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Capitolo VIII
De his qui per scelera
ad principatum pervenere.
[Di quelli che per scelleratezze
sono venuti al principato]
Ma perché di privato si diventa principe ancora in dua
modi, il che non si può al tutto o alla fortuna o alla virtù
attribuire, non mi pare da lasciarli indrieto, ancora che
dell'uno si possa più diffusamente ragionare dove si trattassi
delle repubbliche. Questi sono quando, o per qualche via
scellerata e nefaria si ascende al principato, o quando
uno privato cittadino con il favore delli altri sua cittadini
diventa principe della sua patria. E, parlando del primo
modo, si monstrerrà con dua esempli, l'uno antiquo l'altro
moderno, sanza intrare altrimenti ne' meriti di questa parte,
perché io iudico che basti, a chi fussi necessitato, imitargli.
Agatocle siciliano, non solo di privata fortuna, ma di
infima et abietta, divenne re di Siracusa. Costui, nato
d'uno figulo, tenne sempre, per li gradi della sua età,
vita scellerata; non di manco accompagnò le sua scelleratezze
con tanta virtù di animo e di corpo, che, voltosi alla milizia,
per li gradi di quella pervenne ad essere pretore di Siracusa.
Nel quale grado sendo constituito, e avendo deliberato diventare
principe e tenere con violenzia e sanza obligo d'altri quello
che d'accordo li era suto concesso, et avuto di questo suo
disegno intelligenzia con Amilcare cartaginese, il quale
con li eserciti militava in Sicilia, raunò una mattina el
populo et il senato di Siracusa, come se elli avessi avuto
a deliberare cose pertinenti alla repubblica; et ad uno
cenno ordinato, fece da' sua soldati uccidere tutti li senatori
e li più ricchi del popolo. Li quali morti, occupò e tenne
el principato di quella città sanza alcuna controversia
civile. E, benché da' Cartaginesi fussi dua volte rotto
e demum assediato, non solum possé defendere la sua città,
ma, lasciato parte delle sue genti alla difesa della ossidione,
con le altre assaltò l'Affrica, et in breve tempo liberò
Siracusa dallo assedio e condusse Cartagine in estrema necessità:
e furono necessitati accordarsi con quello, esser contenti
della possessione di Affrica, et ad Agatocle lasciare la
Sicilia. Chi considerassi adunque le azioni e virtù di costui,
non vedrà cose, o poche, le quali possa attribuire alla
fortuna; con ciò sia cosa, come di sopra è detto, che non
per favore d'alcuno, ma per li gradi della milizia, li quali
con mille disagi e periculi si aveva guadagnati, pervenissi
al principato, e quello di poi con tanti partiti animosi
e periculosi mantenessi. Non si può ancora chiamare virtù
ammazzare li sua cittadini, tradire li amici, essere sanza
fede, sanza pietà, sanza relligione; li quali modi possono
fare acquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si considerassi
la virtù di Agatocle nello intrare e nello uscire de' periculi,
e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare
le cose avverse, non si vede perché elli abbia ad essere
iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano.
Non di manco, la sua efferata crudelità e inumanità, con
infinite scelleratezze, non consentono che sia infra li
eccellentissimi uomini celebrato. Non si può, adunque, attribuire
alla fortuna o alla virtù quello che sanza l'una e l'altra
fu da lui conseguito.
Ne' tempi nostri, regnante Alessandro VI, Oliverotto Firmiano,
sendo più anni innanzi rimaso piccolo, fu da uno suo zio
materno, chiamato Giovanni Fogliani, allevato, e ne' primi
tempi della sua gioventù dato a militare sotto Paulo Vitelli,
acciò che, ripieno di quella disciplina, pervenissi a qualche
eccellente grado di milizia. Morto di poi Paulo, militò
sotto Vitellozzo suo fratello; et in brevissimo tempo, per
essere ingegnoso, e della persona e dello animo gagliardo,
diventò el primo uomo della sua milizia. Ma, parendoli cosa
servile lo stare con altri, pensò, con lo aiuto di alcuni
cittadini di Fermo a' quali era più cara la servitù che
la libertà della loro patria, e con il favore vitellesco,
di occupare Fermo. E scrisse a Giovanni Fogliani come, sendo
stato più anni fuora di casa, voleva venire a vedere lui
e la sua città, et in qualche parte riconoscere el suo patrimonio:
e perché non s'era affaticato per altro che per acquistare
onore, acciò ch'e' sua cittadini vedessino come non aveva
speso el tempo in vano, voleva venire onorevole et accompagnato
da cento cavalli di sua amici e servidori; e pregavalo fussi
contento ordinare che da' Firmiani fussi ricevuto onoratamente;
il che non solamente tornava onore a lui, ma a sé proprio,
sendo suo allievo. Non mancò, per tanto Giovanni di alcuno
offizio debito verso el nipote; e fattolo ricevere da' Firmiani
onoratamente, si alloggiò nelle case sua: dove, passato
alcuno giorno, et atteso ad ordinare quello che alla sua
futura scelleratezza era necessario, fece uno convito solennissimo,
dove invitò Giovanni Fogliani e tutti li primi uomini di
Fermo. E, consumate che furono le vivande, e tutti li altri
intrattenimenti che in simili conviti si usano, Oliverotto,
ad arte, mosse certi ragionamenti gravi, parlando della
grandezza di papa Alessandro e di Cesare suo figliuolo,
e delle imprese loro. A' quali ragionamenti respondendo
Giovanni e li altri, lui a un tratto si rizzò, dicendo quelle
essere cose da parlarne in loco più secreto; e ritirossi
in una camera, dove Giovanni e tutti li altri cittadini
li andorono drieto. Né prima furono posti a sedere, che
de' luoghi secreti di quella uscirono soldati, che ammazzorono
Giovanni e tutti li altri. Dopo il quale omicidio, montò
Oliverotto a cavallo, e corse la terra, et assediò nel palazzo
el supremo magistrato; tanto che per paura furono constretti
obbedirlo e fermare uno governo, del quale si fece principe.
