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Capitolo XX
An arces et multa alia
quae cotidie a principibus fiunt utilia an inutilia sint.
[Se le fortezze e molte altre
cose, che ogni giorno si fanno da' principi, sono utili
o no]
Alcuni principi, per tenere securamente lo stato, hanno
disarmato e' loro sudditi; alcuni altri hanno tenuto divise
le terre subiette; alcuni hanno nutrito inimicizie contro
a sé medesimi; alcuni altri si sono volti a guadagnarsi
quelli che li erano suspetti nel principio del suo stato;
alcuni hanno edificato fortezze; alcuni le hanno ruinate
e destrutte. E benché di tutte queste cose non vi possa
dare determinata sentenzia, se non si viene a' particulari
di quelli stati dove si avessi a pigliare alcuna simile
deliberazione, non di manco io parlerò in quel modo largo
che la materia per sé medesima sopporta.
Non fu mai, adunque, che uno principe nuovo disarmassi
e' sua sudditi; anzi, quando li ha trovati disarmati, li
ha sempre armati; perché, armandosi, quelle arme diventono
tua, diventono fedeli quelli che ti sono sospetti, e quelli
che erano fedeli si mantengono e di sudditi si fanno tua
partigiani. E perché tutti sudditi non si possono armare,
quando si benefichino quelli che tu armi, con li altri si
può fare più a sicurtà: e quella diversità del procedere
che conoscono in loro, li fa tua obbligati; quelli altri
ti scusano, iudicando essere necessario, quelli avere più
merito che hanno più periculo e più obligo. Ma, quando tu
li disarmi, tu cominci ad offenderli, monstri che tu abbi
in loro diffidenzia o per viltà o per poca fede: e l'una
e l'altra di queste opinioni concepe odio contro di te.
E perché tu non puoi stare disarmato, conviene ti volti
alla milizia mercennaria, la quale è di quella qualità che
di sopra è detto; e, quando la fussi buona, non può essere
tanta, che ti difenda da' nimici potenti e da' sudditi sospetti.
Però, come io ho detto, uno principe nuovo in uno principato
nuovo sempre vi ha ordinato l'arme. Di questi esempli sono
piene le istorie. Ma, quando uno principe acquista uno stato
nuovo, che come membro si aggiunga al suo vecchio, allora
è necessario disarmare quello stato, eccetto quelli che
nello acquistarlo sono suti tua partigiani; e quelli ancora,
col tempo e con le occasioni, è necessario renderli molli
et effeminati, et ordinarsi in modo che tutte l'arme del
tuo stato sieno in quelli soldati tua proprii, che nello
stato tuo antiquo vivono appresso di te.
Solevano li antiqui nostri, e quelli che erano stimati
savi, dire come era necessario tenere Pistoia con le parti
e Pisa con le fortezze; e per questo nutrivano in qualche
terra loro suddita le differenzie, per possederle più facilmente.
Questo, in quelli tempi che Italia era in uno certo modo
bilanciata, doveva essere ben fatto; ma non credo che si
possa dare oggi per precetto: perché io non credo che le
divisioni facessino mai bene alcuno; anzi è necessario,
quando il nimico si accosta che le città divise si perdino
subito; perché sempre la parte più debole si aderirà alle
forze esterne, e l'altra non potrà reggere.
E' Viniziani, mossi, come io credo, dalle ragioni soprascritte,
nutrivano le sètte guelfe e ghibelline nelle città loro
suddite; e benché non li lasciassino mai venire al sangue,
tamen nutrivano fra loro questi dispareri, acciò che, occupati
quelli cittadini in quelle loro differenzie, non si unissino
contro di loro. Il che, come si vide, non tornò loro poi
a proposito; perché sendo rotti a Vailà, subito una parte
di quelle prese ardire, e tolsono loro tutto lo stato. Arguiscano,
per tanto, simili modi debolezza del principe, perché in
uno principato gagliardo mai si permetteranno simili divisioni;
perché le fanno solo profitto a tempo di pace, potendosi
mediante quelle più facilmente maneggiare e' sudditi; ma,
venendo la guerra, monstra simile ordine la fallacia sua.
Sanza dubbio e' principi diventano grandi, quando superano
le difficultà e le opposizioni che sono fatte loro; e però
la fortuna, massime quando vuol fare grande uno principe
nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione
che uno ereditario, gli fa nascere de' nemici, e li fa fare
delle imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle,
e su per quella scala che li hanno pòrta e' nimici sua,
salire più alto. Però molti iudicano che uno principe savio
debbe, quando ne abbi la occasione, nutrirsi con astuzia
qualche inimicizia, acciò che, oppresso quella, ne seguiti
maggiore sua grandezza.
