DA WEBER A PARETO v. anche 1 - 2 - 3 (fonte)

Nella Gran Bretagna paleocapitalista le idee di HERBERT SPENCER, che si ispirano al liberismo e fanno muro contro l'ideologia di Marx, conquistano buona fama e le sue opere, specialmente Principi di sociologia, restano per un certo tempo sulla cresta dell'onda. Ma quando, negli anni seguenti il 1870, il Paese imbocca quella che può essere definita la "via britannica al socialismo ", Spencer conosce l'amarezza profonda che fatalmente prova lo scienziato che vede la sua teoria distrutta dal duro banco di prova dei fatti e della realtà storica. Unico conforto: il suo discorso trova ancora entusiastica accoglienza nella giovane democrazia statunitense, dove regna il culto dell'uomo che, grazie alla dura volontà e alle sue diverse qualità personali, riesce a trionfare sull'ambiente circostante: il culto della libertà di iniziativa personale.

Appare sulla scena, verso la fine del secolo, un altro dei padri della sociologia. Dalla Germania, che si avvia a essere una delle più grandi potenze industriali d'Europa, dalla mitica università di Heidelberg, dove sale in cattedra a soli trentadue anni, MAX WEBER (1864-1920) lancia al mondo culturale del suo tempo un richiamo all'ordine: attenzione, la sociologia va considerata come la scienza comprensiva dell'azione sociale. Weber rifiuta nettamente la massificazione operata da Spencer e da Marx. Partendo dal dato di fondo che il metodo scientifico procede per astrazione, Weber decide che l'analisi corretta, per arrivare a una conclusione corretta, va fatta iniziando dal soggetto agente nella società, cioè dall'uomo. Studiando il significato profondo delle azioni dell'uomo in interazione con gli altri uomini, si può capire l'agire sociale e perciò spiegare casualmente il suo iter e i suoi effetti.

Lewis Coser, dell'Università dello Stato di New York, osserva nel suo libro I maestri del pensiero sociologico: "Weber sostiene che la determinazione della causalità sociologica comporta la necessità di operare all'interno di un quadro probabilistico. Questo tipo di generalizzazione cerca di stabilire, per esempio, che il sorgere del capitalismo presupponeva l'esistenza di un certo tipo di personalità: quella in gran parte formata dalle prediche dei religiosi calvinisti. La prova di tale affermazione si ha quando, sia attraverso l'esperimento mentale, sia attraverso lo studio comparativo di altre culture, si stabilisce che il capitalismo moderno probabilmente non si sarebbe potuto sviluppare senza tali personalità; comunque il calvinismo deve essere considerato una causa, non la causa del sorgere del capitalismo. Questo esempio riporta l'attenzione sul fatto che le riflessioni metodologiche di Weber servono da strumento per le sue concrete ricerche. L'interesse per la metodologia non era, in Weber, fine a sé stesso per cui egli, come molti altri scienziati, non seguì sempre i suoi principi metodologici.

Contrariamente al rilievo dato nominalisticamente all'individuo agente considerato come l'unità d'analisi, egli propose una teoria della stratificazione in larga parte basata su una spiegazione di ordine strutturale piuttosto che su una teoria soggettiva delle divisioni in classi". Ecco, ora, un esempio del procedimento analitico weberiano, tratto da una piccola opera (II lavoro intellettuale come professione) che riunisce i due saggi "Politica come professione" e "Scienza come professione ". Essi derivano da una conferenza fatta nel 1918 a Berlino davanti ai giovani della Libera lega studentesca, poco dopo la sconfitta della Germania, nel momento in cui era più viva la coscienza della crisi della società e del totale fallimento della classe dirigente.

"Quando di una questione si dice che è "politica", che un ministro o un funzionario sono "politici", che una decisione è condizionata "politicamente", s'intende sempre dire che gli interessi relativi alla ripartizione, al mantenimento e allo spostamento del potere sono determinanti per la risposta a tale questione, oppure condizionano quella decisione o definiscono la sfera d'attività di quel funzionario: chi fa azione politica aspira al potere, e come mezzo al servizio di altri fini - ideali o egoistici - o per il potere in se stesso, per godere del senso di prestigio che ne deriva".

L'analisi del sociologo tedesco, centra la realtà, così come ha fatto Spencer in certi punti della sua opera.

