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Dedica
NICOLAUS MACLAVELLUS
AD MAGNIFICUM LAURENTIUM MEDICEM.
[Nicolò Machiavelli al Magnifico Lorenzo
de' Medici]
Sogliono, el più delle volte, coloro che desiderano acquistare
grazia appresso uno Principe, farseli incontro con quelle
cose che infra le loro abbino più care, o delle quali vegghino
lui più delettarsi; donde si vede molte volte essere loro
presentati cavalli, arme, drappi d'oro, prete preziose e
simili ornamenti, degni della grandezza di quelli. Desiderando
io adunque, offerirmi, alla vostra Magnificenzia con qualche
testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato
intra la mia suppellettile cosa, quale io abbia più cara
o tanto esístimi quanto la cognizione delle azioni delli
uomini grandi, imparata con una lunga esperienzia delle
cose moderne et una continua lezione delle antique: le quali
avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate et esaminate,
et ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia
Vostra. E benché io iudichi questa opera indegna della presenzia
di quella, tamen confido assai che per sua umanità li debba
essere accetta, considerato come da me non li possa esser
fatto maggiore dono, che darle facultà di potere in brevissimo
tempo intendere tutto quello che io in tanti anni e con
tanti mia disagi e periculi ho conosciuto. La quale opera
io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole
ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o
ornamento estrinseco con li quali molti sogliono le loro
cose descrivere et ornare; perché io ho voluto, o che veruna
cosa la onori, o che solamente la varietà della materia
e la gravità del subietto la facci grata. Né voglio sia
reputata presunzione se uno uomo di basso et infimo stato
ardisce discorrere e regolare e' governi de' principi; perché,
cosí come coloro che disegnono e' paesi si pongano bassi
nel piano a considerare la natura de' monti e de' luoghi
alti, e per considerare quella de' bassi si pongano alto
sopra monti, similmente, a conoscere bene la natura de'
populi, bisogna essere principe, et a conoscere bene quella
de' principi, bisogna essere populare.
Pigli, adunque, Vostra Magnificenzia questo piccolo dono
con quello animo che io lo mando; il quale se da quella
fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà drento
uno estremo mio desiderio, che Lei pervenga a quella grandezza
che la fortuna e le altre sue qualità li promettano. E,
se Vostra Magnificenzia dallo apice della sua altezza qualche
volta volgerà li occhi in questi luoghi bassi, conoscerà
quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità
di fortuna.
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Capitolo I
Quot sint genera principatuum
et quibus modis acquirantur.
[Di quante ragioni sieno e' principati, e in che modo
si acquistino]
Tutti li stati, tutti e' dominii che hanno avuto et hanno
imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche
o principati. E' principati sono o ereditarii, de' quali
el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe,
o e' sono nuovi. E' nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano
a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato
ereditario del principe che li acquista, come è el regno
di Napoli al re di Spagna. Sono questi dominii cosí acquistati,
o consueti a vivere sotto uno principe,o usi ad essere liberi;
et acquistonsi, o con le armi d'altri o con le proprie,
o per fortuna o per virtù.
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Capitolo II
De principatibus hereditariis.
[De' principati ereditarii]
Io lascerò indrieto el ragionare delle repubbliche, perché
altra volta ne ragionai a lungo. Volterommi solo al principato,
et andrò tessendo li orditi soprascritti, e disputerò come
questi principati si possino governare e mantenere.
Dico, adunque, che nelli stati ereditarii et assuefatti
al sangue del loro principe sono assai minori difficultà
a mantenerli che ne' nuovi; perché basta solo non preterire
l'ordine de' sua antinati, e di poi temporeggiare con li
accidenti; in modo che, se tale principe è di ordinaria
industria, sempre si manterrà nel suo stato, se non è una
estraordinaria et eccessiva forza che ne lo privi, e privato
che ne fia, quantunque di sinistro abbi l'occupatore, lo
riacquista.
Noi abbiamo in Italia, in exemplis, el duca di Ferrara,
il quale non ha retto alli assalti de' Viniziani nello 84,
né a quelli di papa Iulio nel 10, per altre cagioni che
per essere antiquato in quello dominio. Perché el principe
naturale ha minori cagioni e minore necessità di offendere:
donde conviene che sia più amato; e se estraordinarii vizii
non lo fanno odiare, è ragionevole che naturalmente sia
benevoluto da' sua. E nella antiquità e continuazione del
dominio sono spente le memorie e le cagioni delle innovazioni:
perché sempre una mutazione lascia lo addentellato per la
edificazione dell'altra.
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Capitolo III
De principatibus mixtis.
[De' principati misti]
Ma nel principato nuovo consistono le difficultà. E prima,
se non è tutto nuovo, ma come membro, che si può chiamare
tutto insieme quasi misto, le variazioni sua nascono in
prima da una naturale difficultà, la quale è in tutti e'
principati nuovi: le quali sono che li uomini mutano volentieri
signore, credendo migliorare; e questa credenza gli fa pigliare
l'arme contro a quello; di che s'ingannono, perché veggono
poi per esperienzia avere peggiorato. Il che depende da
un'altra necessità naturale et ordinaria, quale fa che sempre
bisogni offendere quelli di chi si diventa nuovo principe,
e con gente d'arme, e con infinite altre iniurie che si
tira dietro el nuovo acquisto; in modo che tu hai inimici
tutti quelli che hai offesi in occupare quello principato,
e non ti puoi mantenere amici quelli che vi ti hanno messo,
per non li potere satisfare in quel modo che si erano presupposto
e per non potere tu usare contro di loro medicine forti,
sendo loro obligato; perché sempre, ancora che uno sia fortissimo
in sulli eserciti, ha bisogno del favore de' provinciali
a intrare in una provincia. Per queste ragioni Luigi XII
re di Francia occupò subito Milano, e subito lo perdé; e
bastò a torgnene,la prima volta le forze proprie di Lodovico;
perché quelli populi che li aveano aperte le porte, trovandosi
ingannati della opinione loro e di quello futuro bene che
si avevano presupposto, non potevono sopportare e' fastidii
del nuovo principe.