Hanno e' principi, et praesertim quelli che sono nuovi,
trovato più fede e più utilità in quelli uomini che nel
principio del loro stato sono suti tenuti sospetti, che
in quelli che nel principio erano confidenti. Pandolfo Petrucci,
principe di Siena, reggeva lo stato suo più con quelli che
li furono sospetti che con li altri. Ma di questa cosa non
si può parlare largamente, perché la varia secondo el subietto.
Solo dirò questo, che quelli uomini che nel principio di
uno principato erono stati inimici, che sono di qualità
che a mantenersi abbino bisogno di appoggiarsi, sempre el
principe con facilità grandissima se li potrà guadagnare;
e loro maggiormente sono forzati a servirlo con fede, quanto
conoscano esser loro più necessario cancellare con le opere
quella opinione sinistra che si aveva di loro. E cosí el
principe ne trae sempre più utilità, che di coloro che,
servendolo con troppa sicurtà, straccurono le cose sua.
E poiché la materia lo ricerca, non voglio lasciare indrieto
ricordare a' principi, che hanno preso uno stato di nuovo
mediante e' favori intrinseci di quello, che considerino
bene qual cagione abbi mosso quelli che lo hanno favorito,
a favorirlo; e, se ella non è affezione naturale verso di
loro, ma fussi solo perché quelli non si contentavano di
quello stato, con fatica e difficultà grande se li potrà
mantenere amici, perché e' fia impossibile che lui possa
contentarli. E discorrendo bene, con quelli esempli che
dalle cose antiche e moderne si traggono, la cagione di
questo, vedrà esserli molto più facile guadagnarsi amici
quelli uomini che dello stato innanzi si contentavono, e
però erano sua inimici, che quelli che, per non se ne contentare
li diventorono amici e favorironlo a occuparlo.
È suta consuetudine de' principi, per potere tenere più
securamente lo stato loro, edificare fortezze, che sieno
la briglia e il freno di quelli che disegnassino fare loro
contro, et avere uno refugio securo da uno subito impeto.
Io laudo questo modo, perché elli è usitato ab antiquo:
non di manco messer Niccolò Vitelli, ne' tempi nostri, si
è visto disfare dua fortezze in Città di Castello, per tenere
quello stato. Guido Ubaldo, duca di Urbino, ritornato nella
sua dominazione, donde da Cesare Borgia era suto cacciato,
ruinò funditus tutte le fortezze di quella provincia, e
iudicò sanza quelle più difficilmente riperdere quello stato.
Bentivogli, ritornati in Bologna, usorono simili termini.
Sono, dunque, le fortezze utili o no, secondo e' tempi:
e se le ti fanno bene in una parte, ti offendano in un'altra.
E puossi discorrere questa parte cosí: quel principe che
ha più paura de' populi che de' forestieri, debbe fare le
fortezze; ma quello che ha più paura de' forestieri che
de' populi, debbe lasciarle indrieto. Alla casa Sforzesca
ha fatto e farà più guerra el castello di Milano, che vi
edificò Francesco Sforza, che alcuno altro disordine di
quello stato. Però la migliore fortezza che sia, è non essere
odiato dal populo; perché, ancora che tu abbi le fortezze,
et il populo ti abbi in odio, le non ti salvono; perché
non mancano mai a' populi, preso che li hanno l'armie forestieri
che li soccorrino. Ne' tempi nostri non si vede che quelle
abbino profittato ad alcuno principe, se non alla contessa
di Furlí, quando fu morto el conte Girolamo suo consorte;
perché mediante quella possé fuggire l'impeto populare,
et aspettare el soccorso da Milano, e recuperare lo stato.
E li tempi stavano allora in modo, che il forestiere non
posseva soccorrere el populo; ma di poi, valsono ancora
a poco lei le fortezze, quando Cesare Borgia l'assaltò,
e che il populo suo inimico si coniunse co' forestieri.
Per tanto allora e prima sarebbe suto più sicuro a lei non
essere odiata dal populo, che avere le fortezze. Considerato,
adunque, tutte queste cose, io lauderò chi farà le fortezze
e chi non le farà, e biasimerò qualunque, fidandosi delle
fortezze, stimerà poco essere odiato da' populi.
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Capitolo XXI
Quod principem deceat
ut egregius habeatur.
