco dunque i due poli della politica. La loro posizione antitetica diametrale, contraddittoria, è per noi una garanzia sicura che un terzo termine è impossibile, che non esiste. Fra il si ed il no, come fra l'essere ed il non essere, la logica non ammette niente (a).

b) La connessione di queste stesse nozioni, la loro irriducibilità, la loro dinamica sono ugualmente dimostrate. Esse non procedono l'una senza l'altra; non si può né sopprimere questa o quella, né risolverle in una espressione comune. Quanto alla loro dinamica, basta metterle a confronto affinché, tendendo scambievolmente ad assorbirsi, a svilupparsi l'una a spese dell'altra, entrino subito in azione.

c) Da queste due nozioni risultano per la società due diversi regimi, che noi abbiamo chiamato regime di autorità e regime di libertà; ciascuno dei quali può rivestire in seguito due forme diverse, né più né meno. L'autorità appare in tutta la sua magnificenza solo nella collettività sociale; per conseguenza essa non può esprimersi, agire, che attraverso la collettività stessa, o attraverso un soggetto che la impersonifichi; similmente la libertà non è perfetta fino a che non è garantita a tutti, sia che tutti partecipino al governo, sia che l'incarico non sia stato devoluto a nessuno. Impossibile sfuggire a queste alternative: Governo di tutti da parte di tutti, oppure governo di tutti da parte di uno solo, ecco il regime di autorità; governo con la partecipazione di tutti da parte di ognuno oppure governo di ognuno da parte di se stesso, ecco il regime di libertà. Tutto questo è inevitabile come l'unità e la pluralità, il caldo ed il freddo, la luce e le tenebre. Ma, mi dirà qualcuno, non si è forse visto il governo essere appannaggio di una parte più o meno considerevole della nazione, con l'esclusione del resto: aristocrazia governo delle classi elevate; oclocrazia, governo della plebe, oligarchia governo di una fazione?....L'osservazione è giusta, questo si è visto: ma questi governi sono governi di fatto, frutto di usurpazione, di violenza, di reazione, di transizione, d'empirismo, in cui tutti i principi sono simultaneamente adottati, e poi ugualmente violati, misconosciuti e confusi; e noi stiamo ora considerando i governi a priori, concepiti secondo la logica e su un solo principio.

Niente di arbitrario, ancora una volta, nella politica razionale, che prima o poi non si dovrà distinguere dalla politica pratica. L'arbitrario in realtà non è né un prodotto della natura né dello spirito: non è né la necessità delle cose né la dialettica infallibile delle idee che lo generano. Sapete di chi è figlio l'arbitrario? Il suo nome ve lo dice: del libero ARBITRIO, della Libertà. Cosa meravigliosa! Il solo nemico contro il quale la Libertà deve stare in guardia, non è in fondo l'Autorità, che tutti gli uomini adorano come se fosse la Giustizia; ma è la Libertà stessa, la libertà del principe, la libertà dei grandi, la libertà delle moltitudini, mascherata d'Autorità.

Dalla definizione a priori delle diverse specie di governo, passiamo ora alle loro forme.

Si chiamano forme di governo i modi in cui si distribuisce e si esercita il Potere. Naturalmente e logicamente queste forme sono in rapporto col principio, la formazione e la legge di ogni regime.

Allo stesso modo in cui il padre nella famiglia primitiva, il patriarca nella tribù, è allo stesso tempo padrone della casa, del carro o della tenda, herus , dominus, proprietario del suolo, delle greggi e dei loro prodotti, coltivatore, industriale, amministratore, commerciante, gran sacerdote, guerriero; così è nella monarchia, in cui il principe è contemporaneamente legislatore, amministratore, giudice, generale, pontefice. Egli ha il dominio completo della terra e della rendita; è il capo delle arti e dei mestieri, del commercio, dell'agricoltura, della marina, della pubblica istruzione , è investito di tutto il diritto e di tutta l'autorità. In due parole il re è il rappresentante della società, la sua incarnazione; lo Stato è lui. La concentrazione o indivisione dei poteri è la caratteristica della monarchia. Al principio di autorità che caratterizzava il padre di famiglia ed il monarca, viene a ricongiungersi come corollario il principio dell'universalità delle attribuzioni. Un condottiero come Giosuè; un giudice, come Samuele; un sacerdote, come Aronne: un re, come David; un legislatore, come Mosè, Solone, Licurgo, Numa, tutti questi titoli riuniti nella stessa persona.; tale è lo spirito della monarchia, tali sono le sue forme.