È ben vero che, acquistandosi poi la seconda volta e' paesi
rebellati, si perdono con più difficultà; perché el signore,
presa occasione dalla rebellione, è meno respettivo ad assicurarsi
con punire e' delinquenti, chiarire e' sospetti, provvedersi
nelle parti più deboli. In modo che, se a fare perdere Milano
a Francia bastò, la prima volta, uno duca Lodovico che romoreggiassi
in su' confini, a farlo di poi perdere la seconda li bisognò
avere, contro, el mondo tutto, e che li eserciti sua fussino
spenti o fugati di Italia: il che nacque dalle cagioni sopradette.
Non di manco, e la prima e la seconda volta, li fu tolto.
Le cagioni universali della prima si sono discorse: resta
ora a dire quelle della seconda, e vedere che remedii lui
ci aveva, e quali ci può avere uno che fussi ne' termini
sua, per potersi mantenere meglio nello acquisto che non
fece Francia. Dico, per tanto che questi stati, quali acquistandosi
si aggiungono a uno stato antiquo di quello che acquista,
o sono della medesima provincia e della medesima lingua,
o non sono. Quando e' sieno, è facilità grande a tenerli,
massime quando non sieno usi a vivere liberi; et a possederli
securamente basta avere spenta la linea del principe che
li dominava, perché nelle altre cose, mantenendosi loro
le condizioni vecchie e non vi essendo disformità di costumi,
li uomini si vivono quietamente; come s'è visto che ha fatto
la Borgogna, la Brettagna, la Guascogna e la Normandia,
che tanto tempo sono state con Francia; e benché vi sia
qualche disformità di lingua, non di manco e' costumi sono
simili, e possonsi fra loro facilmente comportare. E chi
le acquista, volendole tenere, debbe avere dua respetti:
l'uno, che il sangue del loro principe antiquo si spenga;
l'altro, di non alterare né loro legge né loro dazii; talmente
che in brevissimo tempo diventa, con loro principato antiquo,
tutto uno corpo.
Ma, quando si acquista stati in una provincia disforme
di lingua, di costumi e di ordini, qui sono le difficultà;
e qui bisogna avere gran fortuna e grande industria a tenerli;
et uno de' maggiori remedii e più vivi sarebbe che la persona
di chi acquista vi andassi ad abitare. Questo farebbe più
secura e più durabile quella possessione: come ha fatto
el Turco, di Grecia; il quale, con tutti li altri ordini
osservati da lui per tenere quello stato, se non vi fussi
ito ad abitare, non era possibile che lo tenessi. Perché,
standovi, si veggono nascere e' disordini, e presto vi puoi
rimediare; non vi stando, s'intendono quando sono grandi
e non vi è più remedio. Non è, oltre a questo, la provincia
spogliata da' tua officiali; satisfannosi e' sudditi del
ricorso propinquo al principe; donde hanno più cagione di
amarlo, volendo esser buoni, e, volendo essere altrimenti,
di temerlo. Chi delli esterni volessi assaltare quello stato,
vi ha più respetto; tanto che, abitandovi, lo può con grandissima
difficultà perdere.
L'altro migliore remedio è mandare colonie in uno o in
duo luoghi che sieno quasi compedi di quello stato; perché
è necessario o fare questo o tenervi assai gente d'arme
e fanti. Nelle colonie non si spende molto; e sanza sua
spesa, o poca, ve le manda e tiene; e solamente offende
coloro a chi toglie e' campi e le case, per darle a' nuovi
abitatori, che sono una minima parte di quello stato; e
quelli ch'elli offende, rimanendo dispersi e poveri, non
li possono mai nuocere; e tutti li altri rimangono da uno
canto inoffesi, e per questo doverrebbono quietarsi, dall'altro
paurosi di non errare, per timore che non intervenissi a
loro come a quelli che sono stati spogliati. Concludo che
queste colonie non costono, sono più fedeli, etoffendono
meno; e li offesi non possono nuocere sendo poveri e dispersi,
come è detto. Per il che si ha a notare che li uomini si
debbono o vezzeggiare o spegnere; perché si vendicano delle
leggieri offese, delle gravi non possono: sí che l'offesa
che si fa all'uomo debbe essere in modo che la non tema
la vendetta. Ma tenendovi, in cambio di colonie, gente d'arme
si spende più assai, avendo a consumare nella guardia tutte
le intrate di quello stato; in modo che lo acquisto li torna
perdita, et offende molto più, perché nuoce a tutto quello
stato, tramutando con li alloggiamenti el suo esercito;
del quale disagio ognuno ne sente, e ciascuno li diventa
inimico; e sono inimici che li possono nuocere rimanendo
battuti in casa loro. Da ogni parte dunque questa guardia
è inutile, come quella delle colonie è utile.