E, morti tutti quelli che, per essere malcontenti, lo potevono
offendere, si corroborò con nuovi ordini civili e militari;
in modo che, in spazio d'uno anno che tenne el principato,
lui non solamente era sicuro nella città di Fermo, ma era
diventato pauroso a tutti li sua vicini. E sarebbe suta
la sua espugnazione difficile come quella di Agatocle, se
non si fussi suto lasciato ingannare da Cesare Borgia, quando
a Sinigallia, come di sopra si disse, prese li Orsini e
Vitelli; dove, preso ancora lui, uno anno dopo el commisso
parricidio, fu, insieme con Vitellozzo, il quale aveva avuto
maestro delle virtù e scelleratezze sua, strangolato.
Potrebbe alcuno dubitare donde nascessi che Agatocle et
alcuno simile, dopo infiniti tradimenti e crudeltà, possé
vivere lungamente sicuro nella sua patria e defendersi dalli
inimici esterni, e da' sua cittadini non li fu mai conspirato
contro; con ciò sia che molti altri, mediante la crudeltà
non abbino, etiam ne' tempi pacifici, possuto mantenere
lo stato, non che ne' tempi dubbiosi di guerra. Credo che
questo avvenga dalle crudeltà male usate o bene usate. Bene
usate si possono chiamare quelle (se del male è licito dire
bene) che si fanno ad uno tratto, per necessità dello assicurarsi,
e di poi non vi si insiste drento ma si convertiscono in
più utilità de' sudditi che si può. Male usate sono quelle
le quali, ancora che nel principio sieno poche, più tosto
col tempo crescono che le si spenghino. Coloro che osservano
el primo modo, possono con Dio e con li uomini avere allo
stato loro qualche remedio, come ebbe Agatocle; quelli altri
è impossibile si mantenghino. Onde è da notare che, nel
pigliare uno stato, debbe l'occupatore di esso discorrere
tutte quelle offese che li è necessario fare; e tutte farle
a un tratto, per non le avere a rinnovare ogni dí, e potere,
non le innovando, assicurare li uomini e guadagnarseli con
beneficarli. Chi fa altrimenti, o per timidità o per mal
consiglio, è sempre necessitato tenere el coltello in mano;
né mai può fondarsi sopra li sua sudditi non si potendo
quelli per le fresche e continue iniurie assicurare di lui.
Perché le iniurie si debbono fare tutte insieme, acciò che,
assaporandosi meno, offendino meno: e' benefizii si debbono
fare a poco a poco, acciò che si assaporino meglio. E debbe,
sopr'a tutto, uno principe vivere con li suoi sudditi in
modo che veruno accidente o di male o di bene lo abbi a
far variare: perché, venendo per li tempi avversi le necessità,
tu non se' a tempo al male, et il bene che tu fai non ti
giova, perché è iudicato forzato, e non te n'è saputo grado
alcuno.
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Capitolo IX
De principatu civili.
[Del Principato Civile]
Ma venendo all'altra parte, quando uno privato cittadino,
non per scelleratezza o altra intollerabile violenzia, ma
con il favore delli altri sua cittadini diventa principe
della sua patria, il quale si può chiamare principato civile
(né a pervenirvi è necessario o tutta virtù o tutta fortuna,
ma più presto una astuzia fortunata), dico che si ascende
a questo principato o con il favore del populo o con il
favore de' grandi. Perché in ogni città si truovano questi
dua umori diversi; e nasce da questo, che il populo desidera
non essere comandato né oppresso da' grandi, e li grandi
desiderano comandare et opprimere el populo; e da questi
dua appetiti diversi nasce nelle città uno de' tre effetti,
o principato o libertà o licenzia.