Quanto prima, a causa dell'estensione dello Stato, l'esercizio dell'autorità, eccede le forze di un solo uomo. Il principe allora si fa assistere da dei consiglieri, ufficiali o ministri, scelti da lui e che agiscono per suo conto ed al suo posto, come suoi inviati e procuratori nei confronti del popolo. Come il principe che rappresentano, questi delegati, satrapi, proconsoli o prefetti, cumulano nel loro mandato tutti gli attributi dell'autorità. Ma si intende che devono rendere conto della loro gestione al monarca che è il loro padrone, nell'interesse e nel nome del quale essi governano, da cui ricevono le direttive, e che li fa sorvegliare in modo da assicurarsi sempre l'alto possesso dell'autorità, l'onore del comando, i benefici dello Stato, ed in modo da preservarsi da ogni usurpazione, da ogni sedizione. In quanto alla nazione, essa non ha diritto a chiedere resoconti e gli agenti del principe non sono tenuti a rendergliene. In questo sistema la sola garanzia dei sudditi è nell'interesse del sovrano, che del resto non riconosce altra legge che il suo consenso.

Nel regime comunista le forme di governo sono le stesse, cioè il potere è esercitato in modo indiviso da tutta la collettività sociale, cosi come lo era prima per il solo re. E' come nei campi di maggio dei Germani in cui il popolo intero senza distinzione di età e di sesso, deliberava e giudicava; è così che i Cimbri ed i Teutoni, accompagnati dalle loro donne combattevano contro Mario: non conoscevano niente della strategia e della tattica, che cosa se ne facevano dei generali? E' per un residuo di questo comunismo che in Atene le sentenze per i criminali erano rese dalla massa intera dei cittadini; è per una suggestione dello stesso genere che la Repubblica del 1848 si diede novecento legislatori, dolendosi di non poter riunire nella stessa assemblea i dieci milioni di elettori, che dovette contentarsi di convocare allo scutinio. I progetti di legislazione diretta per il si o per il no, proposti ai nostri giorni, sono usciti di lì.

Le forme di Stato liberale o democratico corrispondono ugualmente al suo principio di formazione ed alla legge che determina lo sviluppo di questo stato; in conseguenza, si differenziano radicalmente da quelle della monarchia. Esse consistono nel fatto che il Potere, invece di essere esercitato collettivamente e congiuntamente come nella comunità primitiva, è ripartito fra cittadini in due modi. Se si tratta di un compito suscettibile di essere materialmente diviso, come la costruzione di una strada, il comando di una flotta, la polizia di una città, l'istruzione della gioventù, si divide il lavoro per sezioni, la flotta per squadre o perfino per navi, la città per quartieri, l'insegnamento per classi; su ciascuna delle quali si stabilisce un imprenditore, un commissario, un ammiraglio, capitano o maestro. Gli Ateniesi avevano l'abitudine, nelle loro guerre, di nominare dieci o dodici generali, dei quali ognuno comandava per un giorno a turno; uso che oggi sembrerebbe molto strano, ma la democrazia ateniese non tollerava niente di più. Se la funzione è indivisibile, si lascia intera oppure si nominano diversi titolari, malgrado il precetto di Omero che dice che la pluralità dei comandanti è una pessima cosa: E' così che là dove noi mandiamo un solo ambasciatore, gli antichi ne spedivano una compagnia;-oppure ci si contenta per ogni funzione di un solo funzionario che ci si dedichi e ne faccia a poco a poco la sua professione, la propria specializzazione : questo tende ad introdurre nel corpo politico una classe particolare di cittadini, conosciuti come pubblici funzionari. A partire da questo momento la democrazia è in pericolo: lo Stato si distacca dalla nazione; il suo personale torna ad essere pressappoco quello che era sotto la monarchia , più devoto al superiore che alla nazione ed allo Stato. In compenso da ciò è scaturita una grande idea, una delle più grandi della scienza, l'idea della divisione o separazione dei Poteri. Grazie a questa idea, la Società prende una forma decisamente organica; le rivoluzioni possono succedersi come le stagioni, c'è in essa qualcosa che non morirà più, è questa bella costituzione del pubblico potere per categorie, Giustizia, Amministrazione, Guerra, Finanze, Culti, Istruzione pubblica, Commercio, ecc.