Debbe ancora chi è in una provincia disforme come è detto,
farsi capo e defensore de' vicini minori potenti, et ingegnarsi
di indebolire e' potenti di quella, e guardarsi che per
accidente alcuno non vi entri uno forestiere potente quanto
lui. E sempre interverrà che vi sarà messo da coloro che
saranno in quella malcontenti o per troppa ambizione o per
paura: come si vidde già che li Etoli missono e' Romani
in Grecia; et in ogni altra provincia che li entrorono,
vi furono messi da' provinciali. E l'ordine delle cose è,
che subito che uno forestiere potente entra in una provincia,
tutti quelli che sono in essa meno potenti li aderiscano,
mossi da invidia hanno contro a chi è suto potente sopra
di loro; tanto che, respetto a questi minori potenti, lui
non ha a durare fatica alcuna a guadagnarli, perché subito
tutti insieme fanno uno globo col suo stato che lui vi ha
acquistato. Ha solamente a pensare che non piglino troppe
forze e troppa autorità; e facilmente può, con le forze
sua e col favore loro sbassare quelli che sono potenti,
per rimanere in tutto arbitro di quella provincia. E chi
non governerà bene questa parte, perderà presto quello che
arà acquistato; e, mentre che lo terrà, vi arà dentro infinite
difficultà e fastidii.
E' Romani, nelle provincie che pigliorono, osservorono
bene queste parti; e mandorono le colonie, intratennono
e' men potenti sanza crescere loro potenzia, abbassorono
e' potenti, e non vi lasciorono prendere reputazione a'
potenti forestieri. E voglio mi basti solo la provincia
di Grecia per esemplo. Furono intrattenuti da loro li Achei
e li Etoli; fu abbassato el regno de' Macedoni; funne cacciato
Antioco; né mai e' meriti delli Achei o delli Etoli feciono
che permettessino loro accrescere alcuno stato; né le persuasioni
di Filippo l'indussono mai ad esserli amici sanza sbassarlo;
né la potenzia di Antioco possé fare li consentissino che
tenessi in quella provincia alcuno stato. Perché e' Romani
feciono, in questi casi, quello che tutti e' principi savi
debbono fare: li quali, non solamente hanno ad avere riguardo
alli scandoli presenti, ma a' futuri, et a quelli con ogni
industria ovviare; perché, prevedendosi discosto, facilmente
vi si può rimediare; ma, aspettando che ti si appressino,
la medicina non è a tempo, perché la malattia è diventata
incurabile. Et interviene di questa come dicono e' fisici
dello etico, che nel principio del suo male è facile a curare
e difficile a conoscere, ma, nel progresso del tempo, non
l'avendo in principio conosciuta né medicata, diventa facile
a conoscere e difficile a curare. Cosí interviene nelle
cose di stato; perché, conoscendo discosto, il che non è
dato se non a uno prudente, e' mali che nascono in quello,
si guariscono presto; ma quando, per non li avere conosciuti
si lasciono crescere in modo che ognuno li conosce, non
vi è più remedio.
Però e' Romani, vedendo discosto l'inconvenienti, vi rimediorono
sempre; e non li lasciorono mai seguire per fuggire una
guerra, perché sapevano che la guerra non si lieva, ma si
differisce a vantaggio d'altri; però vollono fare con Filippo
et Antioco guerra in Grecia per non la avere a fare con
loro in Italia; e potevano per allora fuggire l'una e l'altra;
il che non vollono. Né piacque mai loro quello che tutto
dí è in bocca de' savî de' nostri tempi, di godere el benefizio
del tempo, ma sí bene quello della virtù e prudenza loro;
perché el tempo si caccia innanzi ogni cosa, e può condurre
seco bene come male, e male come bene.
Ma torniamo a Francia, et esaminiamo se delle cose dette
ne ha fatta alcuna; e parlerò di Luigi, e non di Carlo come
di colui che, per avere tenuta più lunga possessione in
Italia, si sono meglio visti e' sua progressi: e vedrete
come elli ha fatto el contrario di quelle cose che si debbono
fare per tenere uno stato disforme.
El re Luigi fu messo in Italia dalla ambizione de' Viniziani,
che volsono guadagnarsi mezzo lo stato di Lombardia per
quella venuta. Io non voglio biasimare questo partito preso
dal re; perché, volendo cominciare a mettere uno piè in
Italia, e non avendo in questa provincia amici, anzi sendoli,
per li portamenti del re Carlo, serrate tutte le porte,
fu forzato prendere quelle amicizie che poteva: e sarebbeli
riuscito el partito ben preso, quando nelli altri maneggi
non avessi fatto errore alcuno. Acquistata, adunque, el
re la Lombardia, si riguadagnò subito quella reputazione
che li aveva tolta Carlo: Genova cedé; Fiorentini li diventorono
amici; Marchese di Mantova, Duca di Ferrara, Bentivogli,
Madonna di Furlí, Signore di Faenza, di Pesaro, di Rimino,
di Camerino, di Piombino, Lucchesi, Pisani, Sanesi, ognuno
se li fece incontro per essere suo amico. Et allora posserno
considerare Viniziani la temerità del partito preso da loro;
li quali, per acquistare dua terre in Lombardia, feciono
signore, el re, di dua terzi di Italia.
Consideri ora uno con quanta poca difficultà posseva il
re tenere in Italia la sua reputazione, se elli avessi osservate
le regole soprascritte, e tenuti securi e difesi tutti quelli
sua amici, li quali, per essere gran numero e deboli e paurosi,
chi della Chiesia, chi de' Viniziani, erano sempre necessitati
a stare seco; e per il mezzo loro poteva facilmente assicurarsi
di chi ci restava grande. Ma lui non prima fu in Milano,
che fece il contrario, dando aiuto a papa Alessandro, perché
elli occupassi la Romagna. Né si accorse, con questa deliberazione,
che faceva sé debole, togliendosi li amici e quelli che
se li erano gittati in grembo, e la Chiesa grande, aggiugnendo
allo spirituale, che gli dà tanta autorità, tanto temporale.
E, fatto uno primo errore, fu costretto a seguitare; in
tanto che, per porre fine alla ambizione di Alessandro e
perché non divenissi signore di Toscana, fu forzato venire
in Italia. Non li bastò avere fatto grande la Chiesia e
toltisi li amici, che, per volere il regno di Napoli, lo
divise con il re di Spagna; e, dove lui era prima arbitro
d'Italia e' vi misse uno compagno, a ciò che li ambiziosi
di quella provincia e mal contenti di lui avessino dove
ricorrere; e, dove posseva lasciare in quello regno uno
re suo pensionario, e' ne lo trasse, per mettervi uno che
potessi cacciarne lui.