Lo Stato, esattamente come le associazioni politiche che lo hanno preceduto storicamente, consiste, per Weber, in un rapporto di dominazione di alcuni uomini su altri uomini; il rapporto poggia sul mezzo della forza legittima (o, per meglio dire, considerata legittima). Perché esso esista è necessario che i dominanti si sottomettano all'autorità pretesa dai dominatori del momento. Quando e per quali ragioni si assoggettano a questa autorità? Su quali motivi di giustificazione essenziale appoggia questa dominazione, quali sono i mezzi esteriori che la sostengono?

Le principali giustificazioni per quanto riguarda i motivi di legittimità di una dominazione possono essere tre: l'autorità del costume, o della tradizione, la cui stabilità è consacrata da una validità d'antichissima data fondata sulla consuetudine (la dominazione "tradizionale" tipica della società patriarcale); l'autorità derivante da una dote o da un complesso di doti personali eccezionali che determinano il carisma: in questo caso si ha la dominazione "carismatica" come quella esercitata dal profeta, oppure, nell'ambito politico, dal capo nominato sul campo di battaglia o dal sovrano eletto per plebiscito, dal grande demagogo e dal pilota di un partito politico; infine, la dominazione nata dalla legalità, sanzionata dalla fede nella validità della norma di legge e della competenza obiettiva che appoggia su regole razionalmente formulate, e cioè in forza dell'obbedienza fondata sull'adempimento di doveri stabiliti da norme: una dominazione qual è quella esercitata dal moderno funzionario statale e da tutti quei titolari del potere che hanno analogo ruolo.

"S'intende facilmente - puntualizza Weber - che in realtà la docilità dei soggetti è condizionata da motivi, estremamente influenti, di timore e di speranza - timore della vendetta di potenze magiche o dello stesso detentore del potere, speranza della ricompensa in questo o nell'altro mondo - e inoltre da interessi di ogni sorta. (...) A noi interessa soprattutto la seconda di queste tipizzazioni: la dominazione in rapporto alla dedizione del seguace al carisma puramente personale del capo. Qui infatti ha le sue radici il concetto della professione [del politico] nel suo aspetto più caratteristico. La dedizione al carisma del profeta o del capo in guerra o del grande demagogo nella "ecclesia" o nel parlamento, significa che egli è personalmente, per altri uomini, un capo per vocazione intima, e che costoro lo seguono non in forza del costume o della legge ma perché credono in lui. Dal canto suo, egli vive per la sua causa, quando non sia un fatuo e meschino eroe del momento. Ma, per la sua persona e per le sue qualità, quel che conta è la dedizione dei suoi fautori: di una schiera di discepoli, di seguaci, di uomini legati al suo partito personale".

La figura del capo è certamente apparsa in tutte le epoche, in tutti i Paesi e nelle collettività ad articolazione primitiva. "Ma per l'Occidente - osserva Weber - è caratteristico quello che ci concerne più da vicino: il capo politico impersonato anzitutto dal libero demagogo, sorto sul terreno dello Stato cittadino proprio soltanto dell'Occidente e soprattutto della civiltà mediterranea, e in secondo luogo nel capopartito parlamentare, cresciuto sul terreno dello stato costituzionale che solo in Occidente ha messo salde radici ".

Max Weber è alle prese con la difficile analisi di una società in piena crisi. La guerra ha dato un duro colpo a tutti i valori tradizionali del popolo tedesco e le sue conseguenze sono presenti con una crisi economica che riduce alla fame i ceti popolari e che fa proliferare i catechisti del marxismo, i quali, nella disperazione quasi generale, trovano fertile terreno per impiantare l'idea della dittatura del proletariato.