L'organizzazione del governo liberale o democratico è più complicata, più competente, di una pratica più laboriosa e meno appariscente che quella del governo monarchico: e per conseguenza è meno popolare. Quasi sempre le forme di governo libero sono state accusate di aristocrazia dalle masse, che gli hanno preferito l'assolutismo monarchico. Da questo si genera quella specie di circolo vizioso nel quale si dibattono e si dibatteranno ancora per lungo tempo gli uomini di progresso. Naturalmente è in vista di un miglioramento delle condizioni delle masse, che i repubblicani reclamano delle libertà e delle garanzie; è dunque sul popolo che devono cercare di appoggiarsi. Ora è sempre il popolo che, per diffidenza o indifferenza verso le forme democratiche, ostacola la libertà (b).

Le forme dell'anarchia possono essere indifferentemente, secondo la volontà di ogni individuo, e nel limite dei suoi diritti, quelle della monarchia o della democrazia.

Tali sono nei loro principi e nelle loro forme, i quattro governi elementari, dati a priori dall'intelligenza umana, per servire come materiale per tutte le costruzioni politiche dell'avvenire. Ma, io lo ripeto, questi quattro tipi, benché suggeriti dalla natura delle cose cosi come dal sentimento della libertà e del diritto, per il rigore delle loro leggi, non sono affatto destinate alla realizzazione. Esse sono delle concezioni ideali, delle formule astratte secondo le quali si costituiranno empiricamente e intuitivamente tutti i governi di fatto, ma che esse stesse non saprebbero tradurre in stato di fatto. La realtà è complessa per sua natura, il semplice non può uscire dall'ideale, non arriva al concreto. Noi possediamo in queste formule antitetiche i dati di una costituzione regolare, della costituzione futura dell'umanità; ma bisogna che passino dei secoli, che una serie di rivoluzioni si succeda prima che la formula definitiva si liberi dal cervello che la deve concepire, che è il cervello dell'umanità.

Note:

(a) Il divenire non è, qualunque cosa abbiano detto certi filosofi più mistici che profondi, una posizione di mezzo fra l'essere ed il non essere; il divenire è il movimento dell'essere nella sua vita e nelle sue manifestazioni.

(b) Ciò che importa tenere bene a mente, è che i governi si distinguono per la loro essenza non per il titolo dato al governante. Così l'essenza della monarchia è nell' indivisione dei poteri governativi ed amministrativi, nell'assolutismo del principe, uno o collettivo, e nella sua irresponsabilità. L'essenza della democrazia, al contrario, è nella separazione dei poteri nella distribuzione dei compiti, il controllo e la responsabilità. La corona e la sua stessa ereditarietà non sono qui che degli accessori simbolici. Indubbiamente è per il padre-re, per l'ereditarietà e per la consacrazione, che la monarchia si rende tangibile: ciò che ha fatto credere al volgo che mancando i segni, la cosa non esisteva più. I fondatori della democrazia, nel 93, credettero di aver fatto cosa meravigliosa a tagliare la testa al re, ed intanto decretavano la centralizzazione. Ma è un errore che non deve più ingannare nessuno. Il consiglio dei DIECI a Venezia, era un vero tiranno, e la repubblica un dispotismo atroce. Al contrario, date un principe col titolo di re ad una repubblica come la Svizzera: se la costituzione non cambia, sarà come se aveste messo un cappello di feltro sulla statua di Enrico IV.  