È cosa veramente molto naturale et ordinaria desiderare
di acquistare; e sempre, quando li uomini lo fanno che possano,
saranno laudati, o non biasimati; ma, quando non possono,
e vogliono farlo in ogni modo, qui è l'errore et il biasimo.
Se Francia, adunque posseva con le forze sua assaltare Napoli,
doveva farlo; se non poteva, non doveva dividerlo. E se
la divisione fece, co' Viniziani, di Lombardia meritò scusa,
per avere con quella messo el piè in Italia, questa merita
biasimo, per non essere escusata da quella necessità.
Aveva, dunque, Luigi fatto questi cinque errori: spenti
e' minori potenti; accresciuto in Italia potenzia a uno
potente, messo in quella uno forestiere potentissimo, non
venuto ad abitarvi non vi messo colonie. E' quali errori
ancora, vivendo lui, possevano non lo offendere, se non
avessi fatto el sesto, di tòrre lo stato a' Viniziani: perché,
quando non avessi fatto grande la Chiesia né messo in Italia
Spagna, era ben ragionevole e necessario abbassarli; ma
avendo preso quelli primi partiti, non doveva mai consentire
alla ruina loro: perché, sendo quelli potenti, arebbono
sempre tenuti li altri discosto dalla impresa di Lombardia,
sí perché Viniziani non vi arebbono consentito sanza diventarne
signori loro, sí perché li altri non arebbono voluto torla
a Francia per darla a loro, et andare a urtarli tutti e
dua non arebbono avuto animo. E se alcuno dicesse: el re
Luigi cedé ad Alessandro la Romagna et a Spagna el Regno
per fuggire una guerra; respondo, con le ragioni dette di
sopra, che non si debbe mai lasciare seguire uno disordine
per fuggire una guerra, perché la non si fugge, ma si differisce
a tuo disavvantaggio. E se alcuni altri allegassino la fede
che il re aveva data al papa, di fare per lui quella impresa,
per la resoluzione del suo matrimonio e il cappello di Roano,
respondo con quello che per me di sotto si dirà circa la
fede de' principi e come la si debbe osservare. Ha perduto,
adunque, el re Luigi la Lombardia per non avere osservato
alcuno di quelli termini osservati da altri che hanno preso
provincie e volutole tenere. Né è miraculo alcuno questo,
ma molto ordinario e ragionevole. E di questa materia parlai
a Nantes con Roano, quando il Valentino, che cosí era chiamato
popularmente Cesare Borgia, figliuolo di papa Alessandro,
occupava la Romagna; perché, dicendomi el cardinale di Roano
che li Italiani non si intendevano della guerra, io li risposi
che e' Franzesi non si intendevano dello stato; perché,
se se n'intendessino, non lascerebbono venire la Chiesia
in tanta grandezza. E per esperienzia s'è visto che la grandezza,
in Italia, di quella e di Spagna è stata causata da Francia,
e la ruina sua causata da loro. Di che si cava una regola
generale, la quale mai o raro falla: che chi è cagione che
uno diventi potente, ruina; perché quella potenzia è causata
da colui o con industria o con forza; e l'una e l'altra
di queste dua è sospetta a chi è diventato potente.
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Capitolo IV
Cur Darii regnum quod
Alexander occupaverat a successoribus suis post Alexandri
mortem non defecit.
[Per qual cagione il regno di
Dario, il quale da Alessandro fu occupato, non si ribellò
da' sua successori dopo la morte di Alessandro]
Considerate le difficultà le quali si hanno a tenere uno
stato di nuovo acquistato, potrebbe alcuno maravigliarsi
donde nacque che Alessandro Magno diventò signore della
Asia in pochi anni, e, non l'avendo appena occupata, morí;
donde pareva ragionevole che tutto quello stato si rebellassi;
non di meno e' successori di Alessandro se lo mantennono,
e non ebbono a tenerlo altra difficultà che quella che infra
loro medesimi, per ambizione propria, nacque. Respondo come
e' principati de' quali si ha memoria, si truovano governati
in dua modi diversi: o per uno principe, e tutti li altri
servi, e' quali come ministri per grazia e concessione sua,
aiutono governare quello regno; o per uno principe e per
baroni, li quali, non per grazia del signore, ma per antiquità
di sangue tengano quel grado. Questi tali baroni hanno stati
e sudditi proprii, li quali ricognoscono per signori et
hanno in loro naturale affezione. Quelli stati che si governono
per uno principe e per servi hanno el loro principe con
più autorità; perché in tutta la sua provincia non è alcuno
che riconosca per superiore se non lui; e se obediscano
alcuno altro, lo fanno come ministro et offiziale, e non
li portano particulare amore.
Li esempli di queste dua diversità di governi sono, ne'
nostri tempi, el Turco et il re di Francia. Tutta la monarchia
del Turco è governata da uno signore, li altri sono sua
servi; e, distinguendo el suo regno in Sangiachi, vi manda
diversi amministratori, e li muta e varia come pare a lui.