El principato è causato o dal populo o da' grandi, secondo
che l'una o l'altra di queste parti ne ha occasione; perché,
vedendo e' grandi non potere resistere al populo, cominciano
a voltare la reputazione ad uno di loro, e fannolo principe
per potere sotto la sua ombra sfogare l'appetito loro. El
populo ancora, vedendo non potere resistere a' grandi, volta
la reputazione ad uno, e lo fa principe, per essere con
la autorità sua difeso. Colui che viene al principato con
lo aiuto de' grandi, si mantiene con più difficultà che
quello che diventa con lo aiuto del populo; perché si trova
principe con di molti intorno che li paiano essere sua eguali,
e per questo non li può né comandare né maneggiare a suo
modo. Ma colui che arriva al principato con il favore popolare,
vi si trova solo, e ha intorno o nessuno o pochissimi che
non sieno parati a obedire. Oltre a questo, non si può con
onestà satisfare a' grandi e sanza iniuria d'altri, ma sí
bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine
che quello de' grandi, volendo questi opprimere, e quello
non essere oppresso. Preterea, del populo inimico uno principe
non si può mai assicurare, per essere troppi; de' grandi
si può assicurare, per essere pochi. El peggio che possa
aspettare uno principe dal populo inimico, è lo essere abbandonato
da lui; ma da' grandi, inimici, non solo debbe temere di
essere abbandonato, ma etiam che loro li venghino contro;
perché, sendo in quelli più vedere e più astuzia, avanzono
sempre tempo per salvarsi, e cercono gradi con quelli che
sperano che vinca. È necessitato ancora el principe vivere
sempre con quello medesimo populo; ma può ben fare sanza
quelli medesimi grandi, potendo farne e disfarne ogni dí,
e tòrre e dare, a sua posta, reputazione loro.
E per chiarire meglio questa parte, dico come e' grandi
si debbono considerare in dua modi principalmente. O si
governano in modo, col procedere loro, che si obbligano
in tutto alla tua fortuna, o no. Quelli che si obbligano,
e non sieno rapaci, si debbono onorare et amare; quelli
che non si obbligano, si hanno ad esaminare in dua modi:
o fanno questo per pusillanimità e defetto naturale d'animo:
allora tu ti debbi servire di quelli massime che sono di
buono consiglio, perché nelle prosperità te ne onori, e
nelle avversità non hai da temerne. Ma, quando non si obbligano
ad arte e per cagione ambiziosa, è segno come pensano più
a sé che a te; e da quelli si debbe el principe guardare,
e temerli come se fussino scoperti inimici, perché sempre,
nelle avversità, aiuteranno ruinarlo.
Debbe, per tanto, uno che diventi principe mediante el
favore del populo, mantenerselo amico; il che li fia facile,
non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno
che contro al populo diventi principe con il favore de'
grandi, debbe innanzi a ogni altra cosa cercare di guadagnarsi
el populo: il che li fia facile, quando pigli la protezione
sua. E perché li uomini, quando hanno bene da chi credevano
avere male, si obbligano più al beneficatore loro, diventa
el populo subito più suo benivolo, che se si fussi condotto
al principato con favori sua: e puosselo el principe guadagnare
in molti modi, li quali, perché variano secondo el subietto,
non se ne può dare certa regola, e però si lasceranno indrieto.
Concluderò solo che a uno principe è necessario avere el
populo amico: altrimenti non ha, nelle avversità, remedio.
Nabide, principe delli Spartani, sostenne la ossidione
di tutta Grecia e di uno esercito romano vittoriosissimo,
e difese contro a quelli la patria sua et il suo stato:
e li bastò solo, sopravvenente il periculo, assicurarsi
di pochi: ché se elli avessi avuto el populo inimico, questo
non li bastava. E non sia alcuno che repugni a questa mia
opinione con quello proverbio trito, che chi fonda in
sul populo, fonda in sul fango: perché quello è vero,
quando uno cittadino privato vi fa su fondamento, e dassi
ad intendere che il populo lo liberi, quando fussi oppresso
da' nimici o da' magistrati. In questo caso si potrebbe
trovare spesso ingannato, come a Roma e' Gracchi et a Firenze
messer Giorgio Scali. Ma, sendo uno principe che vi fondi
su, che possa comandare e sia uomo di core, né si sbigottisca
nelle avversità, e non manchi delle altre preparazioni,
e tenga con l'animo et ordini sua animato l'universale,
mai si troverrà ingannato da lui, e li parrà avere fatto
li sua fondamenti buoni.
Sogliono questi principati periclitare quando sono per
salire dall'ordine civile allo assoluto; perché questi principi,
o comandano per loro medesimi, o per mezzo de' magistrati.
Nell'ultimo caso, è più debole e più periculoso lo stare
loro; perché gli stanno al tutto con la voluntà di quelli
cittadini che sono preposti a' magistrati: li quali, massime
ne' tempi avversi, li possono tòrre con facilità grande
lo stato, o con farli contro, o con non lo obedire. Et el
principe non è a tempo, ne' periculi, a pigliare l'autorità
assoluta; perché li cittadini e sudditi, che sogliono avere
e' comandamenti da' magistrati, non sono, in quelli frangenti,
per obedire a' sua; et arà sempre, ne' tempi dubii, penuria
di chi si possa fidare. Perché simile principe non può fondarsi
sopra a quello che vede ne' tempi quieti, quando e' cittadini
hanno bisogno dello stato; perché allora ognuno corre, ognuno
promette, e ciascuno vuole morire per lui, quando la morte
è discosto; ma ne' tempi avversi, quando lo stato ha bisogno
de' cittadini, allora se ne truova pochi. E tanto più è
questa esperienzia periculosa, quanto la non si può fare
se non una volta. E però uno principe savio debba pensare
uno modo per il quale li sua cittadini, sempre et in ogni
qualità di tempo, abbino bisogno dello stato e di lui: e
sempre poi li saranno fedeli.