Intanto negli Stati Uniti Thorstein Veblen (I857-1929), figlio di agricoltori norvegesi emigrati, sta dissezionando la grande società americana. Questa é nel pieno del fulgore. Dopo la guerra di secessione (1861-65) la tecnologia è progredita a ritmo sostenuto, l'industria e il capitalismo hanno avuto di conseguenza uno sviluppo travolgente. Vista dalla vecchia Europa la grande società d'oltre Atlantico appare - alle grandi masse di disoccupati, agli operai e ai contadini sottopagati, al lumpenproletariat che passa le sue giornate ai limiti della sopravvivenza - come la realizzazione della Terra Promessa. In realtà qui la regola della libera concorrenza - già in atto ma convalidata da Spencer e portata all'esasperazione - ha messo benessere e potere nelle mani di una minoranza che dispone di maggiori capacità e di minori scrupoli: sono sotto accusa non tanto gli industriali, i piloti del mondo tecnico che producono beni e lavoro, quanto i manovratori di capitali, gli speculatori, quelli che meritano la dura definizione di "baroni della rapina", "quella classe agiata - scrive Thorstein Veblen nella sua opera più nota, La teoria della classe agiata - che vive della società industriale piuttosto che vivere in essa". Per Veblen il sistema capitalista del suo tempo è caratterizzato da un conflitto insopprimibile tra il mondo affaristico e il mondo industriale, tra i detentori della proprietà e i tecnologi, tra il lavoro finanziario e quello industriale, tra la categoria che produce beni e quella che produce danaro, tra le capacità tecniche e quelle commerciali. Lo studioso americano condivide con Spencer e Darwin il concetto evoluzionistico basato sulla selettività, ma vede questa mutazione avvenire in modo anarchico.

"A suo parere - commenta Coser nel citato I maestri del pensiero sociologico - l'evoluzione storica non ha alcun punto di arrivo, come invece avevano sostenuto gli hegeliani e i marxisti, ma è piuttosto basata su rapporti di causa ed effetto che si susseguono ciecamente, senza alcuna linea di tendenza, alcun punto di arrivo, alcuna conclusione".

Infatti l'analisi di Veblen porta alla conclusione che la caratteristica essenziale dell'uomo è l'agire, cioè il costruire, l'inventare, l'elaborare il nuovo in genere, il migliorare costantemente le proprie condizioni di vita con la ricerca di nuove tecnologie. L'uomo non è soltanto un assieme di desideri da soddisfare, ma soprattutto un complesso di attitudini che puntano alla realizzazione e all'espressione tramite un'azione che è in costante divenire. Un divenire che ha come spina dorsale il progresso tecnologico, lo sviluppo della conoscenza nei vari settori di vita. Dunque, la tecnologia è un fattore dominante, il propulsore che imprime moto alla dialettica sociale. Una dialettica che tuttavia, s'è detto, pur basata sul rapporto causa-effetto, presenta un susseguirsi di momenti e di risultati che smentiscono continuamente le previsioni degli studiosi che tentano di codificarne il divenire sulla base di leggi.

Il discorso di Veblen ha radici profondamente realistiche. Gli elementi sui quali poggia vengono da un'osservazione diretta, personalmente controllata, della vita americana, che, rispetto a quella europea, è già con un piede nel futuro. Veblen è onnipresente con il suo taccuino d'appunti, sul quale disegna ogni particolare, ogni movimento del suo oggetto di studio. Fa persino appostare la moglie nelle toilette dei grandi magazzini di New York per cogliere a volo e annotare i discorsi delle commesse, annotazioni che sono fondamentali per studiare il comportamento, le reazioni, il modo d'essere di un microcosmo sociale che vive una sua dialettica, come altri gruppi, in interazione con quella del macrocosmo costituito dalla grande società. Quando Veblen traduce questi appunti in lunghe e minuziose analisi, sembra voler portare il lettore sulla strada di un netto determinismo tecnoeconomico. Su questo punto Ferrarotti scrive: "Ciò che a ogni buon conto non va mai perso di vista è l'influsso determinante sulla condotta e sugli atteggiamenti dell'individuo delle abitudini, dei valori, degli interessi, delle norme più o meno esplicite e dei mezzi tecnici del gruppo cui l'individuo appartiene.

Siamo dunque in presenza di una forma di determinismo a sfondo economico? Sembrerebbe difficile negarlo. Ma il determinismo vebleniano mostra all'analisi caratteristiche peculiari. Nessun dubbio che in Veblen anche le istituzioni non economiche siano influenzate in certa misura dall'interesse economico. Ma tale omnipervasività del momento economico Veblen non la vede legata a una reale, oggettiva preminenza del fattore economico nella vita individuale e sociale, come ritiene Marx, bensì la vede scaturire dalla fondamentale interconnessione dell'esperienza umana intesa come struttura vivente, storicamente capace di evoluzione. Ciò non significa che Veblen ceda a un'impostazione psicologistica. Il quadro teoretico di Veblen è complesso e sfugge irrimediabilmente alle interpretazioni dilemmatiche del tipo determinismo-indeterminismo, strutturalismo-psicologismo". Nella nuova società Veblen constata la presenza di una cultura a carattere competitivo - ma questa presenza sembra caratterizzare le culture di tutti i tempi - nella quale gli uomini valutano se stessi confrontandosi continuamente con i vicini allo scopo di conquistare posizioni di preminenza. Ciò porta, naturalmente, a una specie di sempieterno stato di insoddisfazione. Veblen lo annota nella Teoria della classe agiata.