[Che si conviene a un principe perché sia stimato]
Nessuna cosa fa tanto stimare uno principe, quanto fanno
le grandi imprese e dare di sé rari esempli. Noi abbiamo
ne' nostri tempi Ferrando di Aragonia, presente re di Spagna.
Costui si può chiamare quasi principe nuovo, perché, d'uno
re debole, è diventato per fama e per gloria el primo re
de' Cristiani; e, se considerrete le azioni sua, le troverrete
tutte grandissime e qualcuna estraordinaria. Lui nel principio
del suo regno assaltò la Granata; e quella impresa fu il
fondamento dello stato suo. Prima, e' la fece ozioso, e
sanza sospetto di essere impedito: tenne occupati in quella
li animi di quelli baroni di Castiglia, li quali, pensando
a quella guerra, non pensavano a innovare; e lui acquistava
in quel mezzo reputazione et imperio sopra di loro, che
non se ne accorgevano. Possé nutrire con danari della Chiesia
e de' populi eserciti, e fare uno fondamento, con quella
guerra lunga, alla milizia sua, la quale lo ha di poi onorato.
Oltre a questo, per possere intraprendere maggiori imprese,
servendosi sempre della relligione, si volse ad una pietosa
crudeltà, cacciando e spogliando, el suo regno, de' Marrani;
né può essere questo esemplo più miserabile né più raro.
Assaltò, sotto questo medesimo mantello, l'Affrica; fece
l'impresa di Italia; ha ultimamente assaltato la Francia:
e cosí sempre ha fatte et ordite cose grandi, le quali sempre
hanno tenuto sospesi et ammirati li animi de' sudditi e
occupati nello evento di esse. E sono nate queste sua azioni
in modo l'una dall'altra, che non ha dato mai, infra l'una
e l'altra, spazio alli uomini di potere quietamente operarli
contro.
Giova ancora assai a uno principe dare di sé esempli rari
circa governi di dentro, simili a quelli che si narrano
di messer Bernabò da Milano, quando si ha l'occasione di
qualcuno che operi qualche cosa estraordinaria, o in bene
o in male, nella vita civile, e pigliare uno modo, circa
premiarlo o punirlo, di che s'abbia a parlare assai. E sopra
tutto uno principe si debbe ingegnare dare di sé in ogni
sua azione fama di uomo grande e di uomo eccellente.
È ancora stimato uno principe, quando elli è vero amico
e vero inimico, cioè quando sanza alcuno respetto si scuopre
in favore di alcuno contro ad un altro. Il quale partito
fia sempre più utile che stare neutrale: perché, se dua
potenti tua vicini vengono alle mani, o sono di qualità
che, vincendo uno di quelli, tu abbia a temere del vincitore,
o no. In qualunque di questi dua casi, ti sarà sempre più
utile lo scoprirti e fare buona guerra; perché nel primo
caso, se non ti scuopri, sarai sempre preda di chi vince,
con piacere e satisfazione di colui che è stato vinto, e
non hai ragione né cosa alcuna che ti defenda né che ti
riceva. Perché, chi vince, non vuole amici sospetti e che
non lo aiutino nelle avversità; chi perde, non ti riceve,
per non avere tu voluto con le arme in mano correre la fortuna
sua.
Era passato in Grecia Antioco, messovi dalli Etoli per
cacciarne Romani. Mandò Antioco ambasciatori alli Achei,
che erano amici de' Romani, a confortarli a stare di mezzo;
e da altra parte Romani li persuadevano a pigliare le arme
per loro. Venne questa materia a deliberarsi nel concilio
delli Achei, dove el legato di Antioco li persuadeva a stare
neutrali: a che el legato romano respose: "Quod
autem isti dicunt non interponendi vos bello, nihil magis
alienum rebus vestris est; sine gratia, sine dignitate,
praemium victoris eritis".
E sempre interverrà che colui che non è amico ti ricercherà
della neutralità, e quello che ti è amico ti richiederà
che ti scuopra con le arme. E li principi mal resoluti per
fuggire e' presenti periculi, seguono el più delle volte
quella via neutrale, e il più delle volte rovinano. Ma,
quando el principe si scuopre gagliardamente in favore d'una
parte, se colui con chi tu ti aderisci vince, ancora che
sia potente e che tu rimanga a sua discrezione, elli ha
teco obligo, e vi è contratto l'amore; e li uomini non sono
mai sí disonesti, che con tanto esemplo di ingratitudine
ti opprimessino. Di poi, le vittorie non sono mai sí stiette,
che il vincitore non abbi ad avere qualche respetto, e massime
alla giustizia. Ma, se quello con il quale tu ti aderisci
perde, tu se' ricevuto da lui; e mentre che può ti aiuta,
e diventi compagno d'una fortuna che può resurgere. Nel
secondo caso, quando quelli che combattono insieme sono
di qualità che tu non abbia a temere, tanto è maggiore prudenzia
lo aderirsi; perché tu vai alla ruina d'uno con lo aiuto
di chi lo doverrebbe salvare, se fussi savio; e, vincendo,
rimane a tua discrezione, et è impossibile, con lo aiuto
tuo, che non vinca.