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Capitolo X
Quomodo omnium principatuum
vires perpendi debeant.
[In che modo si debbino misurare le forze di tutti i principati]
Conviene avere, nello esaminare le qualità di questi principati,
un'altra considerazione: cioè, se uno principe ha tanto
stato che possa, bisognando, per sé medesimo reggersi, o
vero se ha sempre necessità della defensione di altri. E,
per chiarire meglio questa parte, dico come io iudico coloro
potersi reggere per sé medesimi, che possono, o per abundanzia
di uomini, o di denari, mettere insieme un esercito iusto,
e fare una giornata con qualunque li viene ad assaltare;
e cosí iudico coloro avere sempre necessità di altri, che
non possono comparire contro al nimico in campagna, ma sono
necessitati rifuggirsi drento alle mura e guardare quelle.
Nel primo caso, si è discorso; e per lo avvenire diremo
quello ne occorre. Nel secondo caso non si può dire altro,
salvo che confortare tali principi a fortificare e munire
la terra propria, e del paese non tenere alcuno conto. E
qualunque arà bene fortificata la sua terra, e circa li
altri governi con li sudditi si fia maneggiato come di sopra
è detto e di sotto si dirà, sarà sempre con grande respetto
assaltato; perché li uomini sono sempre nimici delle imprese
dove si vegga difficultà, né si può vedere facilità assaltando
uno che abbi la sua terra gagliarda e non sia odiato dal
populo.
Le città di Alamagna sono liberissime, hanno poco contado,
et obediscano allo imperatore quando le vogliono, e non
temono né quello né altro potente che e abbino intorno;
perché le sono in modo fortificate, che ciascuno pensa la
espugnazione di esse dovere essere tediosa e difficile.
Perché tutte hanno fossi e mura conveniente; hanno artiglierie
a sufficienzia; tengono sempre nelle cànove publiche da
bere e da mangiare e da ardere per uno anno; et oltre a
questo, per potere tenere la plebe pasciuta e sanza perdita
del pubblico, hanno sempre in comune per uno anno da potere
dare loro da lavorare in quelli esercizii che sieno el nervo
e la vita di quella città e delle industrie de' quali la
plebe pasca. Tengono ancora li esercizii militari in reputazione,
e sopra questo hanno molti ordini a mantenerli.
Uno principe, adunque, che abbi una città forte e non si
facci odiare, non può essere assaltato; e, se pure fussi
chi lo assaltassi, se ne partirà con vergogna; perché le
cose del mondo sono sí varie, che elli è quasi impossibile
che uno potessi con li eserciti stare uno anno ozioso a
campeggiarlo. E chi replicasse: se il populo arà le sue
possessioni fuora, e veggale ardere, non ci arà pazienza,
et il lungo assedio e la carità propria li farà sdimenticare
el principe; respondo che uno principe potente et animoso
supererà sempre tutte quelle difficultà, dando ora speranza
a' sudditi che el male non fia lungo, ora timore della crudeltà
del nimico, ora assicurandosi con destrezza di quelli che
li paressino troppo arditi. Oltre a questo, el nimico, ragionevolmente,
debba ardere e ruinare el paese in sulla sua giunta e ne'
tempi, quando li animi delli uomini sono ancora caldi e
volenterosi alla difesa; e però tanto meno el principe debbe
dubitare, perché, dopo qualche giorno, che li animi sono
raffreddi, sono di già fatti e' danni, sono ricevuti e'
mali, e non vi è più remedio; et allora tanto più si vengono
a unire con il loro principe, parendo che lui abbia con
loro obbligo sendo loro sute arse le case, ruinate le possessioni,
per la difesa sua. E la natura delli uomini è, cosí obbligarsi
per li benefizii che si fanno, come per quelli che si ricevano.
Onde, se si considerrà bene tutto, non fia difficile a uno
principe prudente tenere prima e poi fermi li animi de'
sua cittadini nella ossidione, quando non li manchi da vivere
né da difendersi.
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Capitolo XI
De principatibus ecclesiasticis.
[De' principati ecclesiastici]
Restaci solamente, al presente, a ragionare de' principati
ecclesiastici: circa quali tutte le difficultà sono avanti
che si possegghino: perché si acquistano o per virtù o per
fortuna, e sanza l'una e l'altra si mantengano; perché sono
sustentati dalli ordini antiquati nella religione, quali
sono suti tanto potenti e di qualità che tengono e' loro
principi in stato, in qualunque modo si procedino e vivino.
Costoro soli hanno stati, e non li defendano; sudditi, e
non li governano: e li stati, per essere indifesi, non sono
loro tolti; e li sudditi, per non essere governati, non
se ne curano, né pensano né possono alienarsi da loro. Solo,
adunque, questi principati sono sicuri e felici. Ma, sendo
quelli retti da cagioni superiore, alla quale mente umana
non aggiugne, lascerò el parlarne; perché, sendo esaltati
e mantenuti da Dio, sarebbe offizio di uomo prosuntuoso
e temerario discorrerne. Non di manco, se alcuno mi ricercassi
donde viene che la Chiesia, nel temporale, sia venuta a
tanta grandezza, con ciò sia che da Alessandro indrieto,
e' potentati italiani, et non solum quelli che si chiamavono
e' potentati, ma ogni barone e signore, benché minimo, quanto
al temporale, la estimava poco, et ora uno re di Francia
ne trema, e lo ha possuto cavare di Italia e ruinare Viniziani:
la qual cosa, ancora che sia nota, non mi pare superfluo
ridurla in buona parte alla memoria.
