Un clic sull'immagine
per tornare alla copertina
Capitolo XIV
Quod principem deceat
circa militiam.
[Quello che s'appartenga a uno principe circa la milizia]
Debbe adunque uno principe non avere altro obietto né altro
pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della
guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola
arte che si espetta a chi comanda. Et è di tanta virtù,
che non solamente mantiene quelli che sono nati principi,
ma molte volte fa li uomini di privata fortuna salire a
quel grado; e per avverso si vede che, quando e' principi
hanno pensato più alle delicatezze che alle arme, hanno
perso lo stato loro. E la prima cagione che ti fa perdere
quello, è negligere questa arte; e la cagione che te lo
fa acquistare, è lo essere professo di questa arte.
Francesco Sforza, per essere armato, di privato diventò
duca di Milano; e' figliuoli, per fuggire e' disagi delle
arme, di duchi diventorono privati. Perché, intra le altre
cagioni che ti arreca di male lo essere disarmato, ti fa
contennendo: la quale è una di quelle infamie dalle quali
el principe si debbe guardare, come di sotto si dirà. Perché
da uno armato a uno disarmato non è proporzione alcuna;
e non è ragionevole che chi è armato obedisca volentieri
a chi è disarmato, e che il disarmato stia sicuro intra
servitori armati. Perché, sendo nell'uno sdegno e nell'altro
sospetto, non è possibile operino bene insieme. E però uno
principe che della milizia non si intenda, oltre alle altre
infelicità, come è detto, non può essere stimato da' sua
soldati né fidarsi di loro.
Debbe per tanto mai levare el pensiero da questo esercizio
della guerra, e nella pace vi si debbe più esercitare che
nella guerra: il che può fare in dua modi; l'uno con le
opere, l'altro con la mente. E, quanto alle opere, oltre
al tenere bene ordinati et esercitati li sua, debbe stare
sempre in sulle caccie, e mediante quelle assuefare el corpo
a' disagi; e parte imparare la natura de' siti, e conoscere
come surgono e' monti, come imboccano le valle, come iacciono
e' piani, et intendere la natura de' fiumi e de' paduli,
et in questo porre grandissima cura. La quale cognizione
è utile in dua modi. Prima, s'impara a conoscere el suo
paese, e può meglio intendere le difese di esso; di poi,
mediante la cognizione e pratica di quelli siti, con facilità
comprendere ogni altro sito che di nuovo li sia necessario
speculare: perché li poggi, le valli, e' piani, e' fiumi,
e' paduli che sono, verbigrazia, in Toscana, hanno con quelli
dell'altre provincie certa similitudine: tal che dalla cognizione
del sito di una provincia si può facilmente venire alla
cognizione dell'altre. E quel principe che manca di questa
perizie, manca della prima parte che vuole avere uno capitano;
perché questa insegna trovare el nimico, pigliare li alloggiamenti,
condurre li eserciti, ordinare le giornate, campeggiare
le terre con tuo vantaggio.
Filopemene, principe delli Achei, intra le altre laude
che dalli scrittori li sono date, è che ne' tempi della
pace non pensava mai se non a' modi della guerra; e, quando
era in campagna con li amici, spesso si fermava e ragionava
con quelli. - Se li nimici fussino in su quel colle, e noi
ci trovassimo qui col nostro esercito, chi di noi arebbe
vantaggio? come si potrebbe ire, servando li ordini, a trovarli?
se noi volessimo ritirarci, come aremmo a fare? se loro
si ritirassino, come aremmo a seguirli? - E proponeva loro,
andando, tutti e' casi che in uno esercito possono occorrere;
intendeva la opinione loro, diceva la sua, corroboravala
con le ragioni: tal che, per queste continue cogitazioni,
non posseva mai, guidando li eserciti, nascere accidente
alcuno, che lui non avessi el remedio.
Ma quanto allo esercizio della mente, debbe el principe
leggere le istorie, et in quelle considerare le azioni delli
uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle guerre,
esaminare le cagioni della vittoria e perdite loro, per
potere queste fuggire, e quelle imitare; e sopra tutto fare
come ha fatto per l'adrieto qualche uomo eccellente, che
ha preso ad imitare se alcuno innanzi a lui è stato laudato
e gloriato, e di quello ha tenuto sempre e' gesti et azioni
appresso di sé: come si dice che Alessandro Magno imitava
Achille; Cesare Alessandro; Scipione Ciro. E qualunque legge
la vita di Ciro scritta da Senofonte, riconosce di poi nella
vita di Scipione quanto quella imitazione li fu di gloria,
e quanto, nella castità, affabilità, umanità, liberalità
Scipione si conformassi con quelle cose che di Ciro da Senofonte
sono sute scritte. Questi simili modi debbe osservare uno
principe savio, e mai ne' tempi pacifici stare ozioso, ma
con industria farne capitale, per potersene valere nelle
avversità, acciò che, quando si muta la fortuna, lo truovi
parato a resisterle.