Ma el re di Francia è posto in mezzo d'una moltitudine antiquata
di signori, in quello stato riconosciuti da' loro sudditi
et amati da quelli: hanno le loro preeminenzie: non le può
il re tòrre loro sanza suo periculo. Chi considera adunque
l'uno e l'altro di questi stati, troverrà difficultà nello
acquistare lo stato del Turco, ma, vinto che sia, facilità
grande a tenerlo. Le cagioni della difficultà in potere
occupare el regno del Turco sono per non potere essere chiamato
da' principi di quello regno, né sperare, con la rebellione
di quelli ch'egli ha d'intorno, potere facilitare la sua
impresa: il che nasce dalle ragioni sopradette. Perché sendoli
tutti stiavi et obbligati, si possono con più difficultà
corrompere; e, quando bene si corrompessino, se ne può sperare
poco utile, non possendo quelli tirarsi drieto e' populi
per le ragioni assignate. Onde, chi assalta il Turco, è
necessario pensare di averlo a trovare unito; e li conviene
sperare più nelle forze proprie che ne' disordini d'altri.
Ma, vinto che fussi e rotto alla campagna in modo che non
possa rifare eserciti, non si ha a dubitare d'altro che
del sangue del principe; il quale spento, non resta alcuno
di chi si abbia a temere, non avendo li altri credito con
li populi: e come el vincitore, avanti la vittoria, non
poteva sperare in loro, cosí non debbe, dopo quella, temere
di loro.
El contrario interviene ne' regni governati come quello
di Francia, perché con facilità tu puoi intrarvi, guadagnandoti
alcuno barone del regno; perché sempre si truova de' malicontenti
e di quelli che desiderano innovare. Costoro, per le ragioni
dette, ti possono aprire la via a quello stato e facilitarti
la vittoria; la quale di poi, a volerti mantenere, si tira
drieto infinite difficultà, e con quelli che ti hanno aiutato
e con quelli che tu hai oppressi. Né ti basta spegnere el
sangue del principe; perché vi rimangono quelli signori
che si fanno capi delle nuove alterazioni; e, non li potendo
né contentare né spegnere, perdi quello stato qualunque
volta venga la occasione.
Ora, se voi considerrete di qual natura di governi era
quello di Dario, lo troverrete simile al regno del Turco;
e però ad Alessandro fu necessario prima urtarlo tutto e
tòrli la campagna: dopo la quale vittoria, sendo Dario morto,
rimase ad Alessandro quello stato sicuro, per le ragioni
di sopra discorse. E li sua successori, se fussino suti
uniti, se lo potevano godere oziosi; né in quello regno
nacquono altri tumulti, che quelli che loro proprii suscitorono.
Ma li stati ordinati come quello di Francia è impossibile
possederli con tanta quiete. Di qui nacquono le spesse rebellioni
di Spagna, di Francia e di Grecia da' Romani, per li spessi
principati che erano in quelli stati: de' quali mentre durò
la memoria, sempre ne furono e' Romani incerti di quella
possessione; ma, spenta la memoria di quelli, con la potenzia
e diuturnità dello imperio ne diventorono securi possessori.
E posserno anche quelli, combattendo di poi infra loro,
ciascuno tirarsi drieto parte di quelle provincie, secondo
l'autorità vi aveva presa drento; e quelle, per essere el
sangue del loro antiquo signore spento, non riconoscevano
se non e' Romani. Considerato adunque tutte queste cose,
non si maraviglierà alcuno della facilità ebbe Alessandro
a tenere lo stato di Asia e delle difficultà che hanno avuto
li altri a conservare lo acquistato, come Pirro e molti.
Il che non è nato dalla molta o poca virtù del vincitore,
ma dalla disformità del subietto.
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Capitolo V
Quomodo administrandae
sunt civitates vel principatus, qui, antequam occuparentur
suis legibus vivebant.
[In che modo si debbino governare le città o principati
li quali, innanzi fussino occupati, si vivevano con le loro
legge.]
Quando quelli stati che s'acquistano, come è detto, sono
consueti a vivere con le loro legge et in libertà, a volerli
tenere, ci sono tre modi: el primo, ruinarle; l'altro, andarvi
ad abitare personalmente; el terzo, lasciarle vivere con
le sua legge, traendone una pensione e creandovi drento
uno stato di pochi che te le conservino amiche. Perché,
sendo quello stato creato da quello principe, sa che non
può stare sanza l'amicizia e potenzia sua, et ha a fare
tutto per mantenerlo. E più facilmente si tiene una città
usa a vivere libera con il mezzo de' sua cittadini, che
in alcuno altro modo, volendola preservare.
In exemplis ci sono li Spartani e li Romani. Li Spartani
tennono Atene e Tebe creandovi uno stato di pochi; tamen
le riperderono. Romani, per tenere Capua Cartagine e Numanzia,
le disfeciono, e non le perderono. Vollono tenere la Grecia
quasi come tennono li Spartani, faccendola libera e lasciandoli
le sua legge; e non successe loro: in modo che furono costretti
disfare molte città di quella provincia, per tenerla. Perché,
in verità, non ci è modo sicuro a possederle, altro che
la ruina. E chi diviene patrone di una città consueta a
vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di esser disfatto
da quella; perché sempre ha per refugio, nella rebellione,
el nome della libertà e li ordini antichi sua; li quali
né per la lunghezza de' tempi né per benefizii mai si dimenticano.
E per cosa che si faccia o si provegga, se non si disuniscano
o si dissipano li abitatori, non sdimenticano quel nome
né quelli ordini, e subito in ogni accidente vi ricorrono;
come fe' Pisa dopo cento anni che ella era posta in servitù
da' Fiorentini. Ma, quando le città o le provincie sono
use a vivere sotto uno principe, e quel sangue sia spento,
sendo da uno canto usi ad obedire, dall'altro non avendo
el principe vecchio, farne uno infra loro non si accordano,
vivere liberi non sanno; di modo che sono più tardi a pigliare
l'arme, e con più facilità se li può uno principe guadagnare
et assicurarsi di loro. Ma nelle repubbliche è maggiore
vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta; né li lascia,
né può lasciare riposare la memoria della antiqua libertà:
tale che la più sicura via è spegnerle o abitarvi.