Avanti che Carlo re di Francia passassi in Italia, era
questa provincia sotto lo imperio del papa, Viniziani, re
di Napoli, duca di Milano e Fiorentini. Questi potentati
avevano ad avere dua cure principali: l'una, che uno forestiero
non entrassi in Italia con le arme; l'altra, che veruno
di loro occupassi più stato. Quelli a chi si aveva più cura
erano Papa e Viniziani. Et a tenere indrieto Viniziani,
bisognava la unione di tutti li altri, come fu nella difesa
di Ferrara; et a tenere basso el Papa, si servivano de'
baroni di Roma: li quali, sendo divisi in due fazioni, Orsini
e Colonnesi, sempre vi era cagione di scandolo fra loro;
e, stando con le arme in mano in su li occhi al pontefice,
tenevano el pontificato debole et infermo. E, benché surgessi
qualche volta uno papa animoso, come fu Sisto, tamen la
fortuna o il sapere non lo possé mai disobbligare da queste
incomodità. E la brevità della vita loro n'era cagione;
perché in dieci anni che, ragguagliato, viveva uno papa,
a fatica che potessi sbassare una delle fazioni; e se, verbigrazia,
l'uno aveva quasi spenti Colonnesi, surgeva un altro inimico
alli Orsini, che li faceva resurgere, e li Orsini non era
a tempo a spegnere. Questo faceva che le forze temporali
del papa erano poco stimate in Italia. Surse di poi Alessandro
VI, il quale, di tutt'i pontefici che sono stati mai, monstrò
quanto uno papa, e con il danaio e con le forze, si poteva
prevalere, e fece, con lo instrumento del duca Valentino
e con la occasione della passata de' Franzesi, tutte quelle
cose che io discorro di sopra nelle azioni del duca. E,
benché lo intento suo non fussi fare grande la Chiesia,
ma il duca, nondimeno ciò che fece tornò a grandezza della
Chiesia; la quale, dopo la sua morte, spento el duca, fu
erede delle sue fatiche. Venne di poi papa Iulio; e trovò
la Chiesia grande, avendo tutta la Romagna e sendo spenti
e' baroni di Roma e, per le battiture di Alessandro, annullate
quelle fazioni; e trovò ancora la via aperta al modo dello
accumulare danari, non mai più usitato da Alessandro indrieto.
Le quali cose Iulio non solum seguitò, ma accrebbe; e pensò
a guadagnarsi Bologna e spegnere e' Viniziani et a cacciare
Franzesi di Italia; e tutte queste imprese li riuscirono,
e con tanta più sua laude, quanto fece ogni cosa per accrescere
la Chiesia e non alcuno privato. Mantenne ancora le parti
Orsine e Colonnese in quelli termini che le trovò; e benché
tra loro fussi qualche capo da fare alterazione, tamen dua
cose li ha tenuti fermi: l'una, la grandezza della Chiesia,
che li sbigottisce; l'altra, el non avere loro cardinali,
li quali sono origine de' tumulti infra loro. Né mai staranno
quiete queste parti, qualunque volta abbino cardinali, perché
questi nutriscono, in Roma e fuora, le parti, e quelli baroni
sono forzati a defenderle: e cosí dalla ambizione de' prelati
nascono le discordie e li tumulti infra e' baroni. Ha trovato
adunque la Santità di papa Leone questo pontificato potentissimo:
il quale si spera, se quelli lo feciono grande con le arme,
questo, con la bontà e infinite altre sue virtù, lo farà
grandissimo e venerando.
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Capitolo XII
Quot sint genera militiae
et de mercennariis militibus.
[Di quante ragioni sia la milizia, e de' soldati mercennarii]
Avendo discorso particularmente tutte le qualità di quelli
principati de' quali nel principio proposi di ragionare,
e considerato in qualche parte le cagioni del bene e del
male essere loro, e monstro e' modi con li quali molti hanno
cerco di acquistarli e tenerli, mi resta ora a discorrere
generalmente le offese e difese che in ciascuno de' prenominati
possono accadere. Noi abbiamo detto di sopra, come a uno
principe è necessario avere e' sua fondamenti buoni; altrimenti,
conviene che rovini. E' principali fondamenti che abbino
tutti li stati, cosí nuovi come vecchi o misti, sono le
buone legge e le buone arme. E perché non può essere buone
legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene
sieno buone legge, io lascerò indrieto el ragionare delle
legge e parlerò delle arme.