"Appena una persona fa nuovi acquisti e si abitua al nuovo livello di ricchezza che ne deriva, il nuovo livello cessa di offrire una soddisfazione più grande di quella che offriva il livello di prima. Il fine cui tende l'accumulazione è di mettersi in alto in fatto di possibilità finanziarie a paragone con il resto della comunità. Per tutto il tempo che il paragone gli è chiaramente sfavorevole, l'individuo normale medio vivrà in uno stato di cronica scontentezza della propria sorte; quando poi egli ha raggiunto quello che si può chiamare il livello finanziario normale della comunità o della sua classe nella comunità, questa cronica insoddisfazione darà luogo a un continuo sforzo per stabilire un più ampio e sempre più profondo intervallo finanziario fra se stesso e quel livello medio".

Qual è il contributo dell' intelligencija italiana allo sviluppo del pensiero sociologico in questo momento storico (fine dell'Ottocento - inizi del Novecento) che vede i primi passi della scientia scientiarum, le prime grandi teorizzazioni, il tormento interpretativo degli studiosi come Marx, Weber, Veblen? L'Italia è un'unità geografica che contiene culture profondamente diverse, è fisicamente separata dall'Europa, percorre a tappe forzate la via verso un'unità nazionale che non esprime la volontà politica di tutti i popoli disseminati lungo la penisola (essi hanno anime arabe, spagnole, germaniche, slave, oltre che italiche), c'è una situazione confusa sia dal punto di vista culturale sia dal punto di vista politico. Il pensiero cattolico, fortemente radicato in tutti i terreni sociali, e la società patriarcale non favoriscono la circolazione delle nuove idee che potrebbero mettere in pericolo il potere costituito. C'è una fisiologica resistenza all'avanzata della civiltà delle macchine. Tuttavia, sia pur con un certo ritardo, anche qui scatta il meccanismo della rivoluzione industriale, che, a sua volta, mette in moto il processo di mutazione dei rapporti sociali e delle posizioni culturali.

In questa fase, dopo la metà Ottocento, la nostra intelligencija si trova assediata da una nuova realtà nella quale valori, figure istituzionali e istituzioni, miti, cominciano a sgretolarsi. All'ombra delle ciminiere si formano forti gruppi sociali (la classe operaia prende coscienza di sé e si organizza sotto la spinta della lettura di migliaia di opuscoletti che sintetizzano il pensiero marxiano), i quali si contrappongono al nuovo tipo di dominio e di sfruttamento. Le cannonate che il generale Bava Beccaris fa sparare a Milano contro la folla esasperata (1898) rappresentano il segno che la società non può più essere controllata con i vecchi strumenti. La sociologia non ha grandi campioni tranne quello - ancora resistente al setaccio della storia - di VILFREDO PARETO (1848-1923) prima ingegnere, poi economista, infine sociologo. Nella cultura italiana del tempo Pareto ha una dimensione quasi iconoclasta. Nato in Francia da famiglia italiana, quando completa gli studi di ingegneria al politecnico di Torino mantiene nella sua cultura l'impronta del positivismo francese. (vedi più avanti la sua bio-bibliografia)

"Spinto da desiderio di apportare un complemento indispensabile agli studi di economia politica e soprattutto ispirandomi all'esempio delle scienze naturali, io sono stato indotto a comporre il mio Trattato di sociologia il cui unico scopo - dico unico e insisto su questo punto - è di ricercare la realtà sperimentale per mezzo dell'applicazione alle scienze sociali dei metodi che hanno fatto le loro prove in fisica, in chimica, in astronomia, in biologia e in altre scienze simili". Questa spiegazione - che si trova negli Scritti sociologici - è la sintesi degli obiettivi di Pareto. Egli vede il sistema sociale come un sistema fisico-chimico nel quale le molecole sono rappresentate dai singoli umani, con le loro particolarità, che interagiscono al momento della " miscelazione sociale".