E qui è da notare, che uno principe debbe avvertire di
non fare mai compagnia con uno più potente di sé per offendere
altri, se non quando la necessità lo stringe, come di sopra
si dice; perché, vincendo, rimani suo prigione: e li principi
debbono fuggire, quanto possono, lo stare a discrezione
di altri. Viniziani si accompagnorono con Francia contro
al duca di Milano, e potevono fuggire di non fare quella
compagnia; di che ne resultò la ruina loro. Ma, quando non
si può fuggirla, come intervenne a' Fiorentini, quando el
papa e Spagna andorono con li eserciti ad assaltare la Lombardia,
allora si debba el principe aderire per le ragioni sopradette.
Né creda mai alcuno stato potere pigliare partiti securi,
anzi pensi di avere a prenderli tutti dubii; perché si truova
questo nell'ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire
uno inconveniente che non si incorra in uno altro; ma la
prudenzia consiste in sapere conoscere le qualità delli
inconvenienti, e pigliare il men tristo per buono.
Debbe ancora uno principe monstrarsi amatore delle virtù,
et onorare li eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare
li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii
loro, e nella mercanzia e nella agricultura, et in ogni
altro esercizio delli uomini, e che quello non tema di ornare
le sua possessione per timore che le li sieno tolte, e quell'altro
di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma debbe
preparare premi a chi vuol fare queste cose, et a qualunque
pensa, in qualunque modo ampliare la sua città o il suo
stato. Debbe, oltre a questo, ne' tempi convenienti dell'anno,
tenere occupati e' populi con le feste e spettaculi. E,
perché ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere
conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta,
dare di sé esempli di umanità e di munificenzia, tenendo
sempre ferma non di manco la maestà della dignità sua, perché
questo non vuole mai mancare in cosa alcuna.
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Capitolo XXII
De his quos a secretis
principes habent.
[De' secretarii ch'e' principi
hanno appresso di loro]
Non è di poca importanzia a uno principe la elezione de'
ministri: li quali sono buoni o no, secondo la prudenzia
del principe. E la prima coniettura che si fa del cervello
d'uno signore, è vedere li uomini che lui ha d'intorno;
e quando sono sufficienti e fedeli, sempre si può reputarlo
savio, perché ha saputo conoscerli sufficienti e mantenerli
fideli. Ma, quando sieno altrimenti, sempre si può fare
non buono iudizio di lui; perché el primo errore che fa,
lo fa in questa elezione.
Non era alcuno che conoscessi messer Antonio da Venafro
per ministro di Pandolfo Petrucci, principe di Siena che
non iudicasse Pandolfo essere valentissimo uomo, avendo
quello per suo ministro. E perché sono di tre generazione
cervelli, l'uno intende da sé, l'altro discerne quello che
altri intende, el terzo non intende né sé né altri, quel
primo è eccellentissimo, el secondo eccellente, el terzo
inutile, conveniva per tanto di necessità, che, se Pandolfo
non era nel primo grado, che fussi nel secondo: perché,
ogni volta che uno ha iudicio di conoscere el bene o il
male che uno fa e dice, ancora che da sé non abbia invenzione,
conosce l'opere triste e le buone del ministro, e quelle
esalta e le altre corregge; et il ministro non può sperare
di ingannarlo, e mantiensi buono.
Ma come uno principe possa conoscere el ministro, ci è
questo modo che non falla mai. Quando tu vedi el ministro
pensare più a sé che a te, e che in tutte le azioni vi ricerca
dentro l'utile suo, questo tale cosí fatto mai fia buono
ministro, mai te ne potrai fidare: perché quello che ha
lo stato d'uno in mano, non debbe pensare mai a sé, ma sempre
al principe, e non li ricordare mai cosa che non appartenga
a lui. E dall'altro canto, el principe, per mantenerlo buono,
debba pensare al ministro, onorandolo, facendolo ricco,
obligandoselo, participandoli li onori e carichi; acciò
che vegga che non può stare sanza lui, e che li assai onori
non li faccino desiderare più onori, le assai ricchezze
non li faccino desiderare più ricchezze, li assai carichi
li faccino temere le mutazioni. Quando dunque, e' ministri
e li principi circa ministri sono cosí fatti, possono confidare
l'uno dell'altro; e quando altrimenti, il fine sempre fia
dannoso o per l'uno o per l'altro.