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Capitolo VI
De principatibus novis
qui armis propriis et virtute acquiruntur.
[De' Principati nuovi che s'acquistano
con l'arme proprie e virtuosamente]
Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de'
principati al tutto nuovi e di principe e di stato, io addurrò
grandissimi esempli; perché, camminando li uomini quasi
sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle azioni
loro con le imitazioni, né si potendo le vie d'altri al
tutto tenere, né alla virtù di quelli che tu imiti aggiugnere,
debbe uno uomo prudente intrare sempre per vie battute da
uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare,
acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda
qualche odore: e fare come li arcieri prudenti, a' quali
parendo el loco dove disegnono ferire troppo lontano, e
conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono
la mira assai più alta che il loco destinato, non per aggiugnere
con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere, con
lo aiuto di sí alta mira, pervenire al disegno loro. Dico
adunque, che ne' principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo
principe, si trova a mantenerli più o meno difficultà, secondo
che più o meno è virtuoso colui che li acquista. E perché
questo evento di diventare di privato principe, presuppone
o virtù o fortuna, pare che l'una o l'altra di queste dua
cose mitighi in parte di molte difficultà: non di manco,
colui che è stato meno sulla fortuna, si è mantenuto più.
Genera ancora facilità essere el principe constretto, per
non avere altri stati, venire personaliter ad abitarvi.
Ma, per venire a quelli che per propria virtù e non per
fortuna sono diventati principi, dico che li più eccellenti
sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo e simili. E benché di Moisè
non si debba ragionare, sendo suto uno mero esecutore delle
cose che li erano ordinate da Dio, tamen debbe essere ammirato
solum per quella grazia che lo faceva degno di parlare con
Dio. Ma consideriamo Ciro e li altri che hanno acquistato
o fondato regni: li troverrete tutti mirabili; e se si considerranno
le azioni et ordini loro particulari, parranno non discrepanti
da quelli di Moisè, che ebbe sí gran precettore. Et esaminando
le azioni e vita loro, non si vede che quelli avessino altro
dalla fortuna che la occasione; la quale dette loro materia
a potere introdurvi drento quella forma parse loro; e sanza
quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta,
e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano.
Era dunque necessario a Moisè trovare el populo d'Isdrael,
in Egitto, stiavo et oppresso dalli Egizii, acciò che quelli,
per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo. Conveniva
che Romulo non capissi in Alba, fussi stato esposto al nascere,
a volere che diventassi re di Roma e fondatore di quella
patria. Bisognava che Ciro trovassi e' Persi malcontenti
dello imperio de' Medi, e li Medi molli et effeminati per
la lunga pace. Non posseva Teseo dimonstrare la sua virtù,
se non trovava li Ateniesi dispersi. Queste occasioni, per
tanto, feciono questi uomini felici, e la eccellente virtù
loro fece quella occasione esser conosciuta; donde la loro
patria ne fu nobilitata e diventò felicissima.
Quelli li quali per vie virtuose, simili a costoro, diventono
principi, acquistono el principato con difficultà, ma con
facilità lo tengano; e le difficultà che hanno nell'acquistare
el principato, in parte nascono da' nuovi ordini e modi
che sono forzati introdurre per fondare lo stato loro e
la loro securtà. E debbasi considerare come non è cosa più
difficile a trattare, né più dubia a riuscire, né più pericolosa
a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini.
Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli
ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli
che delli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza
nasce, parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi
dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li
quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono
nata una ferma esperienza. Donde nasce che qualunque volta
quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo
fanno partigianamente, e quelli altri defendano tepidamente;
in modo che insieme con loro si periclita. È necessario
per tanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare
se questi innovatori stiano per loro medesimi, o se dependano
da altri; ciò è, se per condurre l'opera loro bisogna che
preghino, ovvero possono forzare. Nel primo caso capitano
sempre male, e non conducano cosa alcuna; ma, quando dependono
da loro proprii e possano forzare, allora è che rare volte
periclitano. Di qui nacque che tutt'i profeti armati vinsono,
e li disarmati ruinorono. Perché, oltre alle cose dette,
la natura de' populi è varia; et è facile a persuadere loro
una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione.
E però conviene essere ordinato in modo, che, quando non
credono più, si possa fare loro credere per forza. Moisè,
Ciro, Teseo e Romulo non arebbono possuto fare osservare
loro lungamente le loro constituzioni, se fussino stati
disarmati; come ne' nostri tempi intervenne a fra' Girolamo
Savonerola; il quale ruinò ne' sua ordini nuovi, come la
moltitudine cominciò a non crederli; e lui non aveva modo
a tenere fermi quelli che avevano creduto, né a far credere
e' discredenti. Però questi tali hanno nel condursi gran
difficultà, e tutti e' loro periculi sono fra via, e conviene
che con la virtù li superino; ma, superati che li hanno,
e che cominciano ad essere in venerazione, avendo spenti
quelli che di sua qualità li avevano invidia, rimangono
potenti, securi, onorati, felici.
A sí alti esempli io voglio aggiugnere uno esemplo minore;
ma bene arà qualche proporzione con quelli; e voglio mi
basti per tutti li altri simili; e questo è Ierone Siracusano.
Costui, di privato diventò principe di Siracusa: né ancora
lui conobbe altro dalla fortuna che la occasione; perché,
sendo Siracusani oppressi, lo elessono per loro capitano;
donde meritò d'essere fatto loro principe. E fu di tanta
virtù, etiam in privata fortuna, che chi ne scrive, dice:
quod nihil illi deerat ad regnandum praeter regnum.
Costui spense la milizia vecchia, ordinò della nuova; lasciò
le amicizie antiche, prese delle nuove; e, come ebbe amicizie
e soldati che fussino sua, possé in su tale fondamento edificare
ogni edifizio: tanto che lui durò assai fatica in acquistare,
e poca in mantenere.