[ Torna
alla pagina dell'indice ]
Capitolo XV
De his rebus quibus homines
et praesertim principes laudantur aut vituperantur.
[Di quelle cose per le quali li
uomini, e specialmente i principi, sono laudati o vituperati]
Resta ora a vedere quali debbano essere e' modi e governi
di uno principe con sudditi o con li amici. E, perché io
so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone
ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi, massime
nel disputare questa materia, dalli ordini delli altri.
Ma, sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende,
mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale
della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono
immaginati repubbliche e principati che non si sono mai
visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto
discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che
colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe
fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua:
perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione
di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni.
Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare
a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo
la necessità.
Lasciando adunque indrieto le cose circa uno principe immaginate,
e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini,
quando se ne parla, e massime e' principi, per essere posti
più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano
loro o biasimo o laude. E questo è che alcuno è tenuto liberale,
alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro
in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera
di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene
troppo di usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno
rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l'uno fedifrago,
l'altro fedele; l'uno effeminato e pusillanime, l'altro
feroce et animoso; l'uno umano, l'altro superbo; l'uno lascivo,
l'altro casto; l'uno intero, l'altro astuto; l'uno duro,
l'altro facile; l'uno grave l'altro leggieri; l'uno relligioso,
l'altro incredulo, e simili. Et io so che ciascuno confesserà
che sarebbe laudabilissima cosa uno principe trovarsi di
tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone:
ma, perché non si possono avere né interamente osservare,
per le condizioni umane che non lo consentono, li è necessario
essere tanto prudente che sappia fuggire l'infamia di quelle
che li torrebbano lo stato, e da quelle che non gnene tolgano
guardarsi, se elli è possibile; ma, non possendo, vi si
può con meno respetto lasciare andare. Et etiam non si curi
di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali possa
difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà
bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e
seguendola sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà
vizio, e seguendola ne riesce la securtà et il bene essere
suo.
[ Torna
alla pagina dell'indice ]
Capitolo XVI
De liberalitate et parsimonia.
[Della liberalità e della parsimonia]
Cominciandomi, adunque alle prime soprascritte qualità
dico come sarebbe bene essere tenuto liberale: non di manco,
la liberalità, usata in modo che tu sia tenuto, ti offende;
perché se ella si usa virtuosamente e come la si debbe usare,
la non fia conosciuta, e non ti cascherà l'infamia del suo
contrario. E però, a volersi mantenere infra li uomini el
nome del liberale, è necessario non lasciare indrieto alcuna
qualità di suntuosità; talmente che, sempre uno principe
cosí fatto consumerà in simili opere tutte le sue facultà;
e sarà necessitato alla fine, se si vorrà mantenere el nome
del liberale, gravare e' populi estraordinariamente et essere
fiscale, e fare tutte quelle cose che si possono fare per
avere danari. Il che comincerà a farlo odioso con sudditi,
e poco stimare da nessuno, diventando povero; in modo che,
con questa sua liberalità avendo offeso li assai e premiato
e' pochi, sente ogni primo disagio, e periclita in qualunque
primo periculo: il che conoscendo lui, e volendosene ritrarre,
incorre subito nella infamia del misero.
Uno principe, adunque, non potendo usare questa virtù del
liberale sanza suo danno, in modo che la sia conosciuta,
debbe, s'elli è prudente, non si curare del nome del misero:
perché col tempo sarà tenuto sempre più liberale, veggendo
che con la sua parsimonia le sua intrate li bastano, può
defendersi da chi li fa guerra, può fare imprese sanza gravare
e' populi; talmente che viene a usare liberalità a tutti
quelli a chi non toglie, che sono infiniti, e miseria a
tutti coloro a chi non dà, che sono pochi. Ne' nostri tempi
noi non abbiamo veduto fare gran cose se non a quelli che
sono stati tenuti miseri; li altri essere spenti. Papa Iulio
II, come si fu servito del nome del liberale per aggiugnere
al papato, non pensò poi a mantenerselo, per potere fare
guerra. El re di Francia presente ha fatto tante guerre
sanza porre uno dazio estraordinario a' sua, solum perché
alle superflue spese ha sumministrato la lunga parsimonia
sua. El re di Spagna presente, se fussi tenuto liberale,
non arebbe fatto né vinto tante imprese.
Per tanto, uno principe debbe esistimare poco, per non
avere a rubare e' sudditi, per potere defendersi, per non
diventare povero e contennendo, per non essere forzato di
diventare rapace, di incorrere nel nome del misero; perché
questo è uno di quelli vizii che lo fanno regnare. E se
alcuno dicessi: Cesare con la liberalità pervenne allo imperio,
e molti altri, per essere stati et essere tenuti liberali,
sono venuti a gradi grandissimi; rispondo: o tu se' principe
fatto, o tu se' in via di acquistarlo: nel primo caso, questa
liberalità è dannosa; nel secondo, è bene necessario essere
tenuto liberale. E Cesare era uno di quelli che voleva pervenire
al principato di Roma; ma, se, poi che vi fu venuto, fussi
sopravvissuto, e non si fussi temperato da quelle spese,
arebbe destrutto quello imperio. E se alcuno replicassi:
molti sono stati principi, e con li eserciti hanno fatto
gran cose, che sono stati tenuti liberalissimi; ti respondo:
o el principe spende del suo e de' sua sudditi, o di quello
d'altri; nel primo caso, debbe essere parco; nell'altro,
non debbe lasciare indrieto parte alcuna di liberalità.