Dico, adunque, che l'arme con le quali uno principe defende
el suo stato, o le sono proprie o le sono mercennarie, o
ausiliarie o miste. Le mercennarie et ausiliarie sono inutile
e periculose; e, se uno tiene lo stato suo fondato in sulle
arme mercennarie, non starà mai fermo né sicuro; perché
le sono disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedele;
gagliarde fra' li amici; fra ' nimici, vile; non timore
di Dio, non fede con li uomini, e tanto si differisce la
ruina quanto si differisce lo assalto; e nella pace se'
spogliato da loro, nella guerra da' nimici. La cagione di
questo è, che le non hanno altro amore né altra cagione
che le tenga in campo, che uno poco di stipendio, il quale
non è sufficiente a fare che voglino morire per te. Vogliono
bene essere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra; ma,
come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene. La qual cosa
doverrei durare poca fatica a persuadere, perché ora la
ruina di Italia non è causata da altro che per essere in
spazio di molti anni riposatasi in sulle arme mercennarie.
Le quali feciono già per qualcuno qualche progresso, e parevano
gagliarde infra loro; ma, come venne el forestiero, le mostrorono
quello che elle erano. Onde che a Carlo re di Francia fu
licito pigliare la Italia col gesso; e chi diceva come e'
n'erano cagione e' peccati nostri, diceva il vero; ma non
erano già quelli che credeva, ma questi che io ho narrati:
e perché elli erano peccati di principi, ne hanno patito
la pena ancora loro.
Io voglio dimonstrare meglio la infelicità di queste arme.
E' capitani mercennarii, o sono uomini eccellenti, o no:
se sono, non te ne puoi fidare, perché sempre aspireranno
alla grandezza propria, o con lo opprimere te che li se'
patrone, o con opprimere altri fuora della tua intenzione;
ma, se non è il capitano virtuoso, ti rovina per l'ordinario.
E se si responde che qualunque arà le arme in mano farà
questo, o mercennario o no, replicherei come l'arme hanno
ad essere operate o da uno principe o da una repubblica.
El principe debbe andare in persona, e fare lui l'offizio
del capitano; la repubblica ha a mandare sua cittadini;
e quando ne manda uno che non riesca valente uomo, debbe
cambiarlo; e quando sia, tenerlo con le leggi che non passi
el segno. E per esperienzia si vede a' principi soli e repubbliche
armate fare progressi grandissimi, et alle arme mercennarie
non fare mai se non danno. E con più difficultà viene alla
obedienza di uno suo cittadino una repubblica armata di
arme proprie, che una armata di armi esterne.
Stettono Roma e Sparta molti secoli armate e libere. Svizzeri
sono armatissimi e liberissimi. Delle arme mercennarie antiche
in exemplis sono Cartaginesi; li quali furono per essere
oppressi da' loro soldati mercennarii, finita la prima guerra
con li Romani, ancora che Cartaginesi avessino per capi
loro proprii cittadini. Filippo Macedone fu fatto da' Tebani,
dopo la morte di Epaminunda, capitano delle loro gente;
e tolse loro, dopo la vittoria, la libertà. Milanesi, morto
il duca Filippo, soldorono Francesco Sforza contro a' Viniziani;
il quale, superati li inimici a Caravaggio, si congiunse
con loro per opprimere e' Milanesi suoi patroni. Sforza
suo padre, sendo soldato della regina Giovanna di Napoli,
la lasciò in un tratto disarmata; onde lei, per non perdere
el regno, fu constretta gittarsi in grembo al re di Aragonia.
E, se Viniziani e Fiorentini hanno per lo adrieto cresciuto
lo imperio loro con queste arme, e li loro capitani non
se ne sono però fatti principi ma li hanno difesi, respondo
che Fiorentini in questo caso sono suti favoriti dalla sorte;
perché de' capitani virtuosi, de' quali potevano temere,
alcuni non hanno vinto, alcuni hanno avuto opposizione,
altri hanno volto la ambizione loro altrove. Quello che
non vinse fu Giovanni Aucut, del quale, non vincendo, non
si poteva conoscere la fede; ma ognuno confesserà che, vincendo,
stavano Fiorentini a sua discrezione. Sforza ebbe sempre
e' Bracceschi contrarii, che guardorono l'uno l'altro. Francesco
volse l'ambizione sua in Lombardia; Braccio contro alla
Chiesia et il regno di Napoli. Ma vegniamo a quello che
è seguito poco tempo fa. Feciono Fiorentini Paulo Vitelli
loro capitano, uomo prudentissimo, e che di privata fortuna
aveva presa grandissima reputazione. Se costui espugnava
Pisa, veruno fia che nieghi come conveniva a' Fiorentini
stare seco; perché, se fussi diventato soldato di loro nemici,
non avevano remedio; e se lo tenevano, aveano ad obedirlo.
Viniziani, se si considerrà e' progressi loro, si vedrà
quelli avere securamente e gloriosamente operato mentre
ferono la guerra loro proprii: che fu avanti che si volgessino
con le loro imprese in terra: dove co' gentili uomini e
con la plebe armata operorono virtuosissimamente; ma, come
cominciorono a combattere in terra, lasciorono questa virtù,
e seguitorono e' costumi delle guerre di Italia. E nel principio
dello augumento loro in terra, per non vi avere molto stato
e per essere in grande reputazione, non aveano da temere
molto de' loro capitani; ma, come ellino ampliorono, che
fu sotto el Carmignola, ebbono uno saggio di questo errore.