CAPITOLO IV

TRANSAZIONE FRA I PRINCIPI: ORIGINE DELLE CONTRADDIZIONI DELLA POLITICA.

Poiché i due principi sui quali riposa ogni ordine sociale, L'Autorità e la Libertà da un lato sono

contrari l'uno con l'altro, e sempre in lotta, e dall'altro non possono escludersi né annullarsi, è inevitabile una transazione fra di loro. Qualunque sia il sistema preferito, monarchico democratico, comunista o anarchico, l'istituzione non sopravviverà che il tempo per cui avrà saputo appoggiarsi in misura più o meno considerevole sulle caratteristiche del suo antagonista. Per esempio si sbaglierebbe di molto se si immaginasse che il regime di autorità, col suo carattere paternalistico, le sue usanze familiari, la sua iniziativa assoluta, possa far fronte con la sua sola forza, ai suoi bisogni. Se niente meno lo Stato si ingrandisce, questa venerabile paternità, degenererà rapidamente in impotenza, confusione irragionevolezza e tirannia: Il principe è incapace di provvedere a tutto; deve affidarsi a degli intermediari che lo ingannano, lo derubano, lo discreditano, lo svalutano presso l'opinione pubblica, lo soppiantano ed infine lo detronizzano. Questo disordine, inerente al potere assoluto, con la corruzione che ne consegue, e le catastrofi che lo minacciano incessantemente sono la peste della società e degli Stati. Pertanto si può stabilire come regola la considerazione che il governo monarchico è tanto più benevolo, morale, giusto e sopportabile e pertanto durevole, tralascio in questo momento le relazioni esterne, quanto più le sue dimensioni sono modeste e si avvicinano maggiormente al quelle di una famiglia; e viceversa, lo stesso governo sarà tanto più insufficiente, oppressivo. odioso ai suoi sudditi e conseguentemente instabile, quanto più lo Stato sarà diventato vasto. La storia ha conservato il ricordo ed i nostri tempi ci forniscono gli esempi di queste spaventose monarchie, mostri informi, veri mastodonti politici, che una civiltà migliore, dovrà progressivamente far scomparire. In tutti questi Stati l'assolutismo è in ragione diretta della massa dei sudditi e si regge in virtù del proprio prestigio; in un piccolo Stato al contrario, la tirannia non si può sostenere che per mezzo delle truppe mercenarie; altrimenti, visto da vicino si dissolve.

Per ovviare a questo vizio della loro natura, i governi monarchici sono stati costretti a concedere, in misura più o meno ampia, le forme della libertà, in particolare la separazione dei poteri o la divisione della sovranità.

La ragione di questa modifica è facile da capire. Se un solo uomo è appena sufficiente a coltivare con difficoltà un fondo di cento ettari, per condurre una manifattura che occupa alcune centinaia di operai, per provvedere all'amministrazione di un comune di cinque-seimila abitanti, come potrebbe sopportare il peso di un impero di quaranta milioni di uomini? Ecco dunque che la monarchia ha dovuto inchinarsi a questo duplice principio, improntato ai concetti dell'economia politica: 1° la maggior quantità di lavoro è svolto e il maggior valore è prodotto quando il lavoratore è libero e può agire per suo conto come imprenditore o proprietario; 2° la qualità del prodotto o servizio prestato è tanto migliore quanto più il produttore conosce il suo mestiere e vi si consacra esclusivamente. C'è ancora una ragione che spiega questo prestito fatto dalla monarchia alla democrazia, ed è che la ricchezza sociale aumenta proporzionalmente alla divisione delle attività ed alla organizzazione delle industrie, e questo significa, in politica, che il governo sarà tanto migliore ed offrirà maggiore sicurezza per il principe, se le funzioni saranno meglio distinte ed equilibrate: cosa questa impossibile nel regime assoluto. Ecco come i principi sono stati indotti a repubblicanizzarsi, per così dire, da se stessi, allo scopo di sfuggire ad una inevitabile rovina; gli ultimi anni ci hanno offerto esempi clamorosi, in Piemonte, in Austria ed in Russia. Nella situazione deplorevole in cui lo zar Nicola aveva lasciato il suo impero, non è di scarso rilievo, tra le riforme adottate da suo figlio Alessandro (a), l'introduzione della distinzione dei poteri nel governo russo.