"É chiara l'opzione per i fatti - mette in evidenza Ferrarotti nel libro già indicato - per lo studio dei fenomeni circoscritti ed empiricamente, o 'sperimentalmente' come Pareto preferirà dire, analizzabili, contro le fumosità filosofeggianti, le tirate metafisiche o i grandi ideali umanitari, dietro i quali Pareto sospetterà sempre, e non del tutto a torto, l'inganno ideologico o la truffa politica".

Nel Trattato di sociologia generale, apparso nel 1916, Pareto mette sotto analisi l'irrazionalità del comportamento umano, trascurandone la razionalità, già trattata a fondo nei testi di economia da lui scritti. Tuttavia, contrariamente a quanto fa Veblen negli Stati Uniti, egli non opera il distacco dalla teoria economica ma ne integra le astrazioni per arrivare, attraverso lo strumento sociologico e psicologico, alla spiegazione di quelle manifestazioni del comportamento umano che l'analisi economica non è riuscita a penetrare. Pareto, insomma, vuole separare in modo concettuale le componenti razionali dell'azione dalle componenti non razionali.

"Un politicante - esemplifica lo studioso - è spinto a propugnare la teoria della 'solidarietà' dal desiderio di conseguire quattrini, onori, poteri. (...) É manifesto che se il politicante dicesse 'Credete a questa teoria perché ciò mi torna conto' farebbe ridere e non persuaderebbe alcuno; egli deve dunque prendere le mosse da certi principi che possono essere accolti da chi l'ascolta. (...) Spesso chi vuol persuadere altrui principia col persuadere sé medesimo; e, anche se è mosso principalmente dal proprio tornaconto, finisce col credere di essere mosso dal desiderio del bene altrui".

Nel distinguere i fatti umani, Pareto individua un nucleo costante costituito da manifestazioni di istinti, sentimenti, interessi che egli definisce "residuo", e un nucleo variabile, costituito da tentativi di giustificare razionalmente l'irrazionale: la "derivazione". Su questa distinzione Pareto costruisce l'edificio della sua sociologia e arriva alla formulazione della teoria dell'equilibrio sociale. A somiglianza di quella dell'equilibrio economico, questa teoria appoggia sui fattori individuali prima accennati e sui fenomeni d'insieme, di gruppo, ai quali i fattori individuali danno vita. Quando Pareto passa al settore politico, conclude che la società ha una struttura elitaria, che le masse sono incapaci di governarsi, che le élites sono destinate ad ascendere e a decadere (teoria della circolazione delle élites).

I popoli, sostiene Pareto sulla Rivista italiana di sociologia del luglio 1900, a eccezione di brevi periodi di tempo, sono sempre guidati da un'aristocrazia, intendendo questo termine come indicativo dei più forti, energici, capaci sia nel positivo sia nel negativo. Ma per legge fisiologica le aristocrazie non reggono e perciò la storia umana é storia di una serie continua di avvicendamenti di questa aristocrazia.

"Mentre una gente sale, l'altra cala. Tale è il fenomeno reale, benché spesso a noi appaia sotto altra forma. La nuova aristocrazia, che vuole cacciare l'antica o anche solo esser partecipe del potere e degli onori di questa, non esprime schiettamente tale intendimento, ma si fa capo a tutti gli oppressi, dice di voler procacciare non il bene proprio ma quello dei più: e muove all'assalto non già in nome dei diritti di una ristretta classe, bensì in quello dei diritti di quasi tutti i cittadini. S'intende che, quando ha vinto, ricaccia sotto il giogo gli alleati o al massimo fa loro qualche concessione di forma. Tale è la storia delle contese dell'aristocrazia della plebe, e dei patres a Roma; tale, e fu ben notata dai socialisti moderni, é la storia della vittoria della borghesia sull'aristocrazia di origine feudale ".

Mentre studia, analizza, scrive, Pareto non perde d'occhio quanto accade attorno a lui. È il momento in cui imperversano logomachie ideologiche, i partiti prendono sempre maggior forza organizzandosi meglio e quindi meglio penetrando nel tessuto sociale del Paese. Il socialismo è sulla cresta dell'onda, fa diga a difesa dei diritti dei contadini, dei mezzadri, dei braccianti, degli operai, si presenta come pista di lancio dell'umanità verso il "mondo giusto e di uguali".