Perché, vedutolo virtuosissimo, battuto che ebbono sotto
il suo governo el duca di Milano, e conoscendo da altra
parte come elli era raffreddo nella guerra, iudicorono con
lui non potere più vincere, perché non voleva, né potere
licenziarlo, per non riperdere ciò che aveano acquistato;
onde che furono necessitati, per assicurarsene, ammazzarlo.
Hanno di poi avuto per loro capitani Bartolomeo da Bergamo,
Ruberto da San Severino, Conte di Pitigliano, e simili;
con li quali aveano a temere della perdita, non del guadagno
loro: come intervenne di poi a Vailà, dove, in una giornata,
perderono quello che in ottocento anni, con tanta fatica,
avevano acquistato. Perché da queste armi nascono solo e'
lenti, tardi e deboli acquisti, e le subite e miraculose
perdite. E, perché io sono venuto con questi esempli in
Italia, la quale è stata governata molti anni dalle arme
mercennarie, le voglio discorrere, e più da alto, acciò
che, veduto l'origine e progressi di esse, si possa meglio
correggerle.
Avete dunque a intendere come, tosto che in questi ultimi
tempi lo imperio cominciò a essere ributtato di Italia,
e che il papa nel temporale vi prese più reputazione, si
divise la Italia in più stati; perché molte delle città
grosse presono l'arme contra a' loro nobili, li quali, prima
favoriti dallo imperatore, le tennono oppresse; e la Chiesia
le favoriva per darsi reputazione nel temporale; di molte
altre e' loro cittadini ne diventorono principi. Onde che,
essendo venuta l'Italia quasi che nelle mani della Chiesia
e di qualche Repubblica, et essendo quelli preti e quelli
altri cittadini usi a non conoscere arme, cominciorono a
soldare forestieri. El primo che dette reputazione a questa
milizia fu Alberigo da Conio, romagnolo. Dalla disciplina
di costui discese, intra li altri, Braccio e Sforza, che
ne' loro tempi furono arbitri di Italia. Dopo questi, vennono
tutti li altri che fino a' nostri tempi hanno governato
queste arme. Et il fine della loro virtù è stato, che Italia
è suta corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando
e vituperata da' Svizzeri. L'ordine che ellino hanno tenuto,
è stato, prima, per dare reputazione a loro proprii, avere
tolto reputazione alle fanterie. Feciono questo, perché,
sendo sanza stato et in sulla industria, e' pochi fanti
non davano loro reputazione, e li assai non potevano nutrire;
e però si ridussono a' cavalli, dove con numero sopportabile
erano nutriti et onorati. Et erono ridotte le cose in termine,
che in uno esercito di ventimila soldati non si trovava
dumila fanti. Avevano, oltre a questo, usato ogni industria
per levare a sé et a' soldati la fatica e la paura, non
si ammazzando nelle zuffe, ma pigliandosi prigioni e sanza
taglia. Non traevano la notte alle terre; quelli delle terre
non traevano alle tende; non facevano intorno al campo né
steccato né fossa; non campeggiavano el verno. E tutte queste
cose erano permesse ne' loro ordini militari, e trovate
da loro per fuggire, come è detto, e la fatica e li pericoli:
tanto che li hanno condotta Italia stiava e vituperata.
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Capitolo XIII
De militibus auxiliariis,
mixtis et propriis.
[De' soldati ausiliarii, misti e proprii]
L'armi ausiliarie, che sono l'altre armi inutili, sono
quando si chiama uno potente che con le arme sue ti venga
ad aiutare e defendere: come fece ne' prossimi tempi papa
Iulio; il quale, avendo visto nella impresa di Ferrara la
trista pruova delle sue armi mercennarie, si volse alle
ausiliarie, e convenne con Ferrando re di Spagna che con
le sua gente et eserciti dovesse aiutarlo. Queste arme possono
essere utile e buone per loro medesime, ma sono, per chi
le chiama, quasi sempre dannose: perché, perdendo rimani
disfatto, vincendo, resti loro prigione. Et ancora che di
questi esempli ne siano piene le antiche istorie, non di
manco io non mi voglio partire da questo esemplo fresco
di papa Iulio II; el partito del quale non possé essere
manco considerato, per volere Ferrara, cacciarsi tutto nelle
mani d'uno forestiere. Ma la sua buona fortuna fece nascere
una terza cosa, acciò non cogliessi el frutto della sua
mala elezione: perché, sendo li ausiliari sua rotti a Ravenna,
e surgendo e' Svizzeri che cacciorono e' vincitori, fuora
d'ogni opinione e sua e d'altri, venne a non rimanere prigione
delli inimici, sendo fugati, né delli ausiliarii sua, avendo
vinto con altre arme che con le loro. Fiorentini, sendo
al tutto disarmati, condussono diecimila Franzesi a Pisa
per espugnarla: per il quale partito portorono più pericolo
che in qualunque tempo de' travagli loro. Lo imperatore
di Costantinopoli, per opporsi alli sua vicini, misse in
Grecia diecimila Turchi; li quali, finita la guerra, non
se ne volsono partire: il che fu principio della servitù
di Grecia con li infedeli.