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Capitolo XXIII
Quomodo adulatores sint
fugiendi.
[In che modo si abbino a fuggire li adulatori]
Non voglio lasciare indrieto uno capo importante et uno
errore dal quale e' principi con difficultà si difendano,
se non sono prudentissimi, o se non hanno buona elezione.
E questi sono li adulatori, delli quali le corti sono piene;
perché li uomini si compiacciono tanto nelle cose loro proprie
et in modo vi si ingannono, che con difficultà si difendano
da questa peste; et a volersene defendere, si porta periculo
di non diventare contennendo. Perché non ci è altro modo
a guardarsi dalle adulazioni, se non che li uomini intendino
che non ti offendino a dirti el vero; ma, quando ciascuno
può dirti el vero, ti manca la reverenzia. Per tanto uno
principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo
nel suo stato uomini savi, e solo a quelli debbe dare libero
arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che
lui domanda, e non d'altro; ma debbe domandarli d'ogni cosa,
e le opinioni loro udire; di poi deliberare da sé, a suo
modo; e con questi consigli e con ciascuno di loro portarsi
in modo, che ognuno cognosca che quanto più liberamente
si parlerà, tanto più li fia accetto: fuora di quelli, non
volere udire alcuno, andare drieto alla cosa deliberata,
et essere ostinato nelle deliberazioni sua. Chi fa altrimenti,
o e' precipita per li adulatori, o si muta spesso per la
variazione de' pareri: di che ne nasce la poca estimazione
sua.
Io voglio a questo proposito addurre uno esemplo moderno.
Pre' Luca, uomo di Massimiliano presente imperatore, parlando
di sua maestà disse come non si consigliava con persona,
e non faceva mai di alcuna cosa a suo modo: il che nasceva
dal tenere contrario termine al sopradetto. Perché l'imperatore
è uomo secreto, non comunica li sua disegni con persona,
non ne piglia parere: ma, come nel metterli ad effetto si
cominciono a conoscere e scoprire, li cominciono ad essere
contradetti da coloro che elli ha d'intorno; e quello, come
facile, se ne stoglie. Di qui nasce che quelle cose che
fa uno giorno, destrugge l'altro; e che non si intenda mai
quello si voglia o disegni fare, e che non si può sopra
le sua deliberazioni fondarsi.
Uno principe, per tanto, debbe consigliarsi sempre, ma
quando lui vuole, e non quando vuole altri; anzi debbe tòrre
animo a ciascuno di consigliarlo d'alcuna cosa, se non gnene
domanda; ma lui debbe bene esser largo domandatore, e di
poi circa le cose domandate paziente auditore del vero;
anzi, intendendo che alcuno per alcuno respetto non gnene
dica, turbarsene. E perché molti esistimano che alcuno principe,
il quale dà di sé opinione di prudente, sia cosí tenuto
non per sua natura, ma per li buoni consigli che lui ha
d'intorno, sanza dubio s'inganna. Perché questa è una regola
generale che non falla mai: che uno principe, il quale non
sia savio per sé stesso, non può essere consigliato bene,
se già a sorte non si rimettessi in uno solo che al tutto
lo governassi, che fussi uomo prudentissimo. In questo caso,
potria bene essere, ma durerebbe poco, perché quello governatore
in breve tempo li torrebbe lo stato; ma, consigliandosi
con più d'uno, uno principe che non sia savio non arà mai
e' consigli uniti, non saprà per sé stesso unirli: de' consiglieri,
ciascuno penserà alla proprietà sua; lui non li saprà correggere,
né conoscere. E non si possono trovare altrimenti; perché
li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità
non sono fatti buoni. Però si conclude che li buoni consigli,
da qualunque venghino, conviene naschino dalla prudenzia
del principe, e non la prudenza del principe da' buoni consigli.
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Capitolo XXIV
Cur Italiae principes
regnum amiserunt.
[Per quale cagione li principi
di Italia hanno perso li stati loro]
Le cose soprascritte, osservate prudentemente, fanno parere,
uno principe nuovo antico, e lo rendono subito più sicuro
e più fermo nello stato, che se vi fussi antiquato dentro.