Fatti analoghi ma inversi si osservano nel governo democratico.

Si possono ben stabilire con tutta la sagacità e la precisione possibile, i diritti ed i doveri dei cittadini, le competenze dei funzionari, prevedere le situazioni, le eccezioni, le anomalie: la fecondità dell'imprevisto supera di molto la prudenza dell'uomo di Stato, e più si legifera, più nascono i contrasti. Tutto questo esige, da parte dei rappresentanti del potere, una facoltà di iniziativa e di arbitraggio, che, per farsi valere, non hanno che un modo, quello di costituirsi come autorità. Togliete al principio democratico, togliete alla libertà questa suprema sanzione, l'autorità, e lo Stato si disgregherà all'istante. E' chiaro tuttavia che in tal caso non ci troviamo più nel libero contratto, a meno che non si sostenga che i cittadini sono d'accordo, in caso di controversia, di accettare la decisione di uno di loro designato precedentemente, e cioè di un giudice: ciò che significa esattamente rinunciare al principio democratico e adottare quello monarchico.

La democrazia può moltiplicare tanto quanto vuole con i funzionari, le garanzie legali ed i mezzi di controllo, può subissare i suoi agenti di formalità, chiamare senza posa i cittadini alle elezioni, al voto: per amore o per forza i suoi funzionari sono uomini d'autorità, la parola è recepita; e se fra il personale dei pubblici funzionari se ne trova uno o più di uno incaricato della direzione generale degli affari, questo capo, individuale o collettivo, del governo è ciò che anche Rousseau ha chiamato principe, per un nulla sarà re.

Si possono fare osservazioni analoghe sul comunismo e sull'anarchia. Non si sono mai avuti esempi di una comunità perfetta; ed è poco probabile, qualunque sia il grado di civiltà, di moralità, di saggezza che raggiunga il genere umano, che ogni traccia di governo ed autorità scompaiano. Ma mentre la comunità rimane il sogno della maggioranza dei socialisti, l'anarchia è l'ideale della scuola liberista, che tende soprattutto a sopprimere ogni tipo di governo ed a costituire la società sulle sole basi della proprietà e del lavoro libero.

Non farò altri esempi. Ciò che ho detto è sufficiente a dimostrare la validità della mia tesi, cioè che la monarchia e la democrazia, il comunismo e l'anarchia, non potendo realizzarsi nella purezza del loro ideale, sono costretti a completarsi l'uno con l'altro per mezzo di concessioni reciproche.