Cosa pensa Pareto del socialismo? "Si sente spesso parlare - egli risponde ne I sistemi socialisti - di una economia politica liberale, cristiana, socialista eccetera. Dal punto di vista scientifico ciò non ha senso. Una proposizione scientifica è vera o falsa, non può adempiere un'altra condizione, come quella di essere liberale o socialista. Volere integrare le equazioni della meccanica celeste mercé l'introduzione di una condizione cattolica o atea sarebbe un atto di pura follia. Ma se tali caratteri accessori sono assolutamente respinti dalle teorie scientifiche, essi non mancano mai, invece, fra gli uomini che studiano queste teorie. L'uomo non è un essere di pura ragione, è anche un essere di sentimento e di fede, e il più ragionevole non può esimersi dal prendere partito, forse anche senza averne netta coscienza, a proposito di alcuni dei problemi la cui soluzione oltrepassa i limiti della scienza. Non vi è un'astronomia cattolica e un'astronomia atea ma vi sono astronomi cattolici e astronomi atei. Voler dimostrare il teorema del quadrato dell'ipotenusa con un appello agli 'immortali princìpi del 1789' o alla 'fede nell'avvenire della Patria' sarebbe perfettamente assurdo. E lo stesso che invocare la fede socialista per dimostrare la legge che, nelle nostre società, regola la distribuzione della ricchezza. La fede cattolica ha finito col mettersi d'accordo coi risultati dell'astronomia e della geologia; che la fede dei marxisti e quella degli etici procurino anch'esse di conciliarsi coi risultati della scienza economica".

Quando Pareto dà alle stampe il Trattato di sociologia - è il 1916 - sta divampando la prima guerra mondiale. Da alcuni anni (dal 1893) si è trasferito in Svizzera, chiamato alla cattedra di economia politica dell'Università di Losanna. (a seguire le sue lezioni un attento allievo: il giovane Mussolini - Ndr.). A chi studia la scena internazionale con attenzione e distacco scientifico, appare chiaro che l'analisi di Pareto trova riscontro frequente nella realtà dei fatti che stanno verificandosi. Un'altra conferma verrà alla fine del grande massacro, nel 1918: la caduta dell'aristocrazia austriaca, tedesca e russa, esito di quel grande scontro fra élites internazionali che è stato il conflitto appena concluso.
(Nelle pagine che seguono il suo intervento "FATTI e TEORIE" (1920)
(e sono pagine che analizzano la "follia" della Prima Guerra Mondiale)

Qualche anno dopo, dal tranquillo osservatorio di Losanna, Pareto vedrà scorrere sullo schermo della storia i drammatici anni del dopoguerra italiano. Accade qualcosa di simile a quello che aveva immaginato Marx. Ma nel fluire degli avvenimenti non si riscontra la dialettica prevista dal filosofo tedesco (che per altro viene confermata in Russia con la rivoluzione dell'ottobre 1917).
Quanto accade in Italia sembra la conferma sperimentale della teoria delle élite: conquista il potere l'élite fascista, che in un primo momento si fa portavoce delle masse popolari, poi si allea - essendo incerto il rapporto di forza - con l'antica aristocrazia che voleva cacciare, per essere "anche solo partecipe del potere e degli onori di questa". Più tardi la nuova élite stipulerà un'altra alleanza, anche questa da manuale paretiano: quella con la Chiesa romana. Anni dopo, altre conferme: in Germania presa del potere da parte del nazismo e alleanza con la grande borghesia tedesca; nell'Unione Sovietica la dittatura del proletariato non diventa realtà e le grandi masse si trovano dominate, anziché all'aristocrazia guidata dallo zar, dall'élite espressa dal partito al potere.

Pareto muore nel 1923. Con lui si chiude la serie dei padri della sociologia. I sociologi che seguiranno - convinti di aver a che fare con un mondo che presenta problemi nuovi - tenteranno di dire qualcosa di nuovo. Saranno accompagnati dall'ombra di Shakespeare che mormora: "Il mondo è un immenso teatro / uomini e donne sono attori / che fanno le loro parti. / Una persona, nella vita, ne recita molte".