Perché uno principe nuovo è molto più osservato nelle sue
azioni che uno ereditario; e, quando le sono conosciute
virtuose, pigliono molto più li uomini e molto più li obligano
che il sangue antico. Perché li uomini sono molto più presi
dalle cose presenti che dalle passate, e quando nelle presenti
truovono il bene, vi si godono e non cercano altro; anzi,
piglieranno ogni difesa per lui, quando non manchi nell'altre
cose a sé medesimo. E cosí arà duplicata gloria, di avere
dato principio a uno principato nuovo, e ornatolo e corroboratolo
di buone legge di buone arme, di buoni amici e di buoni
esempli; come quello ha duplicata vergogna, che, nato principe,
lo ha per sua poca prudenzia perduto.
E, se si considerrà quelli signori che in Italia hanno
perduto lo stato a' nostri tempi, come il re di Napoli,
duca di Milano et altri, si troverrà in loro, prima, uno
comune defetto quanto alle arme, per le cagioni che di sopra
si sono discorse; di poi, si vedrà alcuno di loro o che
arà avuto inimici e' populi, o, se arà avuto el popolo amico,
non si sarà saputo assicurare de' grandi: perché, sanza
questi difetti, non si perdono li stati che abbino tanto
nervo che possino tenere uno esercito alla campagna. Filippo
Macedone, non il padre di Alessandro, ma quello che fu vinto
da Tito Quinto, aveva non molto stato, respetto alla grandezza
de' Romani e di Grecia che lo assaltò: non di manco, per
esser uomo militare e che sapeva intrattenere el populo
et assicurarsi de' grandi, sostenne più anni la guerra contro
a quelli: e, se alla fine perdé il dominio di qualche città,
li rimase non di manco el regno.
Per tanto, questi nostri principi, che erano stati molti
anni nel principato loro, per averlo di poi perso non accusino
la fortuna, ma la ignavia loro: perché, non avendo mai ne'
tempi quieti pensato che possono mutarsi, (il che è comune
defetto delli uomini, non fare conto nella bonaccia della
tempesta), quando poi vennono i tempi avversi, pensorono
a fuggirsi e non a defendersi; e sperorono ch'e' populi,
infastiditi dalla insolenzia de' vincitori, li richiamassino.
Il quale partito, quando mancano li altri, è buono; ma è
bene male avere lasciati li altri remedii per quello: perché
non si vorrebbe mai cadere, per credere di trovare chi ti
ricolga. Il che, o non avviene, o, s'elli avviene non è
con tua sicurtà, per essere quella difesa suta vile e non
dependere da te. E quelle difese solamente sono buone, sono
certe, sono durabili, che dependono da te proprio e dalla
virtù tua.
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Capitolo XXV
Quantum fortuna in rebus
humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum.
[Quanto possa la Fortuna nelle
cose umane, et in che modo se li abbia a resistere]
E' non mi è incognito come molti hanno avuto et hanno opinione
che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna
e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino
correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo,
potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle
cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione
è suta più creduta ne' nostri tempi, per la variazione grande
delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dí, fuora d'ogni
umana coniettura. A che pensando io qualche volta, mi sono
in qualche parte inclinato nella opinione loro. Non di manco,
perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico
potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà
delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare
l'altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno
di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano
e' piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa
parte terreno, pongono da quell'altra: ciascuno fugge loro
dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in
alcuna parte obstare. E, benché sieno cosí fatti, non resta
però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino
fare provvedimenti, e con ripari et argini, in modo che,
crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l'impeto loro
non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene
della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non
è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti,
dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla.
E se voi considerrete l'Italia, che è la sedia di queste
variazioni e quella che ha dato loro el moto, vedrete essere
una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: ché, s'ella
fussi reparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna
e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni
grandi che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio
basti avere detto quanto allo avere detto allo opporsi alla
fortuna, in universali.