Certamente, c'è di che umiliare l'intolleranza dei fanatici che non possono sentir parlare di un'opinione contraria alla loro senza provare una sorta di sdegno. Che apprendano dunque, gli infelici, che proprio essi stessi sono necessariamente infedeli ai loro principi che la loro fede politica è tessuta di incoerenze ed auguriamoci che anche il potere possa a sua volta giungere a non attribuire a chi discute dei differenti sistemi di governo, alcuna intenzione faziosa. Convincendosi una buona volta che questi termini di monarchia, democrazia, ecc., non esprimono che delle concezioni teoriche, molto lontane dalle istituzioni che sembrano tradurle, il monarchico alle parole del contratto sociale, di sovranità del popolo, di suffragio universale, ecc., resterà calmo; il democratico, sentendo parlare di dinastia, di potere assoluto, di diritto divino, conserverà sorridendo il suo sangue freddo. Non c'è nessuna vera monarchia, non esiste nessuna vera democrazia. La monarchia è la forma primitiva, fisiologica, e per così dire patronimica dello Stato; essa vive nel cuore delle masse e si realizza sotto i nostri occhi con forza, per mezzo della generale tendenza all'unità. La democrazia a sua volta germoglia da ogni parte; affascina le anime generose e conquista dovunque le élite della società. Ma è per la dignità della nostra epoca che si deve rinunciare alla fine a queste illusioni, che troppo spesso degenerano in menzogne. La contraddizione è nella sostanza di tutti i programmi. I tribuni popolari senza rendersene conto si affidano alla monarchia; i re alla democrazia e all'anarchia. Dopo l'incoronazione di Napoleone I° , la formula Repubblica francese, si lesse a lungo su una delle due facce delle monete, che portavano dall'altra, con l'effige di Napoleone, il titolo Imperatore dei Francesi. Nel 1830, la monarchia di Luigi Filippo, fu designata da La Fayette come la migliore delle repubbliche; ed egli non è forse stato soprannominato il re dei proprietari? Allo stesso modo Garibaldi ha reso a Vittorio Emanuele lo stesso servizio di La Fayette a Luigi Filippo. Più tardi è vero, La Fayette e Garibaldi, sono apparsi pentiti; ma il loro giudizio iniziale deve essere accettato, tanto più che come tutte le ritrattazioni sarebbe illusoria. Nessun democratico può dirsi del tutto immune da ogni atteggiamento monarchico; nessun partigiano della monarchia può ritenere di essere del tutto esente da ogni atteggiamento repubblicano. Resta assodato che la democrazia, non avendo mai saputo ripugnare l'idea dinastica non più che l'idea unitaria, i fautori dei due sistemi non hanno il diritto di scomunicarsi a vicenda; e la tolleranza reciproca si impone loro.

Ora, che cos'è la politica, se è impossibile ad una società costituirsi esclusivamente sul principio che essa preferisce; se qualunque cosa faccia il legislatore, il governo qui ritenuto monarchico, lì democratico, resta pur sempre un composto ambiguo, in cui elementi opposti si mescolano in proporzioni arbitrarie in balia del capriccio e degli interessi; in cui le definizioni più precise conducono fatalmente alla confusione ed alla promiscuità; in cui per conseguenza, tutte le conversioni, tutte le defezioni sono possibili ed il trasformismo passa come virtù? Che campo aperto alla ciarlataneria, all'intrigo, al tradimento! Quale Stato potrebbe sopravvivere in queste condizioni tanto degradanti? Lo Stato non è ancora costituito, che già porta nella contraddizione della sua idea il suo principio di morte. Strana creatura, in cui la logica rimane impotente, mentre l'incoerenza sembra essere la sola pratica razionale.

Note:

(a) E' dalla necessità di separare i poteri e di distribuire l'autorità che nacque, in parte, dopo Carlomagno, la feudalità. Da questo anche quella falsa aria di federalismo che rivestì, per la sfortuna dei popoli e dell' Impero. La Germania, costretta nello Statu quo di una costituzione assurda, risente ancora di quelle lunghe lacerazioni. L'Impero si è frantumato, e la nazionalità è stata compromessa.

(b) Si potrebbe scrivere un'opera interessante sulle Contraddizioni politiche, da abbinare alle Contraddizioni economiche. Ci ho pensato più di una volta; ma scoraggiato dalla cattiva accoglienza della critica, distratto da altri lavori, ho rinunciato. L'impertinenza dei recensori, si sarebbe ancora rallegrata sull' antinomia, la tesi e l' antitesi; lo spirito francese, talvolta così penetrante e così giusto, si sarebbe rivelato nella persona dei signori giornalisti, molto sciocco, molto ridicolo e stolto; la fatuità gallica avrebbe contato un nuovo trionfo, e tutto sarebbe stato detto. Avrei risparmiato ai miei compatrioti una mistificazione, fornendo loro subito la soluzione che avrei dovuto comunque dare, se avessi esposto davanti a loro tutte le difficoltà del problema.