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Capitolo VII
De principatibus novis
qui alienis armis et fortuna acquiruntur.
[De' principati nuovi che s'acquistano con le armi e fortuna
di altri]
Coloro e' quali solamente per fortuna diventano, di privati
principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengano;
e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano;
ma tutte le difficultà nascono quando sono posti. E questi
tali sono, quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari
o per grazia di chi lo concede: come intervenne a molti
in Grecia, nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furono
fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua sicurtà
e gloria; come erano fatti ancora quelli imperatori che,
di privati, per corruzione de' soldati, pervenivano allo
imperio. Questi stanno semplicemente in sulla voluntà e
fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime
et instabili; e non sanno e non possano tenere quel grado:
non sanno, perché, se non è uomo di grande ingegno e virtù,
non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna,
sappi comandare; non possano, perché non hanno forze che
li possino essere amiche e fedeli. Di poi, li stati che
vengano subito, come tutte l'altre cose della natura che
nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e
correspondenzie loro in modo, che 'l primo tempo avverso
le spenga; se già quelli tali, come è detto, che sí de repente
sono diventati principi, non sono di tanta virtù che quello
che la fortuna ha messo loro in grembo, e' sappino subito
prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti che li altri
hanno fatto avanti che diventino principi, li faccino poi.
Io voglio all'uno et all'altro di questi modi detti, circa
el diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua
esempli stati ne' dí della memoria nostra: e questi sono
Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti
mezzi e con una gran virtù, di privato diventò duca di Milano;
e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca
fatica mantenne. Dall'altra parte Cesare Borgia, chiamato
dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna
del padre, e con quella lo perdé; non ostante che per lui
si usassi ogni opera e facessi tutte quelle cose che per
uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare, per mettere
le barbe sua in quelli stati che l'arme e fortuna di altri
li aveva concessi. Perché, come di sopra si disse, chi non
fa e' fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù farli
poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore
e periculo dello edifizio. Se adunque, si considerrà tutti
e' progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti gran fondamenti
alla futura potenzia; li quali non iudico superfluo discorrere,
perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno
principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua: e se li
ordini sua non li profittorono, non fu sua colpa, perché
nacque da una estraordinaria et estrema malignità di fortuna.
Aveva Alessandro sesto, nel volere fare grande el duca
suo figliuolo, assai difficultà presenti e future. Prima,
non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che
non fussi stato di Chiesia; e, volgendosi a tòrre quello
della Chiesia, sapeva che el duca di Milano e Viniziani
non gnene consentirebbano; perché Faenza e Rimino erano
di già sotto la protezione de' Viniziani. Vedeva, oltre
a questo, l'arme di Italia, e quelle in spezie di chi si
fussi possuto servire, essere in le mani di coloro che dovevano
temere la grandezza del papa; e però non se ne poteva fidare,
sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro complici. Era
adunque necessario si turbassino quelli ordini, e disordinare
li stati di coloro, per potersi insignorire securamente
di parte di quelli. Il che li fu facile; perché trovò Viniziani
che, mossi da altre cagioni, si eron volti a fare ripassare
Franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse,
ma lo fe' più facile con la resoluzione del matrimonio antiquo
del re Luigi. Passò, adunque, il re in Italia con lo aiuto
de' Viniziani e consenso di Alessandro; né prima fu in Milano,
che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna;
la quale li fu consentita per la reputazione del re. Acquistata,
adunque el duca la Romagna, e sbattuti e' Colonnesi, volendo
mantenere quella e procedere più avanti, lo 'mpedivano dua
cose: l'una, l'arme sua che non li parevano fedeli, l'altra,
la voluntà di Francia: ciò è che l'arme Orsine, delle quali
s'era valuto, li mancassino sotto, e non solamente li 'mpedissino
lo acquistare ma gli togliessino l'acquistato, e che il
re ancora non li facessi el simile. Delli Orsini ne ebbe
uno riscontro quando dopo la espugnazione di Faenza, assaltò
Bologna, ché li vidde andare freddi in quello assalto; e
circa el re, conobbe l'animo suo quando, preso el ducato
di Urbino, assaltò la Toscana: dalla quale impresa el re
lo fece desistere. Onde che il duca deliberò non dependere
più dalle arme e fortuna di altri. E, la prima cosa, indebolí
le parti Orsine e Colonnese in Roma; perché tutti li aderenti
loro che fussino gentili uomini, se li guadagnò, facendoli
sua gentili uomini e dando loro grandi provisioni; et onorolli,
secondo le loro qualità, di condotte e di governi: in modo
che in pochi mesi nelli animi loro l'affezione delle parti
si spense, e tutta si volse nel duca. Dopo questa, aspettò
la occasione di spegnere li Orsini, avendo dispersi quelli
di casa Colonna; la quale li venne bene, e lui la usò meglio;
perché, avvedutisi li Orsini, tardi, che la grandezza del
duca e della Chiesia era la loro ruina, feciono una dieta
alla Magione, nel Perugino. Da quella nacque la rebellione
di Urbino e li tumulti di Romagna et infiniti periculi del
duca, li quali tutti superò con lo aiuto de' Franzesi. E,
ritornatoli la reputazione, né si fidando di Francia né
di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si
volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l'animo suo,
che li Orsini, mediante el signor Paulo, si riconciliorono
seco; con il quale el duca non mancò d'ogni ragione di offizio
per assicurarlo, dandoli danari, veste e cavalli; tanto
che la simplicità loro li condusse a Sinigallia nelle sua
mani. Spenti adunque, questi capi, e ridotti li partigiani
loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti
alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato
di Urbino, parendoli, massime, aversi acquistata amica la
Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato
a gustare el bene essere loro.
E, perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata
da altri, non la voglio lasciare indrieto. Preso che ebbe
il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori
impotenti, li quali più presto avevano spogliato e' loro
sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione,
non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena
di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia,
iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e obediente
al braccio regio, darli buon governo. Però vi prepose messer
Remirro de Orco uomo crudele et espedito, al quale dette
pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica
et unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò el
duca non essere necessario sí eccessiva autorità, perché
dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudicio civile
nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo,
dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva
le rigorosità passate averli generato qualche odio, per
purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto,
volle monstrare che, se crudeltà alcuna era seguíta, non
era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E
presa sopr'a questo occasione, lo fece mettere una mattina,
a Cesena, in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di
legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del
quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere
satisfatti e stupidi.
Ma torniamo donde noi partimmo. Dico che, trovandosi el
duca assai potente et in parte assicurato de' presenti periculi,
per essersi armato a suo modo e avere in buona parte spente
quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, li restava,
volendo procedere con lo acquisto, el respetto del re di
Francia; perché conosceva come dal re, il quale tardi si
era accorto dello errore suo, non li sarebbe sopportato.
E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove, e vacillare
con Francia, nella venuta che feciono Franzesi verso el
regno di Napoli contro alli Spagnuoli che assediavono Gaeta.
E l'animo suo era assicurarsi di loro; il che li sarebbe
presto riuscito, se Alessandro viveva.
E questi furono e' governi sua quanto alle cose presenti.
Ma, quanto alle future, lui aveva a dubitare in prima che
uno nuovo successore alla Chiesia non li fussi amico e cercassi
torli quello che Alessandro li aveva dato: e pensò farlo
in quattro modi: prima, di spegnere tutti e' sangui di quelli
signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella
occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e' gentili uomini
di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere el papa
in freno; terzio, ridurre el Collegio più suo che poteva;
quarto, acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi,
che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto.
Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva
condotte tre; la quarta aveva quasi per condotta: perché
de' signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere,
e pochissimi si salvarono; e' gentili uomini romani si aveva
guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte; e, quanto
al nuovo acquisto, aveva disegnato diventare signore di
Toscana, e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa
aveva presa la protezione. E, come non avessi avuto ad avere
respetto a Francia (ché non gnene aveva ad avere più, per
essere di già Franzesi spogliati del Regno dalli Spagnoli,
di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare
l'amicizia sua), e' saltava in Pisa. Dopo questo, Lucca
e Siena cedeva subito, parte per invidia de' Fiorentini,
parte per paura; Fiorentini non avevano remedio: il che
se li fusse riuscito (ché li riusciva l'anno medesimo che
Alessandro morí), si acquistava tante forze e tanta reputazione,
che per sé stesso si sarebbe retto, e non sarebbe più dependuto
dalla fortuna e forze di altri, ma dalla potenzia e virtù
sua. Ma Alessandro morí dopo cinque anni che elli aveva
cominciato a trarre fuora la spada. Lasciollo con lo stato
di Romagna solamente assolidato, con tutti li altri in aria,
infra dua potentissimi eserciti inimici, e malato a morte.
Et era nel duca tanta ferocia e tanta virtù e sí bene conosceva
come li uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto
erano validi e' fondamenti che in sí poco tempo si aveva
fatti, che, se non avessi avuto quelli eserciti addosso,
o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà.
E ch'e' fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagna
l'aspettò più d'uno mese; in Roma, ancora che mezzo vivo,
stette sicuro; e benché Ballioni, Vitelli et Orsini venissino
in Roma, non ebbono séguito contro di lui: possé fare, se
non chi e' volle papa, almeno che non fussi chi non voleva.
Ma, se nella morte di Alessandro fussi stato sano, ogni
cosa li era facile. E lui mi disse, ne' dí che fu creato
Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere, morendo
el padre, et a tutto aveva trovato remedio, eccetto che
non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per
morire.
Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei
riprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile
a tutti coloro che per fortuna e con l'arme d'altri sono
ascesi allo imperio. Perché lui avendo l'animo grande e
la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti;
e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita
di Alessandro e la malattia sua. Chi, adunque, iudica necessario
nel suo principato nuovo assicurarsi de' nimici, guadagnarsi
delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare
e temere da' populi, seguire e reverire da' soldati, spegnere
quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con
nuovi modi li ordini antichi, essere severo e grato, magnanimo
e liberale, spegnere la milizia infidele, creare della nuova,
mantenere l'amicizie de' re e de' principi in modo che ti
abbino o a beneficare con grazia o offendere con respetto,
non può trovare e' più freschi esempli che le azioni di
costui. Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio
pontefice, nella quale lui ebbe mala elezione; perché, come
è detto, non possendo fare uno papa a suo modo, poteva tenere
che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papato
di quelli cardinali che lui avessi offesi, o che, diventati
papi, avessino ad avere paura di lui. Perché li uomini offendono
o per paura o per odio. Quelli che lui aveva offesi erano,
infra li altri, San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio,
Ascanio; tutti li altri, divenuti papi, aveano a temerlo,
eccetto Roano e li Spagnuoli: questi per coniunzione et
obligo; quello per potenzia, avendo coniunto seco el regno
di Francia. Per tanto el duca, innanzi ad ogni cosa, doveva
creare papa uno spagnolo, e, non potendo, doveva consentire
che fussi Roano e non San Piero ad Vincula. E chi crede
che ne' personaggi grandi e' benefizii nuovi faccino dimenticare
le iniurie vecchie, s'inganna. Errò, adunque, el duca in
questa elezione; e fu cagione dell'ultima ruina sua.
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