Ma, restringendomi più a' particulari, dico come si vede
oggi questo principe felicitare, e domani ruinare, sanza
averli veduto mutare natura o qualità alcuna: il che credo
che nasca, prima, dalle cagioni che si sono lungamente per
lo adrieto discorse, cioè che quel principe che s'appoggia
tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo,
ancora, che sia felice quello che riscontra el modo del
procedere suo con le qualità de' tempi; e similmente sia
infelice quello che con il procedere suo si discordano e'
tempi. Perché si vede li uomini, nelle cose che li 'nducano
al fine, quale ciascuno ha innanzi, cioè glorie e ricchezze,
procedervi variamente: l'uno con respetto, l'altro con impeto;
l'uno per violenzia, l'altro con arte; l'uno per pazienzia,
l'altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi
modi vi può pervenire. Vedesi ancora dua respettivi, l'uno
pervenire al suo disegno, l'altro no; e similmente dua egualmente
felicitare con dua diversi studii, sendo l'uno respettivo
e l'altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non dalla
qualità de' tempi, che si conformano o no col procedere
loro. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente
operando, sortiscano el medesimo effetto; e dua egualmente
operando, l'uno si conduce al suo fine, e l'altro no. Da
questo ancora depende la variazione del bene: perché, se
uno che si governa con respetti e pazienzia, e' tempi e
le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e'
viene felicitando; ma, se e' tempi e le cose si mutano,
rovina, perché non muta modo di procedere. Né si truova
uomo sí prudente che si sappi accomodare a questo; sí perché
non si può deviare da quello a che la natura l'inclina;
sí etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando
per una via, non si può persuadere partirsi da quella. E
però lo uomo respettivo, quando elli è tempo di venire allo
impeto, non lo sa fare; donde rovina: ché, se si mutassi
di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna.
Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente;
e trovò tanto e' tempi e le cose conforme a quello suo modo
di procedere, che sempre sortí felice fine. Considerate
la prima impresa che fe' di Bologna, vivendo ancora messer
Giovanni Bentivogli. Viniziani non se ne contentavono; el
re di Spagna, quel medesimo; con Francia aveva ragionamenti
di tale impresa; e non di manco, con la sua ferocia et impeto,
si mosse personalmente a quella espedizione. La quale mossa
fece stare sospesi e fermi Spagna e Viniziani, quelli per
paura, e quell'altro per il desiderio aveva di recuperare
tutto el regno di Napoli; e dall'altro canto si tirò drieto
el re di Francia, perché, vedutolo quel re mosso, e desiderando
farselo amico per abbassare Viniziani, iudicò non poterli
negare le sua gente sanza iniuriarlo manifestamente. Condusse,
adunque, Iulio, con la sua mossa impetuosa, quello che mai
altro pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe condotto;
perché, se elli aspettava di partirsi da Roma con le conclusione
ferme e tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice
arebbe fatto, mai li riusciva; perché el re di Francia arebbe
avuto mille scuse, e li altri messo mille paure. Io voglio
lasciare stare l'altre sue azioni, che tutte sono state
simili, e tutte li sono successe bene; e la brevità della
vita non li ha lasciato sentire el contrario; perché, se
fussino venuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti,
ne seguiva la sua ruina; né mai arebbe deviato da quelli
modi, a' quali la natura lo inclinava.
Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando li
uomini ne' loro modi ostinati, sono felici mentre concordano
insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo,
che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la
fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto,
batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere
da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però
sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno
respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.
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Capitolo XXVI
Exhortatio ad capessendam
Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam.
[Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani
de' barbari]
Considerato, adunque, tutte le cose di sopra discorse,
e pensando meco medesimo se, in Italia al presente, correvano
tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia
che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi
forma che facessi onore a lui e bene alla università delli
uomini di quella, mi pare corrino tante cose in benefizio
d'uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi
più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario,
volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d'Isdrael
fussi stiavo in Egitto, et a conoscere la grandezza dello
animo di Ciro, ch'e' Persi fussino oppressati da' Medi e
la eccellenzia di Teseo, che li Ateniensi fussino dispersi;
cosí al presente, volendo conoscere la virtù d'uno spirito
italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel
termine che ell'è di presente, e che la fussi più stiava
che li Ebrei, più serva ch'e' Persi, più dispersa che li
Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata,
lacera, corsa, et avessi sopportato d'ogni sorte ruina.
E benché fino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno,
da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redenzione,
tamen si è visto da poi come, nel più alto corso delle azioni
sua, è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa
sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le
sue ferite, e ponga fine a' sacchi di Lombardia, alle taglie
del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe
già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio,
che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et
insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta
a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli.
Né ci si vede, al presente in quale lei possa più sperare
che nella illustre casa vostra, quale con la sua fortuna
e virtù, favorita da Dio e dalla Chiesia, della quale è
ora principe, possa farsi capo di questa redenzione. Il
che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le
azioni e vita dei soprannominati. E benché quelli uomini
sieno rari e maravigliosi, non di manco furono uomini, et
ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente:
perché l'impresa loro non fu più iusta di questa, né più
facile, né fu a loro Dio più amico che a voi. Qui è iustizia
grande: "iustum enim est bellum quibus necessarium,
et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est".