E quel principe che va con li eserciti, che si pasce di
prede, di sacchi e di taglie, maneggia quel di altri, li
è necessaria questa liberalità; altrimenti non sarebbe seguíto
da' soldati. E di quello che non è tuo, o di sudditi tua,
si può essere più largo donatore: come fu Ciro, Cesare et
Alessandro; perché lo spendere quello d'altri non ti toglie
reputazione, ma te ne aggiugne; solamente lo spendere el
tuo è quello che ti nuoce. E non ci è cosa che consumi sé
stessa quanto la liberalità: la quale mentre che tu usi,
perdi la facultà di usarla; e diventi, o povero e contennendo,
o, per fuggire la povertà, rapace et odioso. Et intra tutte
le cose di che uno principe si debbe guardare, è lo essere
contennendo et odioso; e la liberalità all'una e l'altra
cosa ti conduce. Per tanto è più sapienzia tenersi el nome
del misero, che partorisce una infamia sanza odio, che,
per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere
nel nome di rapace, che partorisce una infamia con odio.
[ Torna
alla pagina dell'indice ]
Capitolo XVII
De crudelitate et pietate;
et an sit melius amari quam timeri, vel e contra.
[Della crudeltà e pietà e s'elli
è meglio esser amato che temuto, o più tosto temuto che
amato]
Scendendo appresso alle altre preallegate qualità, dico
che ciascuno principe debbe desiderare di essere tenuto
pietoso e non crudele: non di manco debbe avvertire di non
usare male questa pietà. Era tenuto Cesare Borgia crudele;
non di manco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna,
unitola, ridottola in pace et in fede. Il che se si considerrà
bene, si vedrà quello essere stato molto più pietoso che
il populo fiorentino, il quale, per fuggire el nome del
crudele, lasciò destruggere Pistoia. Debbe, per tanto, uno
principe non si curare della infamia di crudele, per tenere
e' sudditi sua uniti et in fede; perché, con pochissimi
esempli sarà più pietoso che quelli e' quali, per troppa
pietà, lasciono seguire e' disordini, di che ne nasca occisioni
o rapine: perché queste sogliono offendere una universalità
intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono
uno particulare. Et intra tutti e' principi, al principe
nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere
li stati nuovi pieni di pericoli. E Virgilio, nella bocca
di Didone, dice:
Res dura, et regni novitas me talia cogunt
Moliri, et late fines custode tueri.
Non di manco debbe essere grave al credere et al muoversi,
né si fare paura da sé stesso, e procedere in modo temperato
con prudenza et umanità, che la troppa confidenzia non lo
facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile.
Nasce da questo una disputa: s'elli è meglio essere amato
che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere
l'uno e l'altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme,
è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia
a mancare dell'uno de' dua. Perché delli uomini si può dire
questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori
e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno;
e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue,
la roba, la vita e' figliuoli, come di sopra dissi, quando
il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e' si
rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle
parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina;
perché le amicizie che si acquistano col prezzo, e non con
grandezza e nobiltà di animo, si meritano, ma elle non si
hanno, et a' tempi non si possano spendere. E li uomini
hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare,
che uno che si facci temere; perché l'amore è tenuto da
uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi,
da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore
è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Debbe
non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non
acquista lo amore, che fugga l'odio; perché può molto bene
stare insieme esser temuto e non odiato; il che farà sempre,
quando si astenga dalla roba de' sua cittadini e de' sua
sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognasse
procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia
iustificazione conveniente e causa manifesta; ma, sopra
tutto, astenersi dalla roba d'altri; perché li uomini sdimenticano
più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio.
Di poi, le cagioni del tòrre la roba non mancono mai; e,
sempre, colui che comincia a vivere con rapina, truova cagione
di occupare quel d'altri; e, per avverso, contro al sangue
sono più rare e mancono più presto.
Ma, quando el principe è con li eserciti et ha in governo
multitudine di soldati, allora al tutto è necessario non
si curare del nome di crudele; perché sanza questo nome
non si tenne mai esercito unito né disposto ad alcuna fazione.
Intra le mirabili azioni di Annibale si connumera questa,
che, avendo uno esercito grossissimo, misto di infinite
generazioni di uomini, condotto a militare in terre aliene,
non vi surgessi mai alcuna dissensione, né infra loro né
contro al principe, cosí nella cattiva come nella sua buona
fortuna. Il che non poté nascere da altro che da quella
sua inumana crudeltà, la quale, insieme con infinite sua
virtù, lo fece sempre nel cospetto de' suoi soldati venerando
e terribile; e sanza quella, a fare quello effetto le altre
sua virtù non li bastavano. E li scrittori poco considerati,
dall'una parte ammirano questa sua azione, dall'altra dannono
la principale cagione di essa. E che sia vero che l'altre
sua virtù non sarebbano bastate, si può considerare in Scipione,
rarissimo non solamente ne' tempi sua, ma in tutta la memoria
delle cose che si sanno, dal quale li eserciti sua in Ispagna
si rebellorono. Il che non nacque da altro che dalla troppa
sua pietà, la quale aveva data a' sua soldati più licenzia
che alla disciplina militare non si conveniva. La qual cosa
li fu da Fabio Massimo in Senato rimproverata, e chiamato
da lui corruttore della romana milizia. E' Locrensi, sendo
stati da uno legato di Scipione destrutti, non furono da
lui vendicati, né la insolenzia di quello legato corretta,
nascendo tutto da quella sua natura facile; talmente che,
volendolo alcuno in Senato escusare, disse come elli erano
di molti uomini che sapevano meglio non errare, che correggere
li errori. La qual natura arebbe col tempo violato la fama
e la gloria di Scipione, se elli avessi con essa perseverato
nello imperio; ma, vivendo sotto el governo del Senato,
questa sua qualità dannosa non solum si nascose, ma li fu
a gloria.
Concludo adunque, tornando allo essere temuto et amato,
che, amando li uomini a posta loro, e temendo a posta del
principe, debbe uno principe savio fondarsi in su quello
che è suo, non in su quello che è d'altri: debbe solamente
ingegnarsi di fuggire lo odio, come è detto.
[ Torna
alla pagina dell'indice ]
Capitolo XVIII
Quomodo fides a principibus
sit servanda.
[In che modo e' principi abbino a mantenere la fede]
Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede
e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende:
non di manco si vede, per esperienzia ne' nostri tempi,
quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno
tenuto poco conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare
e' cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli
che si sono fondati in sulla lealtà.
Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere:
l'uno con le leggi, l'altro con la forza: quel primo è proprio
dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo
molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per
tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia
e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a' principi copertamente
dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille,
e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a
nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina
li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore
uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno
principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza
l'altra non è durabile.
Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare
la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione;
perché il lione non si defende da' lacci, la golpe non si
difende da' lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere
e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno
semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può
per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede,
quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente
le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino
tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché
sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non
l'hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono
cagioni legittime di colorare la inosservanzia. Di questo
se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e monstrare
quante pace, quante promesse sono state fatte irrite e vane
per la infedelità de' principi: e quello che ha saputo meglio
usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa
natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore
e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto
obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna
troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
Io non voglio, delli esempli freschi, tacerne uno. Alessandro
VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro, che ad ingannare
uomini: e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu
mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e
con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che l'osservassi
meno; non di meno sempre li succederono li inganni ad votum,
perché conosceva bene questa parte del mondo.
A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto
tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere
di averle. Anzi ardirò di dire questo, che, avendole et
osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle,
sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero,
relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con l'animo,
che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario.
Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime
uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose
per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato,
per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro
alla carità, contro alla umanità, contro alla religione.
E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi
secondo ch'e' venti e le variazioni della fortuna li comandono,
e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo,
ma sapere intrare nel male, necessitato.
Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non li
esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte
cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà,
tutto fede, tutto integrità, tutto relligione. E non è cosa
più necessaria a parere di avere che questa ultima qualità.
E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle
mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi.
Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che
tu se'; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione
di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda:
e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de' principi,
dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci
dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e'
mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati;
perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo
evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e li
pochi ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi.
Alcuno principe de' presenti tempi, quale non è bene nominare,
non predica mai altro che pace e fede, e dell'una e dell'altra
è inimicissimo; e l'una e l'altra, quando e' l'avessi osservata,
li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato.
[ Torna
alla pagina dell'indice ]
Capitolo XIX
De contemptu et odio fugiendo.
[In che modo si abbia a fuggire lo essere sprezzato e odiato]
Ma perché, circa le qualità di che di sopra si fa menzione
io ho parlato delle più importanti, l'altre voglio discorrere
brevemente sotto queste generalità, che il principe pensi,
come di sopra in parte è detto, di fuggire quelle cose che
lo faccino odioso e contennendo; e qualunque volta fuggirà
questo, arà adempiuto le parti sua, e non troverrà nelle
altre infamie periculo alcuno. Odioso lo fa, sopr'a tutto,
come io dissi, lo essere rapace et usurpatore della roba
e delle donne de' sudditi: di che si debbe astenere; e qualunque
volta alle universalità delli uomini non si toglie né roba
né onore, vivono contenti, e solo si ha a combattere con
la ambizione di pochi, la quale in molti modi, e con facilità
si raffrena. Contennendo lo fa esser tenuto vario, leggieri,
effeminato, pusillanime, irresoluto: da che uno principe
si debbe guardare come da uno scoglio, et ingegnarsi che
nelle azioni sua si riconosca grandezza, animosità, gravità,
fortezza, e, circa maneggi privati de' sudditi, volere che
la sua sentenzia sia irrevocabile; e si mantenga in tale
opinione, che alcuno non pensi né a ingannarlo né ad aggirarlo.
Quel principe che dà di sé questa opinione, è reputato
assai; e contro a chi è reputato, con difficultà si congiura,
con difficultà è assaltato, purché s'intenda che sia eccellente
e reverito da' sua. Perché uno principe debbe avere dua
paure: una dentro, per conto de' sudditi; l'altra di fuora,
per conto de' potentati esterni. Da questa si difende con
le buone arme e con li buoni amici; e sempre, se arà buone
arme, arà buoni amici; e sempre staranno ferme le cose di
dentro, quando stieno ferme quelle di fuora, se già le non
fussino perturbate da una congiura; e quando pure quelle
di fuora movessino, s'elli è ordinato e vissuto come ho
detto, quando non si abbandoni, sempre sosterrà ogni impeto,
come io dissi che fece Nabide spartano. Ma, circa sudditi,
quando le cose di fuora non muovino, si ha a temere che
non coniurino secretamente: di che el principe si assicura
assai, fuggendo lo essere odiato o disprezzato, e tenendosi
el populo satisfatto di lui; il che è necessario conseguire,
come di sopra a lungo si disse. Et uno de' più potenti rimedii
che abbi uno principe contro alle coniure, è non essere
odiato dallo universale: perché sempre chi congiura crede
con la morte del principe satisfare al populo; ma, quando
creda offenderlo, non piglia animo a prendere simile partito,
perché le difficultà che sono dalla parte de' congiuranti
sono infinite. E per esperienzia si vede molte essere state
le coniure, e poche avere avuto buon fine. Perché chi coniura
non può essere solo, ne può prendere compagnia se non di
quelli che creda esser malcontenti; e subito che a uno mal
contento tu hai scoperto l'animo tuo, li dài materia a contentarsi,
perché manifestamente lui ne può sperare ogni commodità:
talmente che, veggendo el guadagno fermo da questa parte,
e dall'altra veggendolo dubio e pieno di periculo, conviene
bene o che sia raro amico, o che sia al tutto ostinato inimico
del principe, ad osservarti la fede. E, per ridurre la cosa
in brevi termini, dico che dalla parte del coniurante, non
è se non paura, gelosia, sospetto di pena che lo sbigottisce;
ma, dalla parte del principe, è la maestà del principato,
le leggi, le difese delli amici e dello stato che lo difendano:
talmente che, aggiunto a tutte queste cose la benivolenzia
populare, è impossibile che alcuno sia sí temerario che
congiuri. Perché, per lo ordinario, dove uno coniurante
ha a temere innanzi alla esecuzione del male, in questo
caso debbe temere ancora poi, avendo per inimico el populo,
seguíto lo eccesso, né potendo per questo sperare refugio
alcuno.
Di questa materia se ne potria dare infiniti esempli; ma
voglio solo esser contento di uno, seguito alla memoria
de' padri nostri. Messer Annibale Bentivogli, avolo del
presente messer Annibale, che era principe in Bologna, sendo
da' Canneschi, che li coniurorono contro suto ammazzato,
né rimanendo di lui altri che messer Giovanni, che era in
fasce, subito dopo tale omicidio, si levò el populo et ammazzò
tutti e' Canneschi. Il che nacque dalla benivolenzia populare
che la casa de' Bentivogli aveva in quelli tempi: la quale
fu tanta, che, non restando di quella alcuno in Bologna
che potessi, morto Annibale, reggere lo stato, et avendo
indizio come in Firenze era uno nato de' Bentivogli che
si teneva fino allora figliuolo di uno fabbro, vennono e'
Bolognesi per quello in Firenze, e li dettono el governo
di quella città: la quale fu governata da lui fino a tanto
che messer Giovanni pervenissi in età conveniente al governo.
Concludo, per tanto, che uno principe debbe tenere delle
congiure poco conto, quando el popolo li sia benivolo; ma,
quando li sia inimico et abbilo in odio, debbe temere d'ogni
cosa e d'ognuno. E li stati bene ordinati e li principi
savi hanno con ogni diligenzia pensato di non desperare
e' grandi e di satisfare al populo e tenerlo contento; perché
questa è una delle più importanti materie che abbia uno
principe.
Intra regni bene ordinati e governati, a' tempi nostri,
è quello di Francia: et in esso si truovano infinite constituzione
buone, donde depende la libertà e sicurtà del re; delle
quali la prima è il parlamento e la sua autorità. Perché
quello che ordinò quel regno, conoscendo l'ambizione de'
potenti e la insolenzia loro, e iudicando esser loro necessario
uno freno in bocca che li correggessi e, da altra parte,
conoscendo l'odio dello universale contro a' grandi fondato
in sulla paura, e volendo assicurarli, non volse che questa
fussi particulare cura del re, per tòrli quel carico che
potessi avere co' grandi favorendo li populari, e co' populari
favorendo e' grandi; e però constituí uno iudice terzo,
che fussi quello che, sanza carico del re battessi e' grandi
e favorissi e' minori. Né poté essere questo ordine migliore
né più prudente, né che sia maggiore cagione della securtà
del re e del regno. Di che si può trarre un altro notabile:
che li principi debbono le cose di carico fare sumministrare
ad altri, quelle di grazia a loro medesimi. Di nuovo concludo
che uno principe debbe stimare e' grandi, ma non si fare
odiare dal populo.
Parrebbe forse a molti, considerato la vita e morte di
alcuno imperatore romano, che fussino esempli contrarii
a questa mia opinione, trovando alcuno essere vissuto sempre
egregiamente e monstro grande virtù d'animo, non di meno
avere perso lo imperio, ovvero essere stato morto da' sua,
che li hanno coniurato contro. Volendo per tanto rispondere
a queste obiezioni, discorrerò le qualità di alcuni imperatori,
monstrando le cagioni della loro ruina, non disforme da
quello che da me si è addutto; e parte metterò in considerazione
quelle cose che sono notabili a chi legge le azioni di quelli
tempi. E voglio mi basti pigliare tutti quelli imperatori
che succederono allo imperio da Marco filosofo a Massimino:
li quali furono Marco, Commodo suo figliuolo, Pertinace,
Iuliano, Severo, Antonino Caracalla suo figliuolo, Macrino,
Eliogabalo, Alessandro e Massimino. Et è prima da notare
che dove nelli altri principati si ha solo a contendere
con la ambizione de' grandi et insolenzia de' populi, l'imperatori
romani avevano una terza difficultà, di avere a sopportare
la crudeltà et avarizia de' soldati. La qual cosa era sí
difficile che la fu cagione della ruina di molti; sendo
difficile satisfare a' soldati et a' populi; perché e' populi
amavono la quiete, e per questo amavono e' principi modesti,
e li soldati amavono el principe d'animo militare, e che
fussi insolente, crudele e rapace. Le quali cose volevano
che lui esercitassi ne' populi, per potere avere duplicato
stipendio e sfogare la loro avarizia e crudeltà. Le quali
cose feciono che quelli imperatori che, per natura o per
arte, non aveano una grande reputazione, tale che con quella
tenessino l'uno e l'altro in freno, sempre ruinavono; e
li più di loro, massime quelli che come uomini nuovi venivano
al principato, conosciuta la difficultà di questi dua diversi
umori, si volgevano a satisfare a' soldati, stimando poco
lo iniuriare el populo. Il quale partito era necessario:
perché, non potendo e' principi mancare di non essere odiati
da qualcuno, si debbano prima forzare di non essere odiati
dalla università; e, quando non possono conseguire questo,
si debbono ingegnare con ogni industria fuggire l'odio di
quelle università che sono più potenti. E però quelli imperatori
che per novità avevano bisogno di favori estraordinarii,
si aderivano a' soldati più tosto che a' populi: il che
tornava loro, non di meno, utile o no, secondo che quel
principe si sapeva mantenere reputato con loro. Da queste
cagioni sopradette nacque che Marco, Pertinace et Alessandro,
sendo tutti di modesta vita, amatori della iustizia, nimici
della crudeltà, umani e benigni, ebbono tutti, da Marco
in fuora, tristo fine. Marco solo visse e morí onoratissimo,
perché lui succedé allo imperio iure hereditario, e non
aveva a riconoscere quello né da' soldati né da' populi;
di poi, sendo accompagnato da molte virtù che lo facevano
venerando, tenne sempre, mentre che visse. l'uno ordine
e l'altro intra termini sua, e non fu mai né odiato né disprezzato.
Ma Pertinace fu creato imperatore contro alla voglia de'
soldati, li quali, sendo usi a vivere licenziosamente sotto
Commodo, non poterono sopportare quella vita onesta alla
quale Pertinace li voleva ridurre; onde, avendosi creato
odio, et a questo odio aggiunto el disprezzo sendo vecchio
ruinò ne' primi principii della sua amministrazione.
E qui si debbe notare che l'odio s'acquista cosí mediante
le buone opere, come le triste: e però, come io dissi di
sopra, uno principe, volendo mantenere lo stato, è spesso
forzato a non essere buono; perché, quando quella università,
o populo o soldati o grandi che sieno, della quale tu iudichi
avere per mantenerti bisogno, è corrotta, ti conviene seguire
l'umore suo per satisfarlo, et allora le buone opere ti
sono nimiche. Ma vegniamo ad Alessandro: il quale fu di
tanta bontà, che intra le altre laude che li sono attribuite,
è questa, che in quattordici anni che tenne l'imperio, non
fu mai morto da lui alcuno iniudicato; non di manco, sendo
tenuto effeminato et uomo che si lasciassi governare alla
madre, e per questo venuto in disprezzo, conspirò in lui
l'esercito, et ammazzollo.
Discorrendo ora, per opposito, le qualità di Commodo, di
Severo, Antonino Caracalla e Massimino, li troverrete crudelissimi
e rapacissimi; li quali, per satisfare a' soldati, non perdonorono
ad alcuna qualità di iniuria che ne' populi si potessi commettere;
e tutti, eccetto Severo, ebbono triste fine. Perché in Severo
fu tanta virtù, che, mantenendosi soldati amici, ancora
che populi fussino da lui gravati, possé sempre regnare
felicemente; perché quelle sua virtù lo facevano nel conspetto
de' soldati e de' populi sí mirabile, che questi rimanevano
quodammodo attoniti e stupidi, e quelli altri reverenti
e satisfatti. E perché le azioni di costui furono grandi
in un principe nuovo, io voglio monstrare brevemente quanto
bene seppe usare la persona della golpe e del lione: le
quali nature io dico di sopra essere necessario imitare
a uno principe. Conosciuto Severo la ignavia di Iuliano
imperatore, persuase al suo esercito, del quale era in Stiavonia
capitano, che elli era bene andare a Roma a vendicare la
morte di Pertinace, il quale da' soldati pretoriani era
suto morto; e sotto questo colore, sanza monstrare di aspirare
allo imperio, mosse lo esercito contro a Roma; e fu prima
in Italia che si sapessi la sua partita. Arrivato, a Roma,
fu dal Senato, per timore, eletto imperatore e morto Iuliano.
Restava, dopo questo principio, a Severo dua difficultà,
volendosi insignorire di tutto lo stato: l'una in Asia,
dove Nigro, capo delli eserciti asiatici, s'era fatto chiamare
imperatore; e l'altra in ponente, dove era Albino, quale
ancora lui aspirava allo imperio. E, perché iudicava periculoso
scoprirsi inimico a tutti e dua, deliberò di assaltare Nigro
et ingannare Albino. Al quale scrisse come, sendo dal Senato
eletto imperatore, voleva partecipare quella dignità con
lui; e mandolli el titulo di Cesare, e per deliberazione
del Senato, se lo aggiunse collega: le quali cose da Albino
furono accettate per vere. Ma, poiché Severo ebbe vinto
e morto Nigro, e pacate le cose orientali, ritornatosi a
Roma, si querelò in Senato, come Albino, poco conoscente
de' benefizii ricevuti da lui, aveva dolosamente cerco di
ammazzarlo, e per questo lui era necessitato andare a punire
la sua ingratitudine. Di poi andò a trovarlo in Francia,
e li tolse lo stato e la vita.
Chi esaminerà adunque tritamente le azioni di costui, lo
troverrà uno ferocissimo lione et una astutissima golpe;
e vedrà quello temuto e reverito da ciascuno, e dalli eserciti
non odiato; e non si maraviglierà se lui, uomo nuovo, arà
possuto tenere tanto imperio: perché la sua grandissima
reputazione lo difese sempre da quello odio ch'e' populi
per le sue rapine avevano potuto concipere. Ma Antonino
suo figliuolo fu ancora lui uomo che aveva parte eccellentissime
e che lo facevano maraviglioso nel conspetto de' populi
e grato a' soldati; perché era uomo militare, sopportantissimo
d'ogni fatica, disprezzatore d'ogni cibo delicato e d'ogni
altra mollizie: la qual cosa lo faceva amare da tutti li
eserciti. Non di manco la sua ferocia e crudeltà fu tanta
e sí inaudita, per avere, dopo infinite occisioni particulari,
morto gran parte del populo di Roma, e tutto quello di Alessandria,
che diventò odiosissimo a tutto il mondo; e cominciò ad
essere temuto etiam da quelli che elli aveva intorno: in
modo che fu ammazzato da uno centurione in mezzo del suo
esercito. Dove è da notare che queste simili morti, le quali
seguano per deliberazione d'uno animo ostinato, sono da'
principi inevitabili, perché ciascuno che non si curi di
morire lo può offendere; ma debbe bene el principe temerne
meno, perché le sono rarissime. Debbe solo guardarsi di
non fare grave iniuria ad alcuno di coloro de' quali si
serve, e che elli ha d'intorno al servizio del suo principato:
come aveva fatto Antonino, il quale aveva morto contumeliosamente
uno fratello di quel centurione, e lui ogni giorno minacciava;
tamen lo teneva a guardia del corpo suo: il che era partito
temerario e da ruinarvi, come li intervenne.
Ma vegniamo a Commodo, al quale era facilità grande tenere
l'imperio, per averlo iure hereditario, sendo figliuolo
di Marco; e solo li bastava seguire le vestigie del padre,
et a' soldati et a' populi arebbe satisfatto; ma, sendo
d'animo crudele e bestiale, per potere usare la sua rapacità
ne' populi, si volse ad intrattenere li eserciti e farli
licenziosi; dall'altra parte, non tenendo la sua dignità,
discendendo spesso ne' teatri a combattere co' gladiatori,
e facendo altre cose vilissime e poco degne della maestà
imperiale, diventò contennendo nel conspetto de' soldati.
Et essendo odiato dall'una parte e disprezzato dall'altra,
fu conspirato in lui, e morto.
Restaci a narrare le qualità di Massimino. Costui fu uomo
bellicosissimo; et essendo li eserciti infastiditi della
mollizie di Alessandro, del quale ho di sopra discorso,
morto lui, lo elessono allo imperio. Il quale non molto
tempo possedé; perché dua cose lo feciono odioso e contennendo:
l'una, essere vilissimo per avere già guardato le pecore
in Tracia (la qual cosa era per tutto notissima e li faceva
una grande dedignazione nel conspetto di qualunque); l'altra,
perché, avendo nello ingresso del suo principato, differito
lo andare a Roma et intrare nella possessione della sedia
imperiale, aveva dato di sé opinione di crudelissimo, avendo
per li sua prefetti, in Roma e in qualunque luogo dello
Imperio, esercitato molte crudeltà. Tal che, commosso tutto
el mondo dallo sdegno per la viltà del suo sangue, e dallo
odio per la paura della sua ferocia, si rebellò prima Affrica,
di poi el Senato con tutto el populo di Roma, e tutta Italia
li conspirò contro. A che si aggiunse el suo proprio esercito;
quale, campeggiando Aquileia e trovando difficultà nella
espugnazione, infastidito della crudeltà sua, e per vederli
tanti inimici temendolo meno, lo ammazzò.
Io non voglio ragionare né di Eliogabalo né di Macrino
né di Iuliano, li quali, per essere al tutto contennendi,
si spensono subito; ma verrò alla conclusione di questo
discorso. E dico, che li principi de' nostri tempi hanno
meno questa difficultà di satisfare estraordinariamente
a' soldati ne' governi loro; perché, non ostante che si
abbi ad avere a quelli qualche considerazione, tamen si
resolve presto, per non avere alcuno di questi principi
eserciti insieme, che sieno inveterati con li governi e
amministrazione delle provincie, come erano li eserciti
dello imperio romano. E però, se allora era necessario satisfare
più a' soldati che a' populi, era perché soldati potevano
più che e' populi; ora è più necessario a tutti e' principi,
eccetto che al Turco et al Soldano, satisfare a' populi
che a' soldati, perché e' populi possono più di quelli.
Di che io ne eccettuo el Turco, tenendo sempre quello intorno
a sé dodici mila fanti e quindici mila cavalli, da' quali
depende la securtà e la fortezza del suo regno; et è necessario
che, posposto ogni altro respetto, quel signore se li mantenga
amici. Similmente el regno del Soldano sendo tutto in mano
de' soldati, conviene che ancora lui, sanza respetto de'
populi, se li mantenga amici. Et avete a notare che questo
stato del Soldano è disforme da tutti li altri principati;
perché elli è simile al pontificato cristiano, il quale
non si può chiamare né principato ereditario né principato
nuovo; perché non e' figliuoli del principe vecchio sono
eredi e rimangono signori, ma colui che è eletto a quel
grado da coloro che ne hanno autorità. Et essendo questo
ordine antiquato, non si può chiamare principato nuovo,
perché in quello non sono alcune di quelle difficultà che
sono ne' nuovi; perché, se bene el principe è nuovo, li
ordini di quello stato sono vecchi et ordinati a riceverlo
come se fussi loro signore ereditario.
Ma torniamo alla materia nostra. Dico che qualunque considerrà
el soprascritto discorso, vedrà o l'odio o il disprezzo
esser suto cagione della ruina di quelli imperatori prenominati,
e conoscerà ancora donde nacque che, parte di loro procedendo
in uno modo e parte al contrario, in qualunque di quelli,
uno di loro ebbe felice e li altri infelice fine. Perché
a Pertinace et Alessandro, per essere principi nuovi, fu
inutile e dannoso volere imitare Marco, che era nel principato
iure hereditario; e similmente a Caracalla, Commodo e Massimino
essere stata cosa perniziosa imitare Severo, per non avere
avuta tanta virtù che bastassi a seguitare le vestigie sua.
Per tanto uno principe nuovo in uno principato nuovo non
può imitare le azioni di Marco, né ancora è necessario seguitare
quelle di Severo; ma debbe pigliare da Severo quelle parti
che per fondare el suo stato sono necessarie, e da Marco
quelle che sono convenienti e gloriose a conservare uno
stato che sia già stabilito e fermo.
[ Torna
alla pagina dell'indice ]
|