Colui, adunque, che vuole non potere vincere, si vaglia
di queste arme, perché sono molto più pericolose che le
mercennarie: perché in queste è la ruina fatta: sono tutte
unite, tutte volte alla obedienza di altri; ma nelle mercennarie,
ad offenderti, vinto che le hanno, bisogna più tempo e maggiore
occasione, non sendo tutto uno corpo, et essendo trovate
e pagate da te; nelle quali uno terzo che tu facci capo,
non può pigliare subito tanta autorità che ti offenda. In
somma, nelle mercennarie è più pericolosa la ignavia, nelle
ausiliarie, la virtù.
Uno principe, per tanto, savio, sempre ha fuggito queste
arme, e voltosi alle proprie; et ha volsuto più tosto perdere
con li sua che vincere con li altri, iudicando non vera
vittoria quella che con le armi aliene si acquistassi. Io
non dubiterò mai di allegare Cesare Borgia e le sue azioni.
Questo duca intrò in Romagna con le armi ausiliarie, conducendovi
tutte gente franzese, e con quelle prese Imola e Furlí,
ma non li parendo poi tale arme sicure, si volse alle mercennarie,
iudicando in quelle manco periculo; e soldò li Orsini e
Vitelli. Le quali poi nel maneggiare trovando dubie et infideli
e periculose, le spense, e volsesi alle proprie. E puossi
facilmente vedere che differenzia è infra l'una e l'altra
di queste arme, considerato che differenzia fu dalla reputazione
del duca, quando aveva Franzesi soli e quando aveva li Orsini
e Vitelli, a quando rimase con li soldati sua e sopr'a sé
stesso e sempre si troverrà accresciuta; né mai fu stimato
assai, se non quando ciascuno vidde che lui era intero possessore
delle sue arme.
Io non mi volevo partire dalli esempli italiani e freschi;
tamen non voglio lasciare indrieto Ierone Siracusano, sendo
uno de' soprannominati da me. Costui, come io dissi, fatto
da' Siracusani capo delli eserciti, conobbe subito quella
milizia mercennaria non essere utile, per essere conduttieri
fatti come li nostri italiani; e, parendoli non li possere
tenere né lasciare, li fece tutti tagliare a pezzi: e di
poi fece guerra con le arme sua e non con le aliene. Voglio
ancora ridurre a memoria una figura del Testamento Vecchio
fatta a questo proposito. Offerendosi David a Saul di andare
a combattere con Golia, provocatore filisteo, Saul, per
dargli animo, l'armò dell'arme sua, le quali, come David
ebbe indosso, recusò, dicendo con quelle non si potere bene
valere di sé stesso, e però voleva trovare el nimico con
la sua fromba e con il suo coltello.
In fine, l'arme d'altri, o le ti caggiono di dosso o le
ti pesano o le ti stringano. Carlo VII, padre del re Luigi
XI, avendo, con la sua fortuna e virtù, libera Francia dalli
Inghilesi, conobbe questa necessità di armarsi di arme proprie,
e ordinò nel suo regno l'ordinanza delle gente d'arme e
delle fanterie. Di poi el re Luigi suo figliuolo spense
quella de' fanti, e cominciò a soldare Svizzeri: il quale
errore, seguitato dalli altri, è, come si vede ora in fatto,
cagione de' pericoli di quello regno. Perché, avendo dato
reputazione a' Svizzeri, ha invilito tutte l'arme sua; perché
le fanterie ha spento e le sua gente d'arme ha obligato
alle arme d'altri; perché, sendo assuefatte a militare con
Svizzeri, non par loro di potere vincere sanza essi. Di
qui nasce che Franzesi contro a Svizzeri non bastano, e
sanza Svizzeri, contro ad altri non pruovano. Sono dunque
stati li eserciti di Francia misti, parte mercennarii e
parte proprii: le quali arme tutte insieme sono molto migliori
che le semplici ausiliarie o le semplici mercennarie, e
molto inferiore alle proprie. E basti lo esemplo detto;
perché el regno di Francia sarebbe insuperabile, se l'ordine
di Carlo era accresciuto o preservato. Ma la poca prudenzia
delli uomini comincia una cosa, che, per sapere allora di
buono, non si accorge del veleno che vi è sotto: come io
dissi, di sopra delle febbre etiche.
Per tanto colui che in uno principato non conosce e' mali
quando nascono, non è veramente savio; e questo è dato a
pochi. E, se si considerassi la prima ruina dello Imperio
romano, si troverrà essere suto solo cominciare a soldare
e' Goti; perché da quello principio cominciorono a enervare
le forze dello Imperio romano; e tutta quella virtù che
si levava da lui si dava a loro. Concludo, adunque, che,
sanza avere arme proprie, nessuno principato è sicuro; anzi
è tutto obligato alla fortuna, non avendo virtù che nelle
avversità lo difenda. E fu sempre opinione e sentenzia delli
uomini savi, quod nihil sit tam infirmum aut instabile
quam fama potentiae non sua vi nixa. E l'arme proprie
son quelle che sono composte o di sudditi o di cittadini
o di creati tua: tutte l'altre sono o mercennarie o ausiliarie.
Et il modo ad ordinare l'arme proprie sarà facile a trovare,
se si discorrerà li ordini de' quattro sopra nominati da
me, e se si vedrà come Filippo, padre di Alessandro Magno,
e come molte repubbliche e principi si sono armati et ordinati:
a' quali ordini io al tutto mi rimetto.
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