Qui è disposizione grandissima; né può essere, dove è grande
disposizione, grande difficultà, pur che quella pigli delli
ordini di coloro che io ho proposti per mira. Oltre a questo,
qui si veggano estraordinarii sanza esemplo condotti da
Dio: el mare s'è aperto; una nube vi ha scòrto el cammino;
la pietra ha versato acqua; qui è piovuto la manna; ogni
cosa è concorsa nella vostra grandezza. El rimanente dovete
fare voi. Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre
el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a
noi.
E non è maraviglia se alcuno de' prenominati Italiani non
ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre
casa vostra, e se, in tante revoluzioni di Italia e in tanti
maneggi di guerra, e' pare sempre che in quella la virtù
militare sia spenta. Questo nasce, che li ordini antichi
di essa non erano buoni e non ci è suto alcuno che abbi
saputo trovare de' nuovi: e veruna cosa fa tanto onore a
uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove legge e
li nuovi ordini trovati da lui. Queste cose, quando sono
bene fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo
e mirabile: et in Italia non manca materia da introdurvi
ogni forma. Qui è virtù grande nelle membra, quando non
la mancassi ne' capi. Specchiatevi ne' duelli e ne' congressi
de' pochi, quanto li Italiani sieno superiori con le forze,
con la destrezza, con lo ingegno. Ma, come si viene alli
eserciti, non compariscono. E tutto procede dalla debolezza
de' capi; perché quelli che sanno non sono obediti, et a
ciascuno pare di sapere, non ci sendo fino a qui alcuno
che si sia saputo rilevare, e per virtù e per fortuna, che
li altri cedino. Di qui nasce che, in tanto tempo, in tante
guerre fatte ne' passati venti anni, quando elli è stato
uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova.
Di che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua,
Genova, Vailà, Bologna, Mestri.
Volendo dunque la illustre casa vostra seguitare quelli
eccellenti uomini che redimirno le provincie loro, è necessario,
innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d'ogni
impresa, provvedersi d'arme proprie; perché non si può avere
né più fidi, né più veri, né migliori soldati. E, benché
ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori,
quando si vedranno comandare dal loro principe e da quello
onorare et intrattenere. È necessario, per tanto, prepararsi
a queste arme, per potere con la virtù italica defendersi
dalli esterni. E, benché la fanteria svizzera e spagnola
sia esistimata terribile, non di meno in ambo dua è difetto,
per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi
loro ma confidare di superarli. Perché li Spagnoli non possono
sostenere e' cavalli, e li Svizzeri hanno ad avere paura
de' fanti, quando li riscontrino nel combattere ostinati
come loro. Donde si è veduto e vedrassi per esperienzia,
li Spagnoli non potere sostenere una cavalleria franzese,
e li Svizzeri essere rovinati da una fanteria spagnola.
E, benché di questo ultimo non se ne sia visto intera esperienzia,
tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna,
quando le fanterie spagnole si affrontorono con le battaglie
todesche le quali servono el medesimo ordine che le svizzere:
dove li Spagnoli, con la agilità del corpo et aiuto de'
loro brocchieri, erano intrati, tra le picche loro sotto,
e stavano securi ad offenderli sanza che Todeschi vi avessino
remedio; e, se non fussi la cavalleria che li urtò, li arebbano
consumati tutti. Puossi, adunque, conosciuto el defetto
dell'una e dell'altra di queste fanterie, ordinarne una
di nuovo, la quale resista a' cavalli e non abbia paura
de' fanti: il che farà la generazione delle armi e la variazione
delli ordini. E queste sono di quelle cose che, di nuovo
ordinate, dànno reputazione e grandezza a uno principe nuovo.
Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione,
acciò che l'Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore.
Né posso esprimere con quale amore e' fussi ricevuto in
tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni
esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede,
con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbano?
quali populi li negherebbano la obedienza? quale invidia
se li opporrebbe? quale Italiano li negherebbe l'ossequio?
A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli, adunque, la
illustre casa vostra questo assunto con quello animo e con
quella speranza che si pigliano le imprese iuste; acciò
che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata,
e, sotto li sua auspizi, si verifichi quel detto del Petrarca:
Virtù contro a furore
Prenderà l'arme, e fia el combatter corto;
Ché l'antico valore
Nell'italici cor non è ancor